Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22586 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. II, 16/10/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 16/10/2020), n.22586

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 1384/16) proposto da:

D.A.C., (C.F.: (OMISSIS)), D.A.V., (C.F.:

(OMISSIS)), e D.A.N., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e

difesi, in virtù di procura speciale apposta a margine del ricorso,

dal prof. Avv. Giorgio Costantino, ed elettivamente dorniciliati

presso il suo studio, in Roma, via Cassiodoro, n. 1/a;

– ricorrenti –

contro

D.P.A.M., (C.F.: (OMISSIS)), D.P.M.P., (C.F.:

(OMISSIS)), e D.P.V.S., (C.F.: (OMISSIS)), tutte

quali eredi dell’avv. D.P.B., rappresentate e difese, in

virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv.

Giovanni Franzese, ed elettivamente domiciliate presso lo studio

dell’Avv. Renato Macro, in Roma, viale Mazzini, n. 6;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di appello di Bari n. 501/2015

(depositata il 30 marzo 2015 e non notificata);

letta la memoria depositata dal difensore delle controricorrenti ai

sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c.;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22 luglio 2020 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

riconvocata la Camera di consiglio per il 29 luglio 2020.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato il 30 maggio 2002, i sigg. I.A., D.A.C., D.A.V. e D.A.N. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Trani, l’avv. D.P.B., proponendo opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 127/2002 con il quale era stato loro intimato il pagamento della somma di Euro 57.666,10, oltre interessi legali e spese processuali, a titolo di compenso professionale per l’attività legale svolta nell’interesse del loro dante causa fino al marzo 1992 e, successivamente, per loro conto fino al novembre 2001.

Gli opponenti chiedevano la revoca dell’opposto provvedimento monitorio e, in via subordinata, la rideterminazione del credito professionale in virtù della tariffa professionale applicabile, avuto riguardo all’effettiva prestazione espletata, al valore della stessa e con il computo della detrazione degli acconti corrisposti.

L’opposto professionista si costituiva in giudizio contestando l’avverso atto di opposizione, deducendo di aver ricevuto soltanto un assegno per l’importo di Lire 25.000.000, quale acconto per l’attività professionale prestata, ragion per cui aveva agito in sede monitoria per l’ottenimento di quanto ancora dovuto a titolo di compenso.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 427/2008, in accoglimento parziale della formulata opposizione e previa revoca dell’opposto decreto ingiuntivo, rideterminava il credito professionale ancora spettante all’avv. D.P. nella misura di Euro 50.681,09, ragion per cui, computando l’avvenuto versamento in suo favore nelle more del giudizio dell’importo di Euro 40.391,00, condannava gli opponenti al pagamento del residuo importo di Euro 10.290,09, al lordo delle imposte e con la maggiorazione delle spese e degli interessi legali dalla domanda al saldo.

Condannava, inoltre, gli opponenti alla rifusione, in favore dell’opposto ed in ragione di 3/4, delle spese processuali (determinate per l’intero in Euro 17.168,10), compensando il residuo quarto.

2. Interposto appello da parte degli opponenti in primo grado (ad eccezione della I.A.) e nella costituzione dell’appellato, con la prosecuzione del giudizio da parte delle sue eredi per il sopravvenuto decesso dell’avv. D.P.B., la Corte di appello di Bari, con sentenza n. 501/2015 (depositata il 30 marzo 2015), accoglieva il gravame solo limitatamente alla liquidazione delle spese e degli onorari e diritti come compiuta con l’impugnata sentenza (confermata nel resto), che veniva rideterminata nella misura complessiva di Euro 10.410,16, oltre accessori di legge, compensando per 1/4 le spese del doppio grado di giudizio ed accollando i restanti 3/4 agli appellanti, avuto riguardo all’esito complessivo della lite.

A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte barese rilevava il difetto del dedotto vizio di ultrapetizione e la mancata prova, da parte degli appellanti, dell’avvenuta consegna di assegni per l’importo di Lire 29.652.877 in favore dell’avv. D.P.B., ravvisando – come già detto – la fondatezza del gravame limitatamente alla statuizione sull’entità delle spese giudiziali come effettuata all’esito del giudizio di primo grado.

3. Avverso la citata sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, D.A.C., D.A.V. e D.A.N..

Le Intimate D.P.A.M., M.P. e V.S., eredi del D.P.B., hanno resistito con un unico controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la nullità della sentenza e del procedimento di secondo grado per violazione degli artt. 112,183,342,633 e 645 c.p.c., sul presupposto che la Corte barese aveva illegittimamente confermato la sentenza di primo grado, con la quale, anche in assenza di una specifica ma inammissibile domanda, era stato accertato un maggior credito in favore del creditore opposto nella complessiva misura di Euro 67.956,57.

In altri termini, secondo la prospettazione dei ricorrenti, poichè con il ricorso monitorio era stata chiesta l’emissione del decreto ingiuntivo per il pagamento di Euro 57.666,10, siccome era stato accertato il pagamento pregresso per Euro 17.275,47 e in quanto era rimasto riscontrato che, in corso di causa, era stata corrisposta l’ulteriore somma di Euro 40.391,00, il Tribunale non avrebbe potuto, in base all’accertamento di un maggior credito di Euro 67.956,57, condannare essi ricorrenti al pagamento della somma di Euro 10.290,09. Avendo così statuito lo stesso Tribunale era incorso – sempre ad avviso dei ricorrenti – nel vizio di ultrapetizione avuto riguardo al “quantum” richiesto con il ricorso per decreto ingiuntivo dall’avv. D.P.B., vizio che – seppure specificamente fatto valere anche con l’atto di appello – era stato respinto dal giudice di secondo grado.

2. Con la seconda doglianza i ricorrenti hanno denunciato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 112,342,636 c.p.c. e artt. 1193 e 2697 c.c., perchè, pur avendo essi dedotto la mancata prova delle prestazioni eseguite dall’avv. D.P. nonchè l’imputazione dei pagamenti che lo stesso aveva riconosciuto come ricevuti, l’opposto-appellato professionista non aveva assolto al relativo onere probatorio, come gli incombeva.

3. Ritiene il collegio che il primo motivo – pur adducendo argomentazioni condivisibili sul piano giuridico generale circa la specificità del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo un relazione alla delimitazione del relativo oggetto e con riferimento ai presupposti per la legittimità dell’eventuale suo ampliamento – non è fondato, non essendosi venuta, in effetti, a configurare la denunciato violazione dell’art. 112 c.p.c., avuto riguardo alla specificità dell’opposizione ex art. 645 c.p.c., come svoltasi nel caso oggetto del contendere.

Vertendosi nell’ipotesi di vizio processuale è legittimo l’esame, da parte di questa Corte, degli atti processuali.

Orbene, sulla scorta di essi, si evince che con la sentenza del Tribunale di Trani, confermata sul punto dalla Corte di appello di Bari (con la pronuncia impugnata in questa sede), non si era affatto pervenuto al riconoscimento di una somma superiore rispetto a quella richiesta con il ricorso monitorio, tenendo conto che con quest’ultimo era stata chiesta, quale onorario, la somma di Euro 51.456,57 (determinata, quindi, nel “quantum”), oltre a quella dovuta per diritti e spese (relativi all’intera attività professionale espletata), quantificata in Euro 18.879,13.

E’ necessario rilevare che nel ricorso per decreto ingiuntivo il ricorrente dava atto della pregressa corresponsione dell’importo di Euro 12.669,60, così pervenendosi, effettivamente, all’importo richiesto in monitorio per Euro 57.666,10.

All’esito del giudizio di opposizione il Tribunale ha ritenuto provata – alla stregua della valutazione della documentazione afferente alla complessiva attività professionale svolta dall’avv. D.P.B. – e congrua l’intera somma come invocata a titolo di onorari (per Euro 51.456,70) e ha riconosciuto dovuta, per i soli diritti connessi, la ridotta somma 16.500,00 così giungendosi ad un totale di Euro 67.956,57, dal quale defalcare l’importo di Euro 1.7275,48 (quale somma da imputare agli anticipi ritenuti provati, e non solo nel ridotto importo indicato dall’avvocato ricorrente in monitorio in Euro 12.669,60), così giungendosi a ritenere ancora dovuto, per onorari e diritti maturati avuto riguardo alla integrale prestazione professionale per la quale era stato attivato il procedimento monitorio, l’importo di Euro 51.456,57.

E’ poi pacifico che nel corso del giudizio di primo grado è stata corrisposta dagli opponenti la somma di Euro 40.391,00 (successivamente alla concessione della provvisoria esecuzione dell’opposto decreto ingiuntivo fino a tale limite), O9 ciò scaturendo un residuo ancora dovuto agli eredi dell’avv. D.P. nella misura di Euro 10.290,09, corrisponde alla somma al cui pagamento gli attuali ricorrenti sono stati, perciò, legittimamente condannati con la sentenza di primo grado, all’esito di un corretto percorso logico-fattuale-giuridico, con pronuncia pienamente condivisa dal giudice di appello che, pertanto, ha ritenuto insussistente il motivo dinanzi alla stessa proposto con apposita doglianza formulata nell’interesse degli attuali ricorrenti.

Risulta, quindi, evidente l’infondatezza del primo motivo in esame poichè, sulla scorta degli accertamenti fattuali eseguiti e delle conseguenti corrette argomentazioni giuridiche addotte dalla Corte territoriale (confermative di quelle del giudice di prime cure), non sussiste alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che nel determinare il saldo residuo in favore dei controricorrenti i giudici di merito si sono mantenuti nei confini del “quantum” dedotto in sede monitoria sulla scorta di un’esatta ricostruzione dei complessivi rapporti professionali intercorsi tra l’avv. D.P. e i suoi assistiti nelle varie vicende processuali in cui lo stesso legale aveva esercitato la relativa attività forense. Infatti, posto che l’oggetto del processo di opposizione al decreto monitorio era da ritenersi cristallizzatosi, con riferimento al quantum, nell’importo dedotto dal professionista in sede monitoria, è emerso che non è stato determinato, in favore degli eredi del professionista, un importo in melius a vantaggio del loro dante causa (ricorrente per decreto ingiuntivo), ma in pejus per come scaturente dal confronto tra la somma richiesta ai sensi degli artt. 633 e 636 c.p.c. e quella inferiore determinata all’esito del giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c., con l’individuazione della somma finale nei termini indicati per effetto dello scomputo degli altri pagamenti “medio tempore” sopravvenuti.

4. Il secondo motivo è, per un verso, inammissibile e, per altro verso, destituito di fondamento.

Nella sentenza qui impugnata la Corte barese – a fronte della proposizione di apposito motivo in ordine al dedotto mancato assolvimento dell’onere probatorio cui era tenuto l’opposto professionista sia con riferimento all’insufficiente pagamento dei compensi dovuti dall’originario cliente sia in relazione all’inadeguata prova circa la reale entità delle molteplici attività professionali dedotte dall’avv. D.P. – ha giudicato tale censure, sotto il duplice profilo prospettato, prive di specificità (v. pagg. 12-14 della sentenza stessa).

Orbene, questa ratio decisoria non risulta attinta dal motivo in esame, con il quale i ricorrenti, pur contestando possibili violazioni processuali e sostanziali (riferite agli artt. 112,342,636 c.p.c. e artt. 1193 e 2697 c.c.), come tali ipoteticamente idonee a comportare la nullità della sentenza di appello e del relativo procedimento, hanno inteso confutare la decisione impugnata solo nell’ottica dell’asserita sussistenza delle citate violazioni ma non si sono confrontati con l’univoca pronuncia pregiudiziale dichiarativa, nell’impugnata sentenza, del difetto di specificità con riferimento al motivo di gravame in questione.

A tal proposito deve, perciò, trovare applicazione il principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità, con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, deve ritenersi ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è, viceversa, inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (cfr. Cass. SU n. 3840/2007 e, da ultimo, Cass. 11675/2020).

In altri termini, ove il giudice, dopo aver dichiarato inammissibile un motivo d’impugnazione, in tal modo spogliandosi della “potestas iudicandi”, abbia ugualmente proceduto al loro esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici con la conseguenza che la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità la quale costituisce la vera ragione della decisione; pertanto, ove tale statuizione non sia specificamente impugnata, la doglianza si rivela inammissibile.

Risulta afferente ad una questione nuova – e, perciò, va considerata anch’essa inammissibile – la contestazione attinente alla supposta violazione dell’art. 1193 c.c. (non evincendosi dal corpo del ricorso quando e come fosse stata fatta valere nei gradi di merito e non desumendosi nemmeno dalla motivazione della sentenza qui impugnata).

Va respinto, invece, il motivo nella parte in cui si censura la statuizione del giudice di appello in ordine al principio giuridico applicato sul riparto dell’onere probatorio in tema di azione di pagamento di competenze professionali, pur dovendosi provvedere alla correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, tuttavia ad esso conforme in dispositivo.

La Corte di appello ha, infatti, erroneamente applicato il principio affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 13533/2011 in tema di assolvimento dell’onere probatorio con riferimento all’adempimento, in generale, delle obbligazioni contrattuali.

Essa, però, non si è avveduta che, con riguardo ai giudizi aventi specificamente ad oggetto l’accertamento di un credito per prestazioni professionali, incombe sul professionista la prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, dell’effettivo espletamento dello stesso nonchè dell’entità delle prestazioni svolte (cfr., ad es., Cass. n. 9254/2006 e, più di recente, Cass. n. 21522/2019).

E’ stato più precisamente chiarito (v. Cass. n. 5884/2006) che mentre ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo a norma dell’art. 636 c.p.c., la prova dell’espletamento dell’opera e dell’entità delle prestazioni può essere utilmente fornita con la produzione della parcella e del relativo parere della competente associazione professionale, tale documentazione non è più sufficiente nel giudizio di opposizione, il quale si svolge secondo le regole ordinarie della cognizione e impone, quindi, al professionista, nella sua qualità di attore (in senso sostanziale), di fornire gli elementi dimostrativi della pretesa, con la conseguenza che il giudice di merito non può assumere come base di calcolo per la determinazione del compenso le esposizioni di detta parcella contestate dal debitore.

Ma se ciò è giuridicamente corretto, nella fattispecie la Corte di secondo grado ha compiutamente riaccertato (con motivazione adeguatamente svolta e, perciò, insindacabile nella presente sede: v. pag. 13 dell’impugnata sentenza), sulla base dei puntuali riscontri operati dal giudice di prima istanza che l’avv. D.P. aveva concretamente provato (con esaustività della prodotta documentazione complessiva) – per giustificare l’importo richiesto e da ritenersi certamente congruo in correlazione all’opus realizzato – la pluralità e la complessità dei giudizi in cui aveva patrocinato i suoi assistiti (con l’indicazione del numero e della consistenza delle prestazioni eseguite dinanzi ai vari uffici giudiziari, oltre che degli esiti dei relativi giudizi) e il valore delle specifiche controversie, dandosi atto (e senza che sul punto gli attuali ricorrenti avessero mosso contestazioni specifiche) delle tariffe professionali temporalmente applicabili, al fine di pervenire alla quantificazione totale degli onorari e dei diritti maturati in favore del citato professionista legale.

Pertanto, se è pur inappropriato il richiamo al principio statuito dalle Sezioni unite con la sentenza n. 13533/2001, la Corte di merito ha verificato, in concreto, che il professionista aveva assolto all’onere probatorio che gli incombeva con riguardo al puntuale riscontro dei fatti costitutivi della sua pretesa economica, nel mentre i clienti debitori non avevano dato prova, oltre a quella concernente i pagamenti già detratti (e prima riportati), di aver completamente estinto il loro debito per il credito professionale vantato dall’avv. D.P..

5. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso (pur correggendosi parzialmente la motivazione in diritto dell’impugnata sentenza, conforme, però, allo stesso in dispositivo), deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo, con distrazione in favore del difensore delle parti controricorrenti, per dichiarato anticipo.

Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, sempre con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 5.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge, con attribuzione al difensore antistatario delle parti controricorrenti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, in via solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, dalla Sezione Seconda Civile, a seguito di riconvocazione della Camera di consiglio, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

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