Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22580 del 07/11/2016

Cassazione civile sez. II, 07/11/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 07/11/2016), n.22580

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3183/2012 proposto da:

S.L., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, V.

PREMUDA 6, presso lo studio dell’avvocato IVAN MARRAPODI,

rappresentata e difesa dall’avvocato NICOLA SIRACUSANO;

– ricorrente –

contro

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BUCCARI N.

3, presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA SALVUCCI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANIELLO PULLANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 289/2011 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 15/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito l’Avvocato PULLANO ANIELLO difensore del resistente che si

riporta agli atti depositati e chiede rigetto del ricorso e condanna

spese;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento 1-2-3

assorbito il 4 motivo del ricorso; inammissibilità del

controricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 9 aprile 1998 S.N. e S.L. convenivano in giudizio P.G. avanti al Tribunale di Messina deducendo di essere proprietari di un fondo e di un fabbricato confinante col terreno di parte convenuta; assumevano che, nel corso di recenti lavori di costruzione del proprio immobile, il convenuto aveva recintato il proprio fondo con un’apertura che consentiva l’accesso al terreno confinante, installato dei picchetti di recinzione, collocato delle tubature a distanza non consentita, ampliato un balcone e posto in essere altre piccole opere non consentite; chiedevano pertanto che fosse dichiarata l’illegittimità delle servitù costituite attraverso gli interventi posti in essere e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.

P.G. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attrice. Asseriva che da tempo immemorabile veniva esercitata la servitù di passaggio per raggiungere una presa d’acqua e per accedere al proprio fondo e rilevava di godere di una servitù di veduta diretta sul fondo di controparte, veduta esercitata da un ampio balcone che non era stato modificato; evidenziava che dette servitù erano state costituite per destinazione del padre di famiglia e, comunque, per usucapione.

Il Tribunale dichiarava l’inesistenza della servitù di passaggio e rigettava le altre domande.

La sentenza era impugnata dai S., i quali deducevano l’erronea valutazione del giudice di prime cure con riguardo alla distanza del balcone ampliato rispetto al confine; si dolevano altresì dell’assenza di un ordine di eliminazione dell’apertura che poteva consentire il passaggio sul fondo nonchè, infine, la mancata condanna, sia pure generica, al risarcimento dei danni.

P. spiegava appello incidentale censurando la sentenza nella parte in cui aveva statuito l’inesistenza delle servitù di passaggio.

La Corte di appello di Messina rigettava sia il gravame principale che quello incidentale.

La pronuncia è stata impugnata per cassazione da S.L. e N., il quale ha fatto valere quattro motivi di ricorso, illustrati da memoria. P.G., a mezzo del suo difensore, ha preso parte alla discussione orale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va anzitutto dato atto della tardiva notificazione del controricorso.

Il primo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 949 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 872 e 873 c.c. e dell’art. 28, comma 3, delle norme di attuazione del piano regolatore generale di Messina. Assumono i ricorrenti di aver contestato alla controparte che l’opera realizzata era illegittima sotto il duplice profilo della irregolare costituzione di una servitù di veduta e della violazione della distanza dal confine; pertanto, ad avviso dei ricorrenti, incombeva all’odierna controricorrente l’onere di provare le condizioni perchè la servitù di veduta potesse considerarsi validamente costituita e a tal fine non era sufficiente ipotizzare che il manufatto era rimasto inalterato, nè limitarsi a stabilire a che distanza dal fondo del vicino esso si trovasse. In particolare, il consulente nominato nulla aveva riferito in ordine al rispetto della normativa regolamentare, la cui violazione era stata oggetto di specifica censura. A tal fine gli istanti richiamavano l’art. 28, comma 3, citate norme di attuazione le quali stabilivano che la distanza minima degli edifici dai confini di proprietà non poteva essere inferiore alla metà dell’altezza dei nuovi edifici e comunque a metri cinque. La Corte di appello, secondo gli istanti, nemmeno si era pronunciata sul punto, avendo trattato solo della distanza prevista dall’art. 905 c.c., incorrendo quindi alla violazione dell’art. 112 c.c.. Essendo stata proposta un’azione negatoria, l’onere della prova gravava, anche a tale riguardo, su P.G. e comunque il limite previsto dalla norma regolamentare era stato sicuramente violato.

Il motivo non ha fondamento.

La Corte di merito, sul punto, ha osservato che con riguardo alla contestata servitù di veduta risultante da un asserito ampliamento del balcone del corpo di fabbrica rispetto alla configurazione iniziale, oggetto del primo motivo di appello, spettava agli attori in negatoria dar prova del prospettato avanzamento del manufatto rispetto alla posizione originaria. L’assenza di un riscontro in tal senso assumeva, secondo il giudice dell’impugnazione, una importanza decisiva ai fini del rigetto della proposta domanda.

Tali affermazioni sono da condividere.

Gli attori, con la propria azione, hanno conferito rilievo ai lavori di rifacimento del terrazzo, assumendo che attraverso di essi il balcone in questione sarebbe stato ampliato. E’ evidente che in tanto gli istanti hanno attribuito rilievo al nuovo intervento, in quanto quest’ultimo – e non l’originaria edificazione del manufatto – determinava, a loro avviso, il possesso di una illegittima servitù di veduta.

Ora, se l’attore in negatoria correla il contestato jus in re aliena a un mutato stato di fatto,

difforme da quello originario che quindi, implicitamente ritiene conforme al diritto – è suo onere dimostrare l’asserita modificazione dello stato dei luoghi. Se così non fosse, il convenuto dovrebbe ritenersi gravato dell’onere di dimostrare che anche la situazione originaria era legittima: il che però non può essere, in quanto il convenuto in negatoria non può essere tenuto a provare un diritto estraneo al contenuto dell’altrui domanda.

Del resto, secondo la giurisprudenza di questa S.C., se l’attore affermi che la veduta sia stata aperta in sostituzione di un’altra veduta di cui ammetta o non contesti la conformità al diritto, deve dimostrare il presupposto su cui si basa la sua pretesa, cioè la difformità della nuova veduta rispetto a quella preesistente (Cass. 29 settembre 2009, n. 20871; Cass. 13 giugno 1994, n. 5734).

Per quel che concerne, poi, la lamentata violazione della disciplina regolamentare concernente le distanze tra costruzioni, occorre osservare che non si evince, dal contenuto del ricorso, se e in che modo gli odierni ricorrenti avessero prospettato la questione in grado di appello. Gli istanti assumono che la Corte territoriale abbia sul punto mancato di rendere la pronuncia che le era stata richiesta. Nondimeno, è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, così da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. 20 agosto 2015, n. 17049). Nella fattispecie, i ricorrenti richiamano una censura relativa alla “errata valutazione delle distanza del balcone ampliato rispetto al confine” (pag. 3 del ricorso): locuzione, questa, del tutto ambigua, la quale è bensì congruente con il tema relativo al distacco della veduta, a norma dell’art. 905 c.c., ma che non implica la proposizione di un motivo di appello fondato pure sulla dedotta violazione del regolamento edilizio.

Il secondo mezzo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., oltre che omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo. Rilevano i ricorrenti che nell’atto di citazione introduttivo del giudizio avevano dedotto che la controparte aveva aperto nel suo muro di recinzione un varco che gli consentiva l’accesso al loro fondo e collocato, inoltre, sul terreno di loro proprietà, alcuni picchetti allo scopo di recintare una parte di esso. Hanno altresì dedotto che, nel costituirsi in giudizio P. aveva affermato che i paletti erano stati posti sul confine, predisponendosi a una recinzione il proprio fondo. Il Tribunale aveva poi ritenuto non potersi ordinare la chiusura del porta sita nella parete di recinzione del fondo di P. in quanto lo stesso aveva il diritto di accedere all’area di sua proprietà, siccome perimetrata dai paletti, benchè esterna al muro di recinzione. In appello i ricorrenti avevano negato che la detta porzione appartenesse a P. e avevano insistito perchè fosse disposta la chiusura del varco. La Corte di merito aveva qualificato tale domanda come una rivendica dell’area in questione e la aveva dichiarato inammissibile, in quanto connotata da novità, dal momento che in prime cure la pretesa si basava su una negatoria servitutis avente ad oggetto una servitù di passaggio su distrettuale, omissione di di una piccola strada. La Corte secondo i ricorrenti, era incorsa in una pronuncia, dal momento che gli attori avevano lamentato sia il passaggio abusivo sul loro fondo che l’ingiustificata occupazione di una parte di esso.

Il motivo, nei termini che si vengono ad esporre, è fondato.

Non ricorre il vizio di omessa pronuncia in quanto questo implica la completa mancanza del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto (per tutte: Cass. 18 giugno 2014, n. 13866; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882). Nel caso in esame, la Corte di merito ha preso in “sostanziale esame la questione afferente la rivendica” della porzione del fondo delimitata dai paletti, statuendo, per l’appunto, che la domanda di chiusura del varco basata su tale diversa prospettazione inammissibile. Non sicostituiva domanda nuova, come tale ravvisa nemmeno il denunciato vizio motivazionale, dal momento che la decisione assunta sul punto dalla Corte distrettuale ha natura processuale e in tema di errores in procedendo, non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di Cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto (Cass. 10 novembre 2015, n. 22952).

E’ pur vero, tuttavia, che nel secondo motivo i ricorrenti si dolgono, in sostanza, dell’error in procedendo consistente nell’affermata novità della domanda avente ad oggetto la rivendicazione della porzione di fondo delimitata dai picchetti. Ed è altrettanto certo che in tema di ricorso per cassazione, la configurazione formale della rubrica del motivo di gravame non ha contenuto vincolante per la qualificazione del vizio denunciato, poichè è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; Cass. 13 aprile 2012, n. 5848; Cass. 7 novembre 2012, n. 19234; cfr. pure Cass. S.U. 24 luglio 2013, n. 17931, secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere bensì articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, ma non è necessaria l’adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; in senso conforme rispetto a quest’ultima pronuncia Cass. 31 ottobre 2013, n. 24553).

Stante la natura processuale del vizio in esame (che consente l’esame degli atti del giudizio), va allora rilevato che gli odierni ricorrenti dedussero, in primo grado, che la controparte aveva collocato sul contiguo fondo attoreo alcuni picchetti collegati da un filo di ferro allo scopo di recintare una parte di detto podere, sulla quale il convenuto assumeva di avere non meglio precisati diritti; rilevarono, altresì, che P. aveva aperto sul muro di recinzione un varco che gli consentiva l’accesso al fondo degli istanti. Conclusero chiedendo di “dichiarare che sul fondo degli attori non esiste alcuna servitù in favore del convenuto secondo quanto meglio precisato in narrativa”. La domanda attrice, sul punto, aveva quindi il contenuto di una negatoria servitutis e ciò che veniva lamentato era proprio l’esercizio di una servitù di passaggio sul fondo degli istanti. Le conclusioni riprodotte nella sentenza resa dal Tribunale di Messina avevano il medesimo contenuto, riproducendo esse quelle trascritte in citazione.

Il giudice di prima istanza respinse poi la domanda diretta alla chiusura della porta rilevando, sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica, che il varco aperto da P. dava accesso a una porzione di sua proprietà.

In appello i S. opposero che la porzione di fondo ubicata a ridosso del muro non apparteneva a P., sicchè, non fruendo lo stesso di alcuna servitù di passaggio, era necessario disporre la chiusura del varco.

E’ evidente, allora, che i S. intesero contrastare, con l’azione proposta, l’ingresso, da parte del convenuto, nel terreno di loro proprietà (terreno che, del resto, secondo gli attori, P.G. aveva fatto oggetto della apposizione dei nominati picchetti). Ne discende che nella fattispecie non si configurava alcuna novità della domanda, dal momento che ciò che i S. hanno sempre lamentato, fin dall’atto di citazione in primo grado, era l’utilizzo della porta per accedere all’interno del loro fondo. La contestazione circa la titolarità dell’area prospiciente la porta non mutava, infatti, i termini della questione: semmai la Corte di merito, a fronte delle deduzioni svolte sul punto dagli odierni ricorrenti (con cui era contrastato l’accertamento operato dal Tribunale) avrebbe dovuto verificare la titolarità del diritto dominicale sulla porzione immobiliare in questione al fine di appurare se l’apertura del varco – che si assumeva strumentale all’esercizio della servitù – fosse o meno lecita.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 278 c.p.c.. Lamentano i ricorrenti che nella propria citazione avevano domandato la condanna del convenuto al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede: domanda che la Corte territoriale aveva disatteso in ragione dell’assoluta genericità e inconsistenza della pretesa, tenuto conto dell’assenza del pregiudizio subito, a tale riguardo, dagli appellanti. Di contro, la pronuncia di condanna generica presupponeva la mera potenzialità dannosa del fatto, sicchè essa avrebbe dovuto essere accolta.

La censura è infondata, dal momento che quello che la Corte di merito ha accertato è proprio l’assenza di riscontri quanto a condotte potenzialmente generatrici di danno.

La questione del risarcimento non poteva che riguardare, nella sentenza impugnata, l’accertamento negativo del diritto di servitù di passaggio: la Corte di merito ha infatti riconosciuto fondata l’azione ex art. 949 c.c., proposta dai S. solo con riguardo al contestato diritto di transito vantato da P. sul fondo attoreo. Con riferimento alla servitù di passaggio la Corte di Messina ha nella sostanza evidenziato che non esisteva riscontro dell’esistenza di atti concreti pregiudizievoli posti in essere da P. nell’utilizzo del passaggio in questione.

Ebbene, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 278 c.p.c., non è sufficiente accertare l’illegittimità della condotta, ma occorre anche accertarne, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, la portata dannosa, senza la quale il diritto al risarcimento, di cui si chiede anticipatamente la tutela, non può essere configurato; nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l’esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa devono essere accertati nel giudizio relativo all’an debeatur e di essi va data la prova sia pure sommaria e generica, in quanto costituiscono il presupposto per la pronuncia di condanna generica (Cass. 17 dicembre 2010, n. 25638; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1631; Cass. 1 agosto 2001, n. 10453).

Col quarto motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., rilevando come in ragione della soccombenza di P. la corte di merito avrebbe dovuto condannare lo stesso al pagamento delle spese di giudizio.

Il motivo è assorbito in ragione dell’effetto espansivo interno della cassazione della sentenza.

Questa va infatti cassata per l’accoglimento del secondo motivo, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Messina, la quale statuirà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il secondo motivo, rigetta il primo e il terzo, dichiara assorbito il quarto; cassa con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di appello di Messina anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2016

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