Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22609 del 31/10/2011

Cassazione civile sez. I, 31/10/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 31/10/2011), n.22609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CHEMICARTA s.r.l., C.F. (OMISSIS) con domicilio eletto in Roma,

viale delle Milizie n. 19, presso l’Avv. Scalia Gemma che la

rappresenta e difende unitamente agli Avv.ti Leonardo Cattaneo e

Pietro Cattaneo, come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BURGO GROUP s.p.a. P. Iva (OMISSIS) (già CARTIERE BURGO s.p.a,

con domicilio eletto in Roma, viale Carso n. 77, presso l’Avv.

Pontecorvo Edoardo che la rappresenta e difende unitamente agli

Avv.ti Franzo Grande Stevens e Anita De Luca, come da procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Milano n.

1893/06 depositata il 15 luglio 2006.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 16 giugno 2011 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio

Zanichelli;

sentite le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

uditi gli Avv.ti Gemma Scalia e Edoardo Pontecorvo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Chemicarta s.r.l. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano che ha confermato quella del Tribunale con la quale è stata dichiarata la carenza di interesse della predetta Chemicarta in relazione alla sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità delle delibere assembleari della Cartiera Burgo s.p.a. di approvazione dei bilanci dal 1984 al 1994 nonchè di quella del dicembre del 2000 con la quale era stata disposta la distribuzione di un dividendo di L. 550 per azione e condannata la stessa alla rifusione delle spese anche ex art. 96 c.p.c..

A sostegno del ricorso propone quattro motivi con i quali in sintesi deduce: violazione dell’art. 100 c.p.c. per avere erroneamente la Corte d’appello ritenuto la sua carenza di interesse all’impugnazione dei bilanci; violazione e illegittimità costituzionale delle norme che regolano l’OPA su titoli azionari quotati (due motivi); l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel ritenere non oggetto di specifico motivo di impugnazione la condanna ex art. 96 c.p.c..

Resiste l’intimata con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Il Collegio ha disposto la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo con il quale si deduce violazione dell’art. 100 c.p.c. e nullità della sentenza è inammissibile per inidoneità dei quesiti.

Posto che con essi si chiede “Se non sia nulla e vada cassata la sentenza che neghi la legittimazione e l’interesse a proporre azione limitando il suo esame ad uno soltanto degli elementi addotti a dimostrazione della legittimazione e trascurando completamente altri elementi di per sè idonei a sorreggere quella legittimazione e quell’interesse” e “Se non sia nulla per “error in procedendo” una sentenza la cui motivazione ignori completamente una parte delle indicazioni documentate circa l’interesse ad agire dell’attore” sono innanzitutto evidenti l’assoluta genericità dei quesiti e la petizione di principio in relazione all’asserita idoneità degli elementi trascurati a confermare la legittimazione. Oltre a ciò i quesiti non sono rispettosi della ratio dell’art. 366-bis in quanto, mancando ogni collegamento con la concreta fattispecie e il principio che si vorrebbe affermato, la risposta eventualmente negativa richiesta dal ricorrente non sarebbe di per sè sufficiente a risolvere in suo favore il giudizio, risultando dunque i quesiti non conformi al principio già enunciato dalla Corte secondo cui “il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c. costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata e quindi non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità. Deriva da quanto precede, pertanto, che la parte deve evidenziare sia il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia – per ciascun motivo di ricorso – il principio, diverso da quello posto alla base del provvedimento impugnato, la cui auspicata applicazione potrebbe condurre a una decisione di segno diverso” (Cassazione civile, sez. 1, 13/10/2010, n. 21184).

Con il secondo motivo si deduce violazione “delle norma che regolano l’OPA sui titoli azionari quotati e in particolare sulle norme che regolano la facoltà di squeeze out”.

Il motivo è inammissibile sia in considerazione della formulazione del quesito (con cui si chiede se la norma sulla facoltà di acquisto delle azioni residue da parte di chi detenga il 98% del capitale in esito all’OPA sia dettata nell’interesse del medesimo), posto che se pure allo stesso venisse data risposta positiva non si comprende quale conseguenza ne deriverebbe in relazione al giudizio, sia perchè la questione non rileva comunque nella presente causa posto che la ricorrente non ha a suo tempo contestato la facoltà del titolare della quasi totalità del capitale di acquistare anche la azioni dalla stessa detenute.

Con il terzo motivo si deduce l’incostituzionalità della normativa che regola l’OPA su titoli azionari quotati e, in particolare, della norma relativa, alla cd. facoltà di “sqeeze out” (D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 111) che consente al socio portatore di almeno il 98% (poi 95%) del capitale sociale dopo l’esecuzione dell’OPA il diritto di acquistare le azioni residue, sostenendosi che la stessa tutela in via diretta unicamente il socio di maggioranza.

Il motivo è inammissibile in quanto, come risulta dall’impugnata decisione che ne ha tratto la conclusione circa la carenza di interesse in capo all’attuale ricorrente, la Chemicarta s.r.l. ha perso definitivamente la qualità di socia della Cartiere Burgo s.p.a. in data anteriore all’inizio delle azioni giudiziarie in trattazione per cui l’eventuale declaratoria di incostituzionalità della normativa denunciata non avrebbe alcuna rilevanza nel presente giudizio non potendo comunque detta qualità rivivere nè essendo in ogni caso ipotizzabile una qualche forma di ultrattività della stessa ai soli fini della legittimazione.

Il quarto motivo con il quale si deduce la violazione dell’art. 342 c.p.c. per avere erroneamente la Corte d’appello escluso che l’appellante Chemicarta s.r.l. avesse formulato uno specifico motivo di impugnazione della pronuncia del Tribunale di condanna ex art. 96 è infondato. Come sostanzialmente riconosce la stessa ricorrente, il motivo di censura sarebbe stato implicito in quanto la richiesta di riforma della sentenza di primo grado necessariamente conterrebbe anche la richiesta di modifica della pronuncia sulla responsabilità per lite temeraria che presuppone la contestata soccombenza; la tesi non convince in quanto la censura relativa alla condanna ex art. 96 c.p.c. assume rilievo solo nel caso in cui la pronuncia impugnata venga confermata per cui deve necessariamente essere formulata espressamente non trattandosi di mera conseguenza della soccombenza ma di autonoma pronuncia fondata su specifici presupposti che debbono pertanto essere specificatamente contestati.

Il ricorso deve dunque essere rigettato con le conseguenze di rito in ordine alle spese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese che liquida in complessivi Euro 5.200, di cui Euro 5.000 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2011

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