Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22605 del 10/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 10/08/2021, (ud. 20/04/2021, dep. 10/08/2021), n.22605

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

M.D., rappr. e dif. dagli avv. Nicola Palmiotti

studiopalmiotti.pec.giuffre.it e Michele Di Lembo

avv.michele.dilembo.pec.it, elett. dom. in Roma, Via Bolzano n.

32/B, come da procura in calce all’atto;

– ricorrente –

contro

CROCE VERDE MOLISANA, in persona del presidente p.t., rappr. e dif.

dall’avv. Nunzio Luciano, elett. dom. presso lo studio dell’avv.

Francesco Papandrea, in Roma, via Fulcieri Paulucci de’ Calboli n.

54, come da procura in calce all’atto;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza App. Campobasso 31.1.2019, n.

36/2019, in R.G. 124/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 20 aprile 2021 dal Consigliere Relatore FERRO

MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. M.D. impugna la sentenza App. Campobasso 31.1.2019, n. 36/2019, in R.G. 124/2016, che accoglieva il gravame proposto da CROCE VERDE MOLISANA (ASSOCIAZIONE) avverso la decisione Trib. Campobasso 1.9.2015, n. 605/2015 e così rigettava la sua domanda di annullamento della delibera assembleare dell’associazione avente ad oggetto la propria esclusione dalla medesima per mancanza ai relativi doveri;

2. la corte ha premesso che: a) M. aveva agito chiedendo dichiararsi l’illegittimità della sua espulsione da socio della associazione, adottata dall’assemblea il 17.11.2009, nonché pronunciarsi, oltre alla riammissione, la condanna al risarcimento dei danni e al pagamento dei rimborsi che avrebbe percepito, in difetto della decisione, per il servizio di volontariato ivi svolto; b) il tribunale aveva ritenuto la invalidità della delibera, disponendo la reintegrazione del socio escluso nella compagine associativa i) per omessa notificazione della stessa al socio escluso ex art. 24 c.c., comma 3, ii) per mancanza della preventiva contestazione degli addebiti al socio escluso, e iii) perché non contenente la specifica enunciazione delle condotte poste alla base dell’esclusione;

3. la corte ha ritenuto che: a) il preteso difetto di competenza deliberativa, sollevato dall’appellato M., era stato motivato dal tribunale ove poggiante sulla mancata applicazione di una norma statutaria, l’art. 40, mentre la delibera non vi faceva riferimento e dunque trovava applicazione l’ordinaria prerogativa affidata dall’art. 12 proprio all’assemblea e però tale statuizione non era stata impugnata con appello incidentale, non bastando la sua riproposizione quale mera eccezione, derivandone il giudicato sul punto; b) parimenti, la ragione di annullabilità per omessa convocazione, quale questione non esaminata dal tribunale, non aveva formato oggetto di appello ex art. 346 c.p.c. da parte dello stesso M.; c) doveva essere solo parzialmente accolto l’appello proposto dall’associazione, con la denuncia di erroneo richiamo al vizio per omessa notificazione della delibera al socio escluso ex art. 24 c.c., comma 3, e non piuttosto alla speciale regola procedimentale statutaria che si limitava, all’art. 40, comma 6, regolamento, alla comunicazione del provvedimento espulsivo con raccomandata e con 10 giorni assegnati per giustificarsi, conseguendone una mera emenda della motivazione, posto che – in materia – trovano applicazione i principi dettati per le delibere adottate ai sensi degli artt. 2287 e 2533 c.c., per cui l’incompletezza della comunicazione al socio non implica invalidità dell’atto, reagendo solo sul termine di decorrenza dell’eventuale opposizione; d) era erronea la parte del provvedimento che invalidava la deliberazione per mancata previa contestazione degli addebiti all’associato, poiché, in assenza di norme di legge o di disposizione statutaria al riguardo, la preventiva contestazione non risultava in realtà necessaria a pena d’invalidità del provvedimento, derivando l’accoglimento sul punto dell’appello; e) la carente specificità, in delibera, delle condotte giustificatrici dell’espulsione – altra causa d’invalidità secondo la sentenza impugnata – era parimenti insussistente, tenuto conto, per quanto emerso dall’istruttoria, di pregressi comportamenti minacciosi del socio M., culminati in condanna penale definitiva per il reato di cui all’art. 612 c.p. in relazione ad attività svolte per la associazione, nonché litigi e offese perpetrate verso altri associati e così essendo emersa una condotta gravemente riprovevole e ripetuta sotto il profilo, imposto dalle regole associative, di disciplina correttezza e decoro, alla luce di un principio di riassuntività della delibera stessa rispetto a fatti ivi richiamati e noti alla parte;

4. il socio escluso si affida al seguente motivo di ricorso: “violazione e falsa applicazione degli artt. 2287 e 2533 c.c. in relazione alla loro applicabilità in materia di esclusione dalla associazione. Violazione dell’art. 24 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, invocando la erroneità della sentenza laddove non ha riconosciuto la violazione degli artt. 12 e 13 del regolamento associativo e dell’art. 24 c.c. – tra l’altro – per non avere la associazione provato la trasmissione di una missiva (“diffida” del 14.9.2009) precedente alla delibera del consiglio direttivo del 2.11.2009, essendo poi mancata una previa contestazione al socio delle condotte indicate nella delibera assembleare finale, da ritenersi “mere illazioni”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. il ricorso è inammissibile, nella molteplicità pur non coordinata ed invero confusa dei plurimi profili esposti, nonché in relazione a concomitanti ragioni di limiti di perimetro delle censure;

2. osserva invero il Collegio che ” l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa” (Cass. s.u. 23745/2020); il ricorso non assolve a tale consolidato canone impugnatorio, evitando di confrontarsi in modo puntuale con la sentenza App. Campobasso 31.1.2019, n. 36/2019, in R.G. 124/2016 e piuttosto enunciando un richiamo insistito alle argomentazioni della sentenza di primo grado riformata, senza permettere una chiara, precisa, autosufficiente individuazione delle statuizioni effettivamente non condivise in relazione ad uno sviluppo intelligibile della critica processuale, coerente con il richiamo a punti effettivamente oggetto di contraddittorio fra le parti;

3. per quel che è dato comprendere, il ricorrente prospetta genericamente la violazione da parte del giudice di appello delle disposizioni dettate in tema di società semplice e cooperativa atte a regolamentare la procedura di esclusione del singolo socio e richiama la parte della sentenza che statuisce in merito all’applicabilità al caso di specie dei citati articoli, ma omette di illustrare le ragioni in virtù delle quali la corte sarebbe incorsa in dette violazioni, risultando allora l’applicazione delle norme di diritto oggetto di un richiamo vuoto di efficacia; invero, non è affrontata in alcun modo la ratio decidendi con cui la sentenza nega ingresso all’eccezione di “incompetenza istituzionale” dell’assemblea a deliberare la esclusione dell’associato, avendo omesso il ricorso di censurare la motivata reiezione in virtù del principio del limite dell’appello incidentale, non proposto; per questo profilo il motivo è inammissibile; va invero dato corso al principio, cui il ricorrente non oppone critica censurandone l’assenza dei presupposti che pure ne hanno motivato l’applicazione da parte del giudice di merito, per cui “le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado” (Cass. s.u. 7940/2019); né può dirsi che la questione della competenza fosse stata meramente assorbita, in virtù di altra pronuncia su ragione più liquida, da parte del tribunale (Cass. s.u. 13195/2018), sia perché la sentenza ne dà conto come di questione “motivatamente disattesà (pag.2), sia perché il ricorrente non trascrive né riporta in modo essenziale le sue difese di merito e l’eventuale punto di dissenso o difetto deliberativo della pronuncia di primo grado, ciò impedendo – pur con ogni scrupolo – di ravvisare un eventuale error in procedendo;

4. altrettanto inammissibile è la critica sollevata con riguardo alla pretesa violazione di un obbligo di previa contestazione dell’incolpazione espulsiva, anteriore alla sua adozione formale in un atto dell’organo competente, questione analogamente assorbita per difetto di appello incidentale e qui non contestata sotto questo preliminare profilo processuale; in materia, poi, vige il principio per cui i vizi delle delibere assembleari, si traducano essi in ragioni di nullità ovvero di annullabilità, possono essere fatti valere con azione giudiziaria, non soggetta a termini di decadenza, da qualunque associato, oltre che dagli organi dell’ente e dal P.M., solo con riguardo alle decisioni che abbiano contenuto diverso dall’esclusione del singolo associato, “mentre, per queste ultime, l’azione medesima è esperibile esclusivamente dall’interessato, nel termine di decadenza di sei mesi dalla loro notificazione ovvero dalla conoscenza dell’esclusione” (Cass. 8456/2014); orbene, nella vicenda non si fa questione di termine ed emerge piuttosto che l’elemento di garanzia per l’associato risulta sostanzialmente coerente con la avvenuta piena conoscenza dell’atto finale espulsivo adottato dall’assemblea, contro il quale è stata esperita la richiesta di piena verifica giudiziale; così che va data continuità al principio, espresso ai fini della validità di una delibera di esclusione del socio di una società cooperativa, ma estensibile anche alla associazioni, per cui “non è necessaria la preventiva contestazione dell’addebito al socio, atteso che tale contestazione non è prevista da alcuna disposizione di legge (né, nella specie, dello statuto) e che la fase contenziosa non ha carattere preventivo, ma segue in sede di opposizione” (Cass. 7308/1994); i limiti di autosufficienza del ricorso precludono una diversa disamina del riferimento organizzativo interno all’ente, stante l’omessa puntuale censura del punto di cui a pag.6 della sentenza, inequivoco anche nell’escludere tale previsione;

5. altrettanto negativamente si atteggia la censura, del tutto generica, sul limite notificatorio dell’atto espulsivo, rispetto al quale il ricorrente difetta d’interesse laddove non viene contestato che la delibera assembleare non enunciasse con chiarezza tale proposito risolutivo del rapporto associativo così da impedire ogni difesa in giudizio; così, proprio la giurisprudenza sulla disposizione civilistica richiamata in ricorso, con riguardo alle società cooperative, ai fini del decorso del termine per proporre opposizione avverso la deliberazione ai sensi dell’art. 2533 c.c., precisa che “non è necessaria la comunicazione di addebiti rigorosamente enunciati, dovendo l’esigenza di specificità della contestazione ritenersi soddisfatta allorquando le indicazioni fornite consentano di individuare le ragioni dell’esclusione, così da porre il socio in condizione di predisporre la difesa” (Cass. 19090/2018); tant’e’ che, si è statuito, la comunicazione al socio della delibera di esclusione adottata “svolge la funzione d’informarlo non tanto di ciò di cui si è discusso nel corso del procedimento, bensì delle ragioni in concreto ritenute giustificative dell’esclusione dall’organo deliberante, dal momento che su di esse egli dovrà articolare le proprie difese; la sua incompletezza non comporta pertanto l’invalidità dell’atto, ma incide esclusivamente sulla decorrenza del termine per l’opposizione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la conoscenza da parte del socio degli addebiti contestatigli nel corso del procedimento, in quanto gli stessi possono anche non coincidere con quelli posti a base dell’esclusione come deliberata dal competente organo societario, ben potendo accadere che gli iniziali addebiti siano ridimensionati o riconfigurati nella decisione finale, ovvero che quest’ultima, in caso di pluralità di addebiti, si basi soltanto su alcuni di essi” (Cass. 11558/2008); e pertanto, “per produrre i suoi effetti la comunicazione deve essere fatta personalmente al socio con un mezzo idoneo a garantire che l’interessato venga direttamente a conoscenza del provvedimento” (Cass. 7592/1999, 4126/1999), circostanza non affrontata criticamente in modo pertinente nel motivo;

6. il passaggio in giudicato sulla competenza assembleare, esplicitato dalla corte e non oggetto di censura specifica, ha infatti motivato correttamente la sentenza sul rilievo, positivamente riscontrato, della sufficiente specificità dell’atto finale, il solo che l’interessato, opponendosi, fa entrare quale oggetto di giudizio di merito in termini di conformità ai parametri normativi ed endoassociativi; in tema, opera per vero il principio, cui va data continuità, per cui – in ogni caso – “la mancata specificità degli addebiti nella comunicazione è irrilevante quando il socio escluso dimostri di essere pienamente consapevole delle concrete situazioni addebitategli, avendo fondato su di esse la propria difesa in sede di opposizione” (Cass. 10057/1999, oltre a Cass. 10497/98, 11637/1997, 7308/1994, 9577/1993);

7. tale enunciazione impone dunque il confronto con le ragioni imputazione degli atti all’associato, coerenza con le previsioni statutarie, gravità – quali riesaminate dal giudice di merito rispetto alla delibera espulsiva; sul punto il ricorrente circoscrive tuttavia la censura ad una mera qualifica di “illazione” dei fatti contestatigli; orbene, sotto tale profilo viene sbrigativamente prospettato un motivo di impugnazione che, pur in mescolanza poco comprensibile con la denuncia della violazione degli artt. 2287 e 2533 c.c., obbligherebbe a scrutinare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; nella specie, tuttavia, la sostanza della censura e l’esposizione delle ragioni di diritto non consentono di precisare e qualificare il contenuto della doglianza prospettata, non essendo dato rinvenire con sufficiente chiarezza alcun fatto decisivo di cui il socio escluso possa lamentare la mancata disamina da parte del giudice di merito; va invero ricordato che, secondo Cass. s.u. 8053/2014, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2 n. 4, “il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extra testuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; ed è quanto non riscontrabile nell’impugnazione”;

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile; da ciò consegue, oltre alla condanna del ricorrente alle spese, nella misura derivante dall’applicazione del principio della soccombenza, e liquidazione come meglio da dispositivo, la dichiarazione della sussistenza dei presupposti processuali del cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. s.u. 4315/2020).

P.Q.M.

la Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in Euro 4.000, oltre ad Euro 100 per rimborso, alla misura forfettaria del 15% sul compenso e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2021

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