Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22542 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. III, 10/09/2019, (ud. 20/06/2019, dep. 10/09/2019), n.22542

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10565/2018 proposto da:

CONSORZIO NAZIONALE RISCOSSIONI SRL, in persona del legale

rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIO

VENETO, 116, presso lo studio dell’avvocato GELSOMINA CIMINO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AMT – AZIENDA MOBILITA’ TRASPORTI SPA, in persona del legale

rappresentante Presidente del Consiglio di Amministrazione,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIOVANNI MACCAGNANI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2894/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/06/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Consorzio Nazionale Riscossioni S.r.L. (d’ora innanzi Consorzio CNR) ricorre per la cassazione della sentenza n. 2894/2017 della Corte d’Appello di Venezia, pubblicata il 19/12/2017 e notificata il 26/01/2018, formulando quattro motivi.

Resiste con controricorso Azienda Mobilità Trasporti S.p.A. (da qui in avanti AMT).

Il ricorrente espone:

1) di essere stato condannato dal Tribunale di Verona, con sentenza n. 2590/2011, a seguito dell’accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto, ex art. 1454 c.c., della convezione avente ad oggetto il servizio di recupero crediti stragiudiziale di sanzioni amministrative per violazione delle norme sul trasporto pubblico locale, a restituire all’ATM tutti gli originali dei verbali di contestazione consegnatigli ed a corrisponderle le seguenti somme: a) Euro 225.982,78, oltre agli interessi legali dal 17/10/03 sino all’effettivo soddisfo; b) Euro 30.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, oltre agli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza sino all’effettivo saldo; c) Euro 4.840,00 per onorari, Euro 3.220,00 per diritti ed Euro 1.040,00 per spese, oltre al rimborso delle spese generali, IVA e CPA;

2) di avere impugnato la sentenza di prime cure dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia per:

2.1) errata ricostruzione dei fatti, determinata dal non avere preso atto che tra le parti in causa erano intercorse trattative per la stipulazione di due contratti: quello per l’acquisizione pro soluto dei crediti derivanti dal mancato pagamento delle sanzioni amministrative per violazione della legge regionale sul trasporto pubblico urbano relative al periodo 1998-2000; quello per la gestione degli incassi, attraverso il recupero stragiudiziale per conto terzi, dei crediti derivanti dalle sanzioni amministrative irrogate negli anni 2000-2002;

2.2) omessa considerazione di fatti determinanti e motivazione illogica e insufficiente, in forza del mancato accoglimento, per infondatezza, della propria domanda riconvenzionale avente ad oggetto il riconoscimento economico dell’attività di due diligence, nonostante dalla propria produzione documentale risultasse dimostrato che il 16/05/2002 e successivamente il 14/06/2002 l’ATM avesse consegnato un elenco di verbali affinchè le venisse sottoposta un’offerta economica quale corrispettivo per la cessione pro soluto dei crediti;

2.3) illogicità della motivazione quanto alla condanna al risarcimento del danno.

3) di essere stato condannato, in conseguenza del mancato accoglimento del proprio appello da parte della Corte d’Appello di Venezia, a rifondere l’AMT delle spese del grado.

Ai fini che qui interessano, la sentenza della Corte territoriale, oggetto dell’odierna impugnazione, confermava l’iter logico-giuridico con cui il giudice di prime cure aveva ritenuto irrilevante che la stipulazione della convenzione risolta per inadempimento del Consorzio CNR fosse stata preceduta dallo svolgimento di trattative volte a raggiungere un accordo di contenuto diverso e più ampio avente ad oggetto anche la cessione pro soluto dei crediti di ATM verso i trasgressori delle regole sul trasporto pubblico locale.

La sentenza impugnata reputava che ATM avesse ricevuto dal Consorzio CNR la proposta di un accordo volto a cederle pro soluto i crediti derivanti dalle sanzioni amministrative “oppure” quella di stipulazione di un accordo per il recupero dei crediti tramite la consorziata ESA.RIS S.r.l.. Solo per tale ragione il Consorzio CNR aveva ottenuto da AMT, in data 16 maggio 2002 e 14 giugno 2002, tramite file, i verbali delle sanzioni amministrative, di cui era stata chiesta ed ottenuta la restituzione.

Dopo aver proceduto alle opportune verifiche, tuttavia, al Consorzio era stato comunicato che non sarebbe stato possibile cedere pro soluto i crediti non ancora esigibili, stante il divieto imposto dalla L.R. n. 25 del 1998, e tra le parti la trattativa era proseguita per stipulare la convenzione per il recupero stragiudiziale dei crediti. Durante la pendenza della fase di negoziazione il Consorzio, nonostante fosse stato diffidato dall’iniziare a riscuotere i crediti prima della sottoscrizione della relativa convenzione, aveva iniziato a inviare le richieste di pagamento delle sanzioni, costringendo ATM finanche a ricorrere alla stampa per porre rimedio alla situazione determinatasi.

Il 31 dicembre 2002 ATM anticipava al Consorzio la bozza della convenzione per il recupero stragiudiziale dei crediti, sottoscritta dal Consorzio il 10 gennaio 2003.

In data 8 aprile 2003 il Consorzio CNR veniva diffidato ad adempiere alle obbligazioni assunte con la convenzione del gennaio 2003, pena la risoluzione di diritto della medesima.

Perdurando l’inadempimento del Consorzio CNR, ATM depositava atto di denuncia querela per il reato di appropriazione indebita aggravata.

A giudizio della Corte territoriale tali circostanze erano state documentalmente provate dalla società ATM, mentre, invece, il Consorzio non aveva fornito alcuna dimostrazione dell’asserita fase precontrattuale finalizzata alla cessione pro soluto, della sostenuta violazione da parte della società AMT dei principi di buona fede e correttezza per l’interruzione delle trattative, del ricevimento di un mandato a svolgere attività di due diligence a titolo oneroso, dello svolgimento di tale attività, nè dell’aver subito alcun danno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il Consorzio denuncia l’omesso esame di un fatto storico principale risultante dalla sentenza ed avente carattere decisivo.

Il ricorrente, in sintesi, ritiene che la sentenza gravata non abbia preso in considerazione la circostanza che le parti avessero negoziato due accordi diversi, quello volto a cedere pro soluto i crediti ancora esigibili, e quello avente ad oggetto la riscossione stragiudiziale dei crediti derivanti dalle multe, errando, poi, nel non riconoscere che l’improvvisa decisione di ATM di non stipulare l’accordo di cessione dei crediti avesse integrato una ipotesi di responsabilità precontrattuale: non solo perchè, diversamente da quanto affermato da ATM, non sarebbe stata applicabile la L.R. n. 25 del 1998, e quindi la cessione non sarebbe incorsa in alcuna nullità, ma anche perchè anche la rinuncia ingiustificata a stipulare un contratto, ancorchè avente un contenuto diverso rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative avrebbe dovuto dar luogo a responsabilità precontrattuale, essendosi la sua mancata conclusione manifestata come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte che, dopo aver ingenerato un legittimo affidamento circa la conclusione del contratto, aveva interrotto le trattative.

Peraltro, secondo la prospettazione del ricorrente, la sentenza conterrebbe un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili riscontrabile dal confronto tra quanto riportato a p. 4 e quanto riferito a p. 10 circa il fatto che i due accordi, quello per la cessione pro soluto e quello per la riscossione stragiudiziale, fossero tra di loro alternativi.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1337 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

A parere del ricorrente, a differenza di quanto ritenuto dal giudice a quo, le prove della ricorrenza di trattative volte a definire il contenuto del contratto di cessione pro soluto sarebbero state numerose e onde escludere la responsabilità di ATM non avrebbe rilevanza alcuna l’individuazione dei motivi che l’avevano indotta a cambiare idea, non occorrendo una mala fede soggettiva per integrare gli estremi dell’art. 1337 c.c..

3. Con il terzo motivo il ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1375,1455 e 1456 c.c., nonchè del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 119, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Il provvedimento censurato avrebbe accertato l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto, senza fornire alcun supporto argomentativo e senza tener conto che, trattandosi di un appalto di pubblico servizio, per risolverlo di diritto sarebbe stato necessario, ai sensi del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 119, applicabile ratione temporis, dimostrare la ricorrenza di un grave inadempimento, di una grave irregolarità e di un grave ritardo integrato dalla condotta dell’appaltatore suscettibile di compromettere la buona riuscita dei lavori.

Di qui l’errore in cui sarebbe incorso il giudice a quo che non avrebbe tenuto in considerazione la disciplina applicabile nel caso di specie ed avrebbe ritenuto possibile la risoluzione di diritto del contratto nonostante esso prevedesse una sola ipotesi di risoluzione di diritto per mancato deposito della cauzione.

Non solo: il ricorrente, ritenendo applicabile nel caso di specie il codice degli appalti, la cui disciplina, essendo speciale o almeno integrativa, avrebbe dovuto essere ritenuta prevalente su quella codicistica, lamenta che il giudice non abbia valutato la ricorrenza dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 136, il quale, in presenza di gravi inadempimenti delle obbligazioni contrattuali in grado di compromettere la buona riuscita dei lavori, avrebbe richiesto la previa contestazione delle irregolarità riscontrate, l’instaurazione del contraddittorio con l’appaltatore e la valutazione delle deduzioni di quest’ultimo.

Per finire, sarebbe stata violata anche la distribuzione dell’onere della prova, perchè l’applicazione dell’art. 1456 c.c., imponeva alla parte che aveva dichiarato di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa di provare l’inadempimento, la sua imputabilità e la sua gravità.

4. Con il quarto motivo il ricorrente assume la violazione degli artt. 1223 e 1458 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con tale mezzo il ricorrente censura la determinazione del danno, identificato con quanto ATM avrebbe incamerato là dove il contratto fosse stato regolarmente eseguito, senza considerare che in alcuna disposizione contrattuale veniva fissato il risultato minimo conseguibile.

5. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, perchè presentano una evidente connessione non solo logica, ma anche giuridica.

La ragione per cui la Corte territoriale non ha accolto la domanda riconvenzionale dell’attuale ricorrente volta ad ottenere la condanna di ATM per responsabilità precontrattuale è intelligibile, seppure questo Collegio non possa fare a meno di deplorare la tecnica motivazionale adottata per la sua ingiustificata laconicità che è invalsa a ingenerare nel ricorrente il sospetto che la sentenza recasse una incongruenza.

Fatta tale premessa, va osservato che, sebbene la giurisprudenza di legittimità, di recente, abbia messo in discussione la tradizionale matrice aquiliana della responsabilità precontrattuale – basata sulla ritenuta lesione del dovere generale del neminem laedere a carico di colui che viola una regola di condotta (per tutte cfr. Cass., Sez. Un., 16/07/2011, n. 9645) – avvalendosi della ipotesi del contatto sociale qualificato – fonte di un reciproco affidamento, qualificato dalla ricorrenza della buona fede e di obblighi di informazione e di avviso – per dare veste giuridica a quei rapporti collocantisi “ai confini tra contratto e torto”, dai quali dedurre non la nascita di obblighi di prestazione, bensì di protezione, la cui violazione chiama in causa la responsabilità per inadempimento, con tutte le conseguenze in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e non solo (Cass. 12/06/2016, n. 14188), nel caso di specie è lo stesso ricorrente ad invocare, a p. 12 del ricorso, l’applicazione dell’art. 2043 c.c., ed i correlati oneri probatori.

Ne consegue che non vi sono ragioni per discostarsi, ai fini che qui interessano, dalla regola, secondo cui qualora gli estremi del comportamento illecito si ritiene siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede e correttezza postulati dall’art. 1337 c.c. (Cass. 14/03/2017, n. 6587; Cass. 29/07/2011, n. 16735).

Tale prova, a giudizio della Corte territoriale, non è stata offerta dal ricorrente: questo e non altro è il significato da attribuire alla sentenza impugnata.

Quando il giudice a quo afferma, a p. 10, che non è stata fornita alcuna prova dell’asserita fase precontrattuale finalizzata alla cessione pro soluto non significa che abbia escluso che tra le parti sia stato negoziato un accordo in tal senso – come, del resto, emerge dalla sentenza stessa – ma vuoi dire che il ricorrente non ha dimostrato in che modo si era evoluta tale negoziazione, quale stadio aveva raggiunto, se la mancata conclusione dell’accordo fu ingiustificata ed imputabile alla controparte – non a caso la sentenza nega anche che sia stata dimostrata la violazione dei principi di buona fede e di correttezza per l’interruzione delle trattative – posto che la pendenza delle trattative non sfociate nella conclusione del contratto non è di per sè fonte di danno; richiedendosi, per invocare il risarcimento del danno a tale titolo, che le trattative siano giunte ad uno stadio idoneo ad ingenerare, nella parte che invoca l’altrui responsabilità, il ragionevole affidamento circa conclusione del contratto, che esse siano state interrotte dalla parte alla quale si addebita la responsabilità senza alcun giustificato motivo, che, infine, pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento nel perfezionamento dell’accordo (Cass. 15/04/2016, n. 7545).

Va sempre ricordato che, fino alla conclusione del contratto, le parti dispongono di un ampio margine di autonoma determinazione quanto alla decisione di vincolarsi o meno, dal momento che il potere di recedere unilateralmente dalle trattative è espressione del libero esercizio dell’iniziativa economica. Va da sè che libertà non significa capriccio od arbitrio e che determinare il confine tra ciò che rientra nell’ambito dell’autonomia delle parti e ciò che, invece, integra gli estremi della lesione dell’altrui libertà negoziale è tutt’altro che agevole, proprio per questo il legislatore, pur avendo tenuto conto che già la serie di incontri, di contatti, di scambi di opinioni e di consultazioni tra le parti può determinare la creazione di situazioni pregiudizievoli per i contraenti, ha messo a disposizione del giudicante una clausola generale, quindi, un criterio elastico di valutazione circa la ricorrenza di una culpa in contrahendo, cioè l’assunzione di un comportamento non solo negligente ma anche connotato da idoneità a ledere le altrui aspettative con alterazione della normale distribuzione dei rischi e degli oneri connessi alla fase preliminare di stipulazione del contratto.

Ad essere sanzionate sono solo quelle condotte che, avuto riguardo alle circostanze di fatto e di diritto presenti al momento della rottura del rapporto preparatorio, non trovino giustificazione nella ricorrenza di questioni importanti su cui non si è raggiunto l’accordo o nella sopravvenienza di situazioni che inducano ad un mutamento di opinione o che si traducano in un ritardo nel rendere noto il proprio intento di non addivenire alla conclusione dell’accordo, allo scopo di tenere impegnata la controparte, in attesa di risposte e di conferme, mentre si cercano altre occasioni più favorevoli.

E’ stato l’esito negativo della verifica dei suddetti elementi, risolventesi in un accertamento di fatto demandatogli, ad avere portato il giudice a quo a rigettare la richiesta di condanna di ATM, ai sensi dell’art. 1337 c.c., unitamente all’accertamento positivo che: a) durante la fase delle trattative ATM aveva più volte fatto presente al Consorzio CNR l’impossibilità di iniziare l’attività di recupero per il tramite della propria consorziata, prima della sottoscrizione della convenzione; b) l’incedibilità dei crediti non ancora prescritti, in forza del divieto della L.R. n. 25 del 1998; c) che le trattative erano comunque sfociate in un accordo, seppure con un contenuto ridotto.

In conclusione, non solo non è vero che la Corte territoriale non abbia tenuto conto dell’effettivo contenuto degli accordi su cui le parti negoziavano, ma neppure può essere ravvisato alcun vizio motivazionale, giacchè non emerge che la sentenza abbia obliterato la valutazione di elementi che avrebbero potuto condurre ad una diversa soluzione nè la già stigmatizzata laconicità è tale da precludere l’individuazione dell’itinerario argomentativo o da metterne in forse l’aderenza alla situazione fattuale, sì da ravvisare le denunciate aporie che dovrebbero compromettere l’unitarietà logica del provvedimento impugnato o la trasparenza delle ragioni del decidere.

6. Riguardo al terzo motivo, ed in particolare, quanto alla risoluzione del contratto, va, in primo luogo, rilevato che buona parte delle argomentazioni del ricorrente risulta del tutto non pertinente, poichè prende le mosse da una premessa erronea in fatto e in diritto.

La risoluzione del contratto non è avvenuta, nè era stata chiesta, in virtù di una clausola risolutiva espressa, bensì ai sensi dell’art. 1454 c.c..

Il ricorrente evidentemente ritiene che quella prevista dall’art. 1456 c.c., sia l’unica ipotesi di risoluzione c.d. ope legis o di diritto, per questo sottolinea che la sola clausola risolutiva espressa inserita nel contratto era quella di cui all’art. 6 relativa al deposito della cauzione, evidentemente priva di rilievo nel caso di specie, perchè mai azionata; sempre per la stessa ragione insiste, del tutto impropriamente oltre che erroneamente (si ricordi che l’operatività della clausola risolutiva espressa non richiede che l’inadempimento sia grave: ove le parti abbiano preventivamente valutato l’importanza di un determinato inadempimento, facendone discendere la risoluzione del contratto senza preavviso, il giudice non può compiere alcuna indagine sull’entità dell’inadempimento stesso rispetto all’interesse della controparte, ma deve solo accertare se esso sia imputabile al soggetto obbligato quanto meno a titolo di colpa; mentre, invece, l’intimazione da parte del creditore della diffida ad adempiere e l’inutile decorso del termine fissato per l’adempimento non eliminano la necessità dell’accertamento giudiziale della gravità dell’inadempimento in relazione alla situazione verificatasi alla scadenza del termine ed al permanere dell’interesse della parte all’esatto e tempestivo adempimento (Cass. 16/11/2018, n. 29654)), però, sul contenuto dell’onere della prova gravante a carico della parte non inadempiente che decida di avvalersi della clausola risolutiva espressa ed ancora ritiene che la Corte sia incorsa nel divieto di ultrapetitum prendendo le mosse dall’art. 1455 c.c. (p. 27 del ricorso).

La domanda di ATM, invece, era fondata sull’art. 1454 c.c., o, in subordine, sull’art. 1453 c.c..

Anche la diffida ad adempiere dà vita ad una risoluzione di diritto, perchè produce la risoluzione del contratto senza necessità di ricorrere ad una pronuncia costitutiva del giudice, il cui intervento è necessario solo in caso di contestazione tra le parti in merito all’avverarsi dei presupposti richiesti dalla legge per la risoluzione automatica.

In tema di diffida ad adempiere, l’unico onere che, ai sensi dell’art. 1454 c.c., grava sulla parte intimante è quello di fissare per iscritto un termine entro cui l’altra dovrà adempiere alla propria prestazione, con l’avvertimento espresso che nell’eventualità in cui l’adempimento non avvenga nel termine previsto seguirà la risoluzione ope legis del contratto, poichè la ratio perseguita dal legislatore è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell’adempimento. Trattandosi di una risoluzione di diritto, spettava alla parte che aveva subito la risoluzione contestare la ricorrenza dei presupposti per lo scioglimento del rapporto contrattuale: mancanza dei caratteri dell’atto di diffida, mancanza di un inadempimento solutoriamente rilevante, perchè non imputabile o perchè non grave, ai sensi dell’art. 1455 c.c..

In ordine alla applicabilità al caso di specie del codice degli appalti, si tratta di una questione che non risulta sollevata precedentemente. Il giudizio di cassazione ha per oggetto la mera revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, perciò non sono proponibili nuove questioni di diritto nè temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito. Del resto, la questione non risulta trattata in alcun modo dalla sentenza impugnata, sicchè il ricorrente, proponendola, come in questo caso, in sede di legittimità, al fine di evitare la statuizione di inammissibilità per novità della censura, avrebbe dovuto soddisfare l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto (Cass.: 06/09/2012, n. 14947).

7. Il quarto motivo merita accoglimento.

Quanto alla determinazione del danno, la sentenza gravata non risulta in sintonia con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale “effettivamente” pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi i mancati guadagni meramente ipotetici perchè dipendenti da condizioni incerte, sicchè la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito (tra le più recenti cfr. Cass. 11/10/2018, n. 25160; Cass. 08/03/2018, n. 5613; Cass. 03/12/2015, n. 24632; Cass. 20/05/2011, n. 11254).

Nel caso di specie la Corte d’Appello ha riconosciuto un danno da mancato guadagno, confermando la decisione di prime cure, parametrato alla quota spettante, secondo le previsioni contrattuali, all’ATM, dall’incasso delle sanzioni oggetto della convenzione. Il che significa che ha quantificato il danno senza tener conto che non tutte le richieste di riscossione delle sanzioni sarebbero automaticamente andate a buon fine, contravvenendo, dunque, alla necessità di contenere la liquidazione del danno da lucro cessante, determinandolo, in assenza di prova certa da parte del richiedente, in ragione della probabilità e non della mera possibilità di conseguire l’utilità patrimoniale mancata.

In conclusione, la Corte non accoglie i primi tre motivi di ricorso, ritiene fondato il quarto motivo.

Ne conseguono la cassazione del provvedimento impugnato limitatamente al motivo accolto ed il rinvio del procedimento a diversa Sezione della Corte d’Appello di Venezia che nel liquidare il risarcimento del danno da mancato guadagno si atterrà al principio di diritto dianzi enunciato.

Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso; cassa il provvedimento impugnato in relazione alla censura accolta e rinvia la controversia alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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