Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22572 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. II, 16/10/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 16/10/2020), n.22572

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5554/2016 proposto da:

F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SABOTINO N.

46, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIA ZACCHERINI, rappresentato

e difeso dagli avvocati ROBERTO RIZZO, ANTONINO RIZZO;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 106, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALVO D’URSO,

rappresentato e difeso dall’avvocato FERDINANDO AMATA;

T.M.P., rappresentati e difesi dagli avvocati LUCIANA

PAINO, ed ELENA PUSTORINO;

– controricorrenti –

e contro

M.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 20/2016 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 19/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

02/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

F.F. ha proposto ricorso articolato in tre motivi per la cassazione della sentenza n. 20/2016 della Corte d’appello di Messina, pubblicata il 19 gennaio 2016.

Resistono con distinti controricorsi M.M. e T.M.P., mentre l’altro intimato M.F. non ha svolto attività difensive.

Il Tribunale di Messina, su domanda di M.M., M.F. e T.M.P., condannò con sentenza del 1 settembre 2009 F.F. al risarcimento dei danni ed al pagamento della metà delle spese di riparazione del balcone-veranda del suo appartamento, posto al primo piano di un fabbricato sito in (OMISSIS) e fungente da copertura del sottostante vano soggiorno e veranda degli attori. Il giudice di primo grado rigettò poi la domanda di F.F. per l’eliminazione di un manufatto installato sulla facciata dell’edificio ed accolse l’ulteriore domanda di T.M.P. per l’eliminazione di una schermatura in plastica apposta dal F. sulla recinzione del giardinetto di sua proprietà. La Corte di Messina, pronunciando sui contrapposti appelli delle parti, riformò la pronuncia di primo grado soltanto al fine di rigettare la domanda di T.M.P. relativa alla schermatura in plexiglas, confermando per il resto ogni altra statuizione del Tribunale.

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c..

Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

I. Il primo motivo del ricorso di F.F. (da pagina 8 a pagina 20 di ricorso) denuncia la violazione degli artt. 1125,1117 e 1120 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.c., censurandosi la parte della sentenza impugnata che ha ritenuto che le opere di riparazione dell’intero balcone-veranda aggettante, sebbene munito di un parapetto esterno e di un frontalino inseriti nella facciata condominiale, dovessero essere sostenute per intero dal ricorrente, non considerando la funzione di copertura del bene (considerato “assimilabile ad un vero e proprio terrazzino a livello”) rispetto al vano soggiorno ed alla veranda sottostanti, nè che la Delib. Assembleare 12 ottobre 2004, aveva poi ripartito le spese dei lavori tra tutti i condomini. La censura reputa che la decisione dei giudici del merito si sia limitata a riportare la tesi difensiva delle controparti sull’inapplicabilità dell’art. 1125 c.c..

Il secondo motivo del ricorso di F.F. (da pagina 21 a pagina 24 di ricorso) denuncia la violazione degli artt. 2056, 1218, 1123, 1226, 1227 e 1175, nonchè, ancora una volta, degli artt. 115 e 116 c.c., censurandosi la condanna risarcitoria inflitta al ricorrente in importo pari ad Euro 3.000,00, in relazione ai distacchi di intonaco dal balcone-veranda, nonostante il CTU avesse affermato la carenza di colpa al riguardo del medesimo F..

I.1. I primi due motivi di ricorso, giacchè connessi, devono esaminarsi congiuntamente: essi presentano diffusi profili di inammissibilità e risultano comunque infondati.

Le censure, sub specie della denuncia di violazione di norme sostanziali, nonchè dell’art. 115 c.p.c. (norma può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti) e dell’art. 116 c.p.c. (norma che invece sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), consistono, in realtà, non nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle disposizioni asseritamente contravvenute, quanto nell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta dovuta alla inesatta valutazione del materiale istruttorio, operazione che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito ed è sottratta al sindacato di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

I due motivi sono anche carenti dei requisiti della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata, imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

La sentenza della Corte d’appello di Messina ha sul punto un contenuto più articolato di quello esposto nelle prime due censure. La sentenza impugnata afferma che il Tribunale sembrava aver distinto, nell’ambito del balcone-veranda annesso all’unità immobiliare F., una “parte che può essere considerata comune, in quanto svolgente anche una funzione di copertura del sottostante vano (soggiorno) di proprietà degli appellati da quella che invece deve considerarsi di proprietà esclusiva F., in quanto priva della duplice funzione” (…) In applicazione dell’art. 1125 c.c., la disciplina di quella parte del balcone comune è stata oggetto della intervenuta Delib. Assembleare 12 ottobre 2004 e ne è seguita la declaratoria di cessazione della materia del contendere”. Circa la condanna risarcitoria, precisa la Corte d’appello che i “distacchi si erano verificati da parti del balcone/veranda che deve intendersi di proprietà esclusiva F. (…) l’intonaco si è staccato dalle parti sottostanti gli aggetti o dalle parti inferiori delle relative travi di sostegno”. Ancora, prosegue la sentenza impugnata, “la conformazione del fabbricato.. esclude che le parti ammalorate e distaccatesi potessero assumere una prevalente funzione ornamentale…”. Da ciò i giudici di secondo grado hanno dedotto “la responsabilità del proprietario esclusivo dei balconi per i distacchi da porzione la cui manutenzione” a lui competeva, “a nulla invero valendo giuridicamente considerazioni sulla incidenza dell’azione corrosiva della salsedine: circostanza che anzi maggiormente avrebbe richiesto attenzione e cura da parte dell’obbligato”. Con queste articolate e distinte rationes decidendi che sorreggono la decisione impugnata, il ricorrente non si confronta compiutamente.

Circa il riferimento al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’interpretazione di questa Corte ha inoltre chiarito come la riformulazione di tale norma, operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053).

Conformemente ai principi più volte ribaditi da questa Corte, la sentenza impugnata ha dunque individuato in una porzione del balcone/veranda prospiciente l’appartamento di proprietà F. una struttura avente funzione di copertura delle unità immobiliari sottostanti, con conseguente ripartizione delle spese di manutenzione ai sensi dell’art. 1125 c.c. (come stabilito nella deliberazione unanime del 12 ottobre 2004) (cfr. indicativamente Cass. Sez. 6-3, 04/10/2018, n. 24266). Di altra porzione del balcone/veranda F. la Corte d’appello ha invece accertato che la stessa non svolge alcuna funzione di necessaria copertura dei vani sottostanti, con conseguenti inapplicabilità dell’art. 1125 c.c., ed appartenenza in proprietà esclusiva al titolare dell’appartamento collegato. Ancora, di tale porzione del balcone in proprietà esclusiva F. la Corte di Messina ha negato che le parti distaccatesi e causa dei danni oggetto di lite avessero una prevalente funzione ornamentale. Il primo motivo di ricorso è volto perciò a contrastare sotto il profilo fattuale la ricostruzione operata dalla Corte d’appello, che si è poi conformata al principio di diritto elaborato da un orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, nè essendo destinati all’uso o al servizio di esso, i rivestimenti dello stesso devono, invece, essere considerati beni comuni ma solo se svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole (Cass. Sez. 2, 21/01/2000, n. 637 del; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14576; Cass. Sez. 2, 30/04/2012, n. 6624; Cass. Sez. 2, 14/12/2017, n. 30071).

L’accertamento dei giudice del merito che le parti sottostanti gli aggetti o le travi di sostegno, da cui si era staccato l’intonaco, non assolvano in misura preponderante alla funzione di rendere esteticamente gradevole l’edificio, costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Anche la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la mancata manutenzione di determinate porzioni del bene e le conseguenze dannose risarcibili dedotte in lite, secondo la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), si risolve in un apprezzamento di fatto, che è censurabile in sede di legittimità unicamente per inesistenza di motivazione o nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ peraltro inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riguardo alle conclusioni del CTU sulla “responsabilità” del proprietario del balcone con riguardo alla caduta dell’intonaco. Spetta al giudice di merito esaminare e valutare le nozioni tecniche o scientifiche introdotte nel processo mediante la CTU, e dare conto dei motivi di consenso, come di quelli di eventuale dissenso, in ordine alla congruità dei risultati della consulenza e delle ragioni che li sorreggono. Tale valutazione è compiutamente esplicitata nella sentenza della Corte d’appello e non può essere sindacata in sede di legittimità invocando dalla Corte di cassazione, come auspica il ricorrente, un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in maniera da pervenire ad una nuova validazione e legittimazione inferenziale dei risultati dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio.

II. Il terzo motivo del ricorso di F.F. (da pagina 24 a pagina 30 di ricorso) denuncia la violazione degli artt. 907,1117,1120,832,1102 e 1122 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto alla tutela della servitù di veduta vantata dal ricorrente tramite una finestra prospiciente sul terreno delle controparti, ostacolata da un cassone con tendaggio, altresì lesivo del decoro architettonico dell’edificio. Al riguardo, la Corte di Messina ha evidenziato che la domanda fosse stata proposta avendo riguardo al “cassone metallico” con “ampio tendaggio”, rispetto al quale il CTU aveva accertato la modestissima sporgenza al di sotto della soglia, tale da non pregiudicare la vista dal balcone di proprietà F.. La Corte d’appello ha precisato che il F. non si era doluto della tenda da sole quando aperta, la quale indubbiamente escluderebbe la veduta in appiombo. La sentenza impugnata ha ancora negato la lesione del decoro architettonico, avendo il manufatto una colorazione conforme alla facciata, un modesto spessore e una limitata occupazione della sola fascia marcapiano.

II.1. Anche questo terzo motivo di ricorso è infondato.

La Corte d’appello di Messina ha affermato in sentenza che il motivo di gravame proposto da F.F. e la correlata domanda originaria fossero stati dedotti facendo riferimento esclusivamente alla eliminazione del “cassone metallico” (e non anche alla tenda da sole, quando aperta), ed ha perciò negato che tale specifico manufatto fosse lesivo della veduta, come del decoro architettonico. I giudici di secondo grado hanno così assunto che la domanda dedotta in giudizio, con particolare riguardo al petitum e alla causa petendi, fosse ristretta, appunto, al “cassone metallico”, e che la tenda avvolgibile non si trovasse in rapporto di necessaria connessione con il delineato oggetto della lite, in maniera da estendere il diritto che l’attore aveva inteso tutelare.

Si tratta, dunque, di questione prioritariamente attinente all’interpretazione della domanda effettivamente proposta da F.F. e perciò ricompresa tra quelle da decidere, attenente al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte che spetta al giudice del merito. Nel terzo motivo di ricorso non vengono, allora, censurate specificamente l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto, denunciandosi esclusivamente la violazione di norme di diritto relativa all’attività svolta dalla Corte d’appello per supportare l’adozione della pronuncia resa, nei limiti della ritenuta interpretazione della domanda.

Spetta, poi, all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, nella specie congruamente argomentato dalla Corte d’appello, e non sindacabile, come si fa nella censura in esame, sotto il profilo della violazione di norme di diritto, la verifica che una determinata “costruzione”, nella specie costituita da un cassone metallico con una tenda avvolgibile, pure se situata a distanza inferiore a tre metri ex art. 907 c.c., comma 3, dal balcone del piano sovrastante, pregiudichi, o meno, permanentemente la prospectio, o diminuisca l’aria e la luce al condomino del piano sovrastante. Come, invero, da questa Corte già precisato (ad esempio, Cass. Sez. 2, 06/11/2003, n. 16687), rientra nell’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, stabilire se – nell’ambito dei rapporti di vicinato – opere quali tettoie, tendaggi fissi, estensibili o detraibili, con intelaiatura fissata stabilmente al suolo, costituiscano costruzioni o a queste possano equipararsi e se impedendo o limitando – per la struttura, dimensione o conformazione – le vedute in appiombo esercitate dal vicino, debbano rispettare la distanza di tre metri prevista dall’art. 907 c.c..

Parimenti, l’appoggio di una struttura metallica con una tenda avvolgibile al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l’altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio, e non ne alteri il decoro architettonico; fenomeno – quest’ultimo – che si verifica quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’armonico aspetto dello stabile, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. La relativa valutazione spetta al giudice di merito (e risulta congruamente compiuta alla pagina 11 della sentenza impugnata, avendo riguardo a dimensioni, consistenza e tipologia del manufatto), rimanendo insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5

III. Consegue il rigetto del ricorso, regolandosi le spese del giudizio di cassazione secondo soccombenza in favore dei controricorrenti M.M. e T.M.P., negli importi liquidati in dispositivo, mentre non deve provvedersi al riguardo per l’altro intimato M.F., il quale non ha svolto attività difensive.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in favore di M.M. in complessivi Euro 1.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge, ed in favore di T.M.P. in complessivi Euro 1.500, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

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