Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22574 del 07/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 07/11/2016, (ud. 14/09/2016, dep. 07/11/2016), n.22574

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27173/2014 proposto da:

D.L., (OMISSIS), V.G. (OMISSIS), A.M.

(OMISSIS), L.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA TIBULLO 13, presso lo studio dell’avvocato

L.C., che li rappresenta e difende, anche ex art. 86 c.p.c.

unitamente all’avvocato VALERIO ZIMATORE;

– ricorrenti –

contro

REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale e

legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 507/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 04/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/2016 dal Consigliere Dott. LUIGI GIOVANNI LOMBARDO;

udito l’Avvocato L.C., difensore dei ricorrenti, che ha

chiesto l’accoglimento delle difese esposte ed in atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo e

per l’assorbimento dei restanti motivi di ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. – D.L., V.G., A.M. e L.C., a seguito apposito ricorso, ottennero dal Tribunale di Catanzaro decreto ingiuntivo nei confronti della Regione Calabria, col quale fu intimato a quest’ultima il pagamento in favore dei predetti del compenso fisso pattuito con apposita convenzione del 2002, con la quale i ricorrenti avevano assunto l’incarico professionale di verificare la situazione debitoria di alcuni enti regionali e di addivenire a definizioni transattive delle pendenze debitorie. Nel ricorso per decreto ingiuntivo, i professionisti evidenziarono che il compenso fisso pattuito per il L. era comunque illegittimo in quanto contrario ai minimi previsti dalle tariffe degli avvocati e dichiaravano altresì di non rinunziare al compenso aggiuntivo e premiale pattuito, riservandosi di agire per esso separatamente.

L’opposizione al decreto proposta dalla Regione Calabria fu rigettata con sentenza del Tribunale di Catanzaro del 9.2.2010 e tale pronuncia passò in cosa giudicata.

Successivamente, i predetti si determinarono a convenire in giudizio la Regione Calabria, chiedendo il pagamento del compenso aggiuntivo e premiale, nonchè il L. anche il pagamento dell’ulteriore compenso fisso dovutogli – a suo dire – in ragione della nullità della clausola della convenzione che stabiliva tale compenso in misura inferiore al minimo previsto dalla tariffa professionale.

Nella resistenza della Regione Calabria, il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza ex art. 702 bis c.p.c., dichiarò improponibile la domanda dei ricorrenti, sul presupposto della infrazionabilità in sede processuale del credito derivante dal medesimo titolo e condannò gli attori al pagamento delle spese del giudizio.

2. – Sul gravame proposto da D.L., V.G., A.M. e L.C., la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza di primo grado, compensò le spese del primo grado del giudizio, ma confermò la statuizione di improcedibilità della domanda, disponendo la compensazione delle spese del giudizio di appello.

3. – Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono D.L., V.G., A.M. e L.C. sulla base di cinque motivi.

La Regione Calabria, ritualmente intimata, non ha svolto attività difensiva.

l ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione di legge, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per avere la Corte di Appello considerato improponibile la domanda, formulata separatamente per il compenso variabile. A dire dei ricorrenti, la Corte territoriale non avrebbe considerato che solo l’importo del credito per il compenso fisso era certo, liquido ed esigibile fin dall’inizio sì da legittimare la richiesta di decreto ingiuntivo, mentre il compenso variabile non era tale e richiedeva la verifica delle transazioni conseguite dai professionisti; pertanto, risultava del tutto logico e secondo buona fede che gli attori avessero scelto di ricorrere alla procedura del ricorso per decreto ingiuntivo solo per una parte del credito e che, per l’altra, avessero agito con il rito ordinario; a maggior ragione, risultava necessario ricorre al rito ordinario per chiedere la declaratoria di nullità del compenso fisso pattuito per violazione dei minimi tariffari previsti per gli avvocati.

La censura è fondata.

Com’è noto, modificando il precedente orientamento della giurisprudenza di questa Corte, le Sezioni unite, a partire dall’anno 2007, hanno statuito che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del “giusto processo”, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Sez. U, Sentenza n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316); ed hanno precisato che, in materia di obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, costituisce principio generale la regola secondo la quale la singola obbligazione va adempiuta nella sua interezza e in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore. Ne consegue che, ove la prestazione abbia ad oggetto la restituzione di somme indebitamente ricevute e relative all’erogazione degli accessori dell’indennità di buonuscita, sussiste l’obbligo di restituire l’indebito attraverso il pagamento in un’unica soluzione, dovendosi escludere l’applicabilità, in via estensiva od analogica, della norma di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 1032 del 1973, secondo la quale il recupero dell’indennità di buonuscita indebitamente corrisposta avviene mediante una pluralità di trattenute sul trattamento di quiescenza, attesa la natura speciale ed eccezionale di tale disposizione (Sez. U, Sentenza n. 26961 del 22/12/2009, Rv. 611016).

Alla base di tali pronunce, vi è la valorizzazione della regola di correttezza e buona fede (che traspare dagli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 Cost.) e del canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 Cost., che escludono – anche in funzione del principio della “ragionevole durata” del processo – la parcellizzazione giudiziale dell’adempimento del credito, per l’incidenza pregiudizievole, o comunque peggiorativa, che avrebbe sulla posizione del debitore: sia sotto il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui quest’ultimo dovrebbe sottostare per liberarsi dell’obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo, sia sotto il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole), cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione delle iniziative giudiziarie.

Va tuttavia precisato che il richiamato principio giurisprudenziale – che il Collegio condivide – non deve essere inteso in senso assoluto, dovendo escludersi il divieto di parcellizzazione della domanda giudiziale allorquando solo per una parte dell’unico credito vi siano le condizioni richieste dalla legge per agire con lo strumento giudiziario più spedito azionato per primo.

In questa prospettiva si è già posta questa Corte quando – in una fattispecie analoga alla presente – ha recentemente affermato che l’attore che, a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito, in quanto tale comportamento non si pone in contrasto nè con il principio di correttezza e buona fede, nè con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore (Sez. 2, Sentenza n. 10177 del 18/05/2015, Rv. 635418).

Il Collegio ritiene di dover ribadire il principio di diritto appena richiamato.

Invero, si ha abuso del processo quando vi è un uso improprio dello strumento processuale e – quindi – degli atti che costituiscono la serie procedimentale. L’abuso del processo consiste nello sviamento dalla causa tipica, dalla finalità propria, dell’atto processuale e si verifica quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell’atto (ossia quello per il quale l’atto è funzionalmente previsto dalla legge), ma per perseguire uno scopo – e quindi un interesse – estraneo allo scopo tipico dell’atto, dando luogo – per questo – ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare.

L’abuso del processo implica, perciò, un abuso delle posizioni giuridiche riconosciute alle parti e, quindi, dei poteri processuali ad esse attribuiti: si ha abuso del processo quando le parti utilizzano i poteri processuali ad esse riconosciuti dalla legge per perseguire scopi e interessi diversi da quelli per i quali i poteri sono stati loro attribuiti, violando così i principi di correttezza e di buona fede.

E’ questo il quadro nel quale le Sezioni unite hanno ritenuto che quando la parcellizzazione dell’azione giudiziale di adempimento del credito abbia una ingiustificata incidenza pregiudizievole sulla posizione del debitore – sia sotto il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, sia sotto il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni cui lo stesso dovrebbe sottostare – essa si risolve in un abuso del processo.

Diverso è il caso – quale è quello che i ricorrenti sottopongono al vaglio di questa Corte – in cui il creditore abbia inteso avvalersi del procedimento d’ingiunzione (art. 633 c.p.c. e segg.) per la parte di credito contraddistinta dai requisiti richiesti dalla legge in termini di prova scritta e di liquidità della somma pretesa e si sia riservato – contestualmente – di agire separatamente, col procedimento ordinario, per la parte del credito che abbisognava di essere accertato e liquidato.

In questo caso, è evidente come non sia configurabile alcun abuso del processo, giacchè è legittimo che il creditore utilizzi la via più breve (il procedimento monitorio) per riscuotere la parte del credito già liquida e si riservi di agire successivamente per l’accertamento e la liquidazione della parte variabile del suo preteso credito. Essendo diversa la natura delle pretese fatte valere nei separati procedimenti (nell’uno un credito già liquido, nell’altro un credito da liquidare), non solo – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di territoriale – non v’è pericolo di formazione di giudicati contraddittori, ma neppure è ipotizzabile un ingiusto aggravio per la posizione del debitore. Al contrario, sarebbe il creditore a subire un ingiusto pregiudizio ove gli venisse preclusa la possibilità di avvalersi del procedimento più spedito (quello d’ingiunzione) per la parte di credito già liquida; ove, per ottenere un titolo esecutivo relativo a tale parte di credito, fosse costretto ad attendere i tempi più lunghi di un procedimento ordinario, sia pure sub specie di procedimento sommario di cognizione.

La sentenza impugnata va pertanto cassata sul punto, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro, perchè osservi i seguenti principi di diritto:

1) “Si ha abuso del processo quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell’atto, ma -sviando l’atto dalla sua causa tipica – per perseguire uno scopo diverso da quello per cui l’atto è funzionalmente previsto dalla legge, dando luogo – per questo ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare”.

2) “Non incorre in abuso del processo l’attore che, a tutela di un credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca prima con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e poi con il procedimento ordinario di cognizione per la parte residua, dovendosi riconoscere il diritto del creditore ad una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per la parte di credito liquida che sia provata con documentazione sottoscritta dal debitore”.

Le altre censure rimangono assorbite.

2. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2016

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