Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22591 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. II, 16/10/2020, (ud. 24/07/2020, dep. 16/10/2020), n.22591

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2010-2016 proposto da:

C.R., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di

Cassazione e rappresentata e difesa dall’avvocato SABATO MARINO,

giusta procura notarile in atti;

– ricorrente –

contro

S.A., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati ANGELO

COSENTINO, e VITTORIO COSENTINO, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1051/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 03/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/07/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dalla ricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO

Con citazione notificata il 22/9/2006 C.R. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Castrovillari S.A., affinchè fosse accertato l’avvenuto acquisto per usucapione ordinaria del terreno e del fabbricato in (OMISSIS), meglio riportati in citazione. Deduceva che con sentenza del 1965 il Tribunale di Castrovillari aveva pronunciato la risoluzione del contratto di rendita vitalizia concluso dall’attrice con L.M.M., avente ad oggetto, a fronte dell’assistenza prestata dall’attrice, la cessione dei beni oggetto di causa e che tale sentenza era passata in giudicato a seguito di sentenza della Corte di cassazione del 1988.

Nelle more il Pretore di Mormanno con sentenza del 1965 aveva accolto la domanda dell’istante di reintegra nel possesso dei beni proposta nei confronti di S.V. quale successore della L.M., sentenza che era stata poi riformata in appello dal Tribunale di Castrovillari, con il rigetto della domanda attorea.

Sosteneva che nelle more aveva continuato a possedere i beni e che sui terreni, originariamente oggetto del contratto di rendita, aveva edificato un fabbricato.

Evidenziava altresì che S.A., succeduto al padre V., aveva agito nei confronti della C. al fine di ottenere il rilascio dei beni e che il giudizio era stato definito in primo grado con sentenza di accoglimento, ma con riconoscimento in favore della convenuta dell’indennità per le migliorie.

Nella resistenza del convenuto che eccepiva che sulla domanda di usucapione era già intervenuto un giudicato di rigetto, atteso che la sentenza del Tribunale di Castrovillari del 1985 era stata confermata dalla Corte di Cassazione, il giudice adito con sentenza del 18 ottobre 2010 rigettava la domanda della C., che era condannata anche al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c.

Avverso tale sentenza proponeva appello la C., cui resisteva il convenuto e la Corte d’Appello di Catanzaro con sentenza n. 1051 del 3/8/2015 rigettava il gravame, condannando l’appellante anche al risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata, determinato nell’importo di Euro 3.000,00.

Quanto al motivo di appello con il quale si contestava la ricorrenza di un giudicato in ordine all’acquisto per usucapione vantato dalla C., la Corte distrettuale osservava che, alla luce della documentazione in atti e del pregresso contenzioso insorto tra le parti, emergeva che l’azione avanzata dall’appellante dinanzi al Pretore di Mormanno con citazione del 25/10/1978 non aveva natura possessoria, bensì petitoria, essendo volta all’accertamento del diritto di proprietà sui medesimi beni, ma vantando un titolo negoziale.

Il ricorso avverso la pronuncia di rigetto emessa in grado di appello era stato disatteso dalla Corte di Cassazione, con la conseguenza che, vertendosi in materia di diritti reali, una volta rigettata la domanda di rivendica sulla base di un determinato titolo, resta preclusa la possibilità di accertare l’esistenza del medesimo diritto sulla base di un titolo di acquisto diverso.

Era altresì rigettato il motivo di gravame che contestava la legittimazione della controparte, atteso che, come si ricavava dai titoli in atti, i beni oggetto del contratto di rendita erano stati acquistati iure hereditario dalla L.M.M., in quanto vedova dell’originario proprietario B.A., per poi passare sempre a titolo successorio al secondo marito della L.M., S.V., padre e dante causa del convenuto S.A..

La sentenza impugnata osservava altresì che nel giudizio intentato dall’appellato al fine di conseguire il rilascio dei fondi, la C. non si era opposta, ma si era semplicemente limitata a richiedere un’indennità per i miglioramenti.

Tuttavia, le risultanze probatorie acquisite permettevano di affermare che non fosse stata fornita la prova di un possesso pacifico e continuativo, tenuto anche conto dell’esito dei vari giudizi che avevano visto sempre soccombente la C., con sentenze il cui contenuto è incompatibile con il possesso uti dominus vantato.

Quanto, infine, all’accoglimento della domanda ex art. 96 c.p.c., la Corte distrettuale rilevava che era condivisibile il giudizio del Tribunale che aveva ravvisato la mala fede o almeno la colpa grave dell’attrice, che aveva introdotto il giudizio dopo la definizione di altri tre processi aventi ad oggetto i medesimi beni, nel corso dei quali mai aveva fatto valere l’usucapione.

Si osservava inoltre che sussisteva il carattere temerario della lite per avere l’attrice agito nella coscienza dell’infondatezza della propria pretesa, ben potendosi ravvisare anche la ricorrenza del danno, da reputarsi di carattere esistenziale, per i disagi ai quali era stato esposto il convenuto per difendersi da una domanda palesemente infondata ed avanzata nella consapevolezza della sua infondatezza.

Avverso tale sentenza propone ricorso C.R. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.

S.A. resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1140 ed in subordine l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione.

Si assume che l’azione di usucapione proposta in questa sede è una domanda del tutto nuova rispetto a quelle avanzate in precedenza dall’attrice, che tendevano ad ottenere la proprietà dei beni oggetto di causa in virtù della sussistenza dell’originario contratto di rendita vitalizia.

In tal modo è stato violato l’art. 1140 c.c. negandosi al possesso il fatto di essere un potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, idoneo, se protratto nel tempo, a permettere l’acquisto a titolo originario a favore del possessore.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

Al riguardo occorre richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 21641/2019) la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cd. diritti autodeterminati, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non assolve ad una funzione di specificazione della domanda o dell’eccezione, ma è necessaria ai soli fini della prova.

Pertanto l’allegazione, nel corso del giudizio inteso alla tutela del diritto di proprietà, di un titolo diverso rispetto a quello posto originariamente a fondamento della domanda rappresenta solo un’integrazione delle difese, che non dà luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come non implica alcuna rinuncia a che il primo titolo dedotto venga anch’esso preso in considerazione nè influisce in alcun modo sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate nel medesimo “petitum”, consistente nella richiesta di accertamento del diritto di proprietà (in senso conforme Cass. n. 40/2015; Cass. n. 22598/2010; Cass. n. 212316/2013).

Se quindi è consentito nel giudizio volto a far valere l’esistenza di un diritto cd. autodeterminato l’allegazione nel corso del medesimo di un diverso modus adquirendi, senza che ciò immuti la causa petendi della domanda, in senso inverso deve reputarsi che, una volta dedotta l’esistenza del diritto di proprietà, ed intervenuto il rigetto della relativa domanda, resti preclusa la possibilità di far valere ex novo il medesimo diritto sulla base di un diverso titolo di acquisto (in tal senso si veda espressamente Cass. n. 1682/1991, secondo cui, atteso il carattere autodeterminato del diritto di proprietà e degli altri diritti reali di godimento, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, cioè del bene che ne costituisce l’oggetto, nelle azioni ad essi relative, la deduzione del fatto costitutivo non è necessaria ai fini della loro individuazione ma è rilevante soltanto ai fini della prova del diritto; pertanto qualora sia proposta una domanda di accertamento o di condanna, relativa ad uno dei suindicati diritti sulla base di un determinato fatto costitutivo, e questa venga rigettata per ragioni inerenti al fatto costitutivo dedotto, l’accertamento dell’inesistenza del diritto stesso fa stato anche nel successivo processo instaurato con la riproposizione della medesima domanda pure se fondata su di un diverso fatto costitutivo salvo se intervenuto “medio tempore” – trattandosi dello stesso “petitum” ed essendo irrilevante la “causa petendi”; nella specie l’attore aveva proposto in un precedente giudizio un'”actio confessoria servitutis”, asserita mente acquisita per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, omettendo di addurre un titolo negoziale costitutivo della servitù, che in base alle asserzioni da lui fatte in un secondo processo, era all’epoca già esistente).

Posti tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, si rileva che con sentenza n. 5121 del 1990 di questa Corte, emessa all’esito dell’udienza del 29/9/1988 (il che consente di identificare la stessa sentenza in quella alla quale si richiama la Corte d’Appello a pag. 5), nel decidere il ricorso della C. avverso la sentenza del Tribunale di Castrovillari, che aveva rigettato la domanda della stessa, volta a far valere il diritto di proprietà sui beni di causa, invocando a tal fine il contratto di rendita vitalizia e la circostanza che i diritti scaturenti dalla pronuncia di risoluzione di tale contratto si fossero ormai prescritti per non essere stati fatti valere nei dieci anni dalla sentenza favorevole alla L.M., ha rigettato l’impugnazione della odierna ricorrente.

La Corte in quella occasione ha osservato che con la pronuncia di risoluzione del contratto (che può avere natura dichiarativa o costitutiva, a seconda che ricorrano le ipotesi degli artt. 1454,1456 e 1457 c.c. ovvero degli artt. 1453 e 1467 c.c., come, peraltro, anche con quelle di annullamento, o di rescissione, aventi natura costitutiva, che facciano cessare un rapporto giuridico esistente) l’effetto che di essa è proprio si realizza e si consuma nel momento stesso della pronuncia passata in giudicato.

Pertanto, nel periodo successivo, vengono in considerazione i diritti oggetto del contratto risolto (o annullato o rescisso) e trova applicazione il regime prescrizionale proprio di essi; nel caso in esame, si trattava del diritto di proprietà, che, come rilevato dal Tribunale, non è prescrittibile, salvo il verificarsi dell’usucapione a favore di un terzo (usucapione però non dedotta).

Il rigetto della domanda della C. volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà sul presupposto rivelatosi erroneo che, una volta dichiarata con efficacia di giudicato la risoluzione del contratto con il quale si era resa acquirente del bene, si fosse prescritto l’avverso diritto della L.M. (e poi dei suoi eredi), per il decorso del termine decennale, impone di ritenere, per quanto sopra esposto, che il preteso possesso esercitato in data anteriore al passaggio in giudicato della sentenza che ha rigettato la domanda di rivendica della ricorrente (e cioè al 31 maggio 1990, data di pubblicazione della sentenza di questa Corte n. 5121/1990) la ricorrente non possa essere invocato ai fini di fondare una domanda di usucapione, essendo la sua rilevanza preclusa dal giudicato intervenuto.

Quanto invece al preteso possesso esercitato in epoca successiva al giudicato de quo, occorre rilevare che, alla data di proposizione della domanda introduttiva del presente giudizio (22/9/2006), non era ancora maturato il ventennio utile a consentire l’acquisto a titolo originario, di guisa che risulta incensurabile la decisione gravata nella parte in cui ha escluso che, stante il preesistente giudicato negativo sulla domanda di riconoscimento del diritto di proprietà vantato dalla ricorrente, il successivo possesso, alla data di introduzione del giudizio in esame, fosse idoneo a permettere l’acquisto della proprietà a titolo originario.

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 c.c. e dell’art. 167 c.p.c., comma 2; travisamento dei fatti ed erronea valutazione delle risultanze processuali.

Sostiene la C. che la sentenza del Tribunale, con motivazione condivisa dal giudice di appello, aveva valorizzato la circostanza che nel giudizio intentato dal S. per il rilascio dei fondi, la ricorrente si era limitata a proporre la domanda riconvenzionale per il pagamento dell’indennità ex art. 1150 c.c., senza addurre anche la titolarità del diritto di proprietà.

Tale affermazione sarebbe in contrasto con l’art. 167 c.p.c., comma 2 che se da un lato prevede che la domanda riconvenzionale debba essere avanzata nella comparsa di risposta, dall’altro non impone che ciò debba avvenire necessariamente nello stesso giudizio, nulla impendendo che la domanda, come avvenuto nel caso in esame sia avanzata autonomamente.

Inoltre, si contesta l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui non sarebbe stato dimostrato il possesso utile ad usucapire, mal valutando le deposizioni dei testi.

Il motivo è inammissibile nella parte in cui – denunciando l’erronea valutazione delle deposizioni testimoniali, delle quali non riporta nemmeno il contenuto in motivo, e ciò in violazione del principio di specificità, che impone alla parte, che intenda contestare l’apprezzamento dei mezzi istruttori, di trascrivere in ricorso il preciso contenuto delle deposizioni e delle prove di cui invoca l’efficacia – nella sostanza sollecita questa Corte ad un non consentito riesame della valutazione del materiale istruttorio, compito questo riservato al giudice di merito, e trascurando altresì che, a seguito della novella del 2012, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 consente solo di denunciare l’omessa disamina di fatti decisivi, e non anche l’insufficiente ovvero contraddittorio apprezzamento del materiale probatorio.

Quanto, invece alla denuncia di violazione dell’art. 1158 c.c., le considerazioni spese in occasione della disamina del primo motivo, e basate sul fatto che il precedente giudicato di rigetto della domanda di rivendica dell’attrice abbia sterilizzato ai fini della pretesa usucapione il possesso esercitato dalla stessa in epoca anteriore al formarsi del giudicato di rigetto, denota l’irrilevanza delle doglianze in esame, fondate essenzialmente sulla pretesa di considerare ai fini dell’usucapione anche il tempo di possesso asseritamente maturato in epoca precedente il detto giudicato.

Nè appare centrata la censura riferita all’erronea applicazione dell’art. 167 c.p.c., comma 2, emergendo dal complessivo ragionamento del giudice di appello come il richiamo alla mancata proposizione in via riconvenzionale, nel giudizio volto ad ottenere il rilascio dei beni intentato dal controricorrente, della domanda di usucapione, fosse indirizzato non già a ritenere ex se inammissibile la successiva proposizione della domanda di usucapione oggi all’esame della Corte, ma a valorizzare la complessiva condotta della C., quale confermativa della non ricorrenza di un possesso in capo alla stessa, come peraltro confortato dall’esito dei precedenti giudizi intercorsi tra le parti (che rendeva ininfluente il contenuto della prova testimoniale).

Anche tale motivo deve essere rigettato.

3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. con ulteriore travisamento dei fatti.

Oltre a ribadirsi la non obbligatorietà della proposizione della domanda riconvenzionale nel diverso giudizio proposto dal convenuto per il rilascio dei fondi, si deduce ancora una volta che la ricorrente ha pacificamente posseduto i beni per un tempo utile ad usucapire, così che la condanna per responsabilità processuale aggravata è del tutto priva di giustificazione.

Il motivo deve essere rigettato.

Questa Corte ha reiteratamente affermato che (Cass. n. 3032/1978) ai fini della condanna per responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., non occorre necessariamente la consapevolezza del proprio torto al momento della proposizione della domanda da parte dell’attore (ipotesi, peraltro, prevista dal citato articolo con l’espresso riferimento alla “mala fede”) ma è sufficiente la “colpa grave”, la quale si concreta nel mancato doveroso impiego di quella diligenza, che consenta di avvertire facilmente l’ingiustizia della propria domanda. L’accertamento di tale “colpa grave”, implicando un apprezzamento di mero fatto, è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

Trattasi di principio ribadito anche di recente da Cass. n. 19298/2016 a mente della quale l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo – per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 – il controllo di sufficienza della motivazione.

La Corte di merito con ampia ed argomentata motivazione, ed avuto riguardo al complessivo sviluppo delle numerose vicende processuali che hanno visto contrapposte le parti, e sempre con esito sfavorevole per la ricorrente, ha evidenziato le ragioni in base alle quali l’odierna domanda era da reputarsi temeraria, ritenendo che fosse stato posto in essere un autentico abuso del diritto.

A tale analitica ricostruzione, corredata anche da puntuali riferimenti giurisprudenziali, la ricorrente si limita a contrapporre il proprio personale convincimento, peraltro smentito già dalla disamina dei precedenti motivi, della bontà della propria domanda di usucapione, aspirando nella sostanza ad una non consentita rivalutazione del merito.

Quanto, infine alla deduzione secondo cui la somma dovuta a titolo risarcitorio sarebbe stata liquidata senza la prova del danno, valga richiamare il principio secondo cui (Cass. n. 8857/1996) l’espressa previsione, da parte dell’art. 96 c.p.c., del potere del giudice di liquidare il danno da responsabilità processuale aggravata si basa sulla considerazione che tale danno non può di norma essere provato nel suo esatto ammontare e quindi deve poter essere liquidato equitativamente dal giudice (conf. Cass. n. 10196/2000), avendo la sentenza gravata fatto puntuale riferimento ai fini dell’individuazione dell’an della pretesa risarcitoria ai pregiudizi anche di carattere non patrimoniale cagionati al convenuto costretto a difendersi da una domanda del tutto destituita di fondamento, con un peggioramento “delle attività realizzatrici della persona”.

4. Al rigetto del ricorso consegue altresì la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio.

Inoltre, tenuto conto della sostanziale reiterazione di tesi difensive già ritenute dalla Corte d’Appello idonee a fondare la responsabilità ex art. 96 c.p.c., e senza la valida allegazione di argomenti tali da giustificare un diverso esito, deve reputarsi che anche la proposizione del ricorso si concreti in un vero e proprio abuso del diritto di impugnazione e legittimi la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3 da parte di questa Corte (cfr. Cass. n. 29462/2019, secondo cui in tema di responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., comma 3, costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell’atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poichè pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame).

A tale titolo la ricorrente deve esser quindi condannata al pagamento della somma di Euro 1.500,00 così determinata in via equitativa.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese di legittimità, che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori come per legge.

Condanna la ricorrente al pagamento ex art. 96 c.p.c. in favore del controricorrente della somma di Euro 1.500,00.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 24 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

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