Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22542 del 07/11/2016

Cassazione civile sez. lav., 07/11/2016, (ud. 15/06/2016, dep. 07/11/2016), n.22542

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso 17391-2015 proposto da:

L.E.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA SAN LORENZO IN LUCINA 26, presso lo studio

dell’avvocato SAVERIO STICCHI DAMIANI, rappresentato e difeso

dall’avvocato FERNANDO CARACUTA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COSMOPOL S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO

18, presso lo studio degli avvocati NUNZIO RIZZO e PIERLUIGI RIZZO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3244/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 30/12/2014 r.g.n. 1713/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2016 dal Consigliere Dott. BRONZINI GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO per delega Avvocato CARACUTA

FERNANDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Giudice del lavoro L.E.A. dipendente della Sveviapol sud con mansioni di guardia giurata impugnava il recesso intimatogli il (OMISSIS), nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo dal datore di lavoro il (OMISSIS), deducendo numerosi profili di illegittimità del recesso come il mancato esame di soluzioni alternative, la mancata indicazione nel verbale di accordo sindacale del (OMISSIS) delle modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, la non chiarezza e trasparenza del punteggio attribuito al ricorrente, la natura ritorsiva del provvedimento in quanto il L. era rappresentante sindacale, l’omessa comunicazione alla Direzione regionale del lavoro, alla Commissione per l’impiego entro 7 gg. dall’invio delle lettere di licenziamento dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con l’indicazione per ciascun soggetto delle modalità di applicazione dei criteri di scelta. Chiedeva quindi la dichiarazione di illegittimità del recesso con le conseguenze indicate in ricorso. Si costituiva la società convenuta contestando la fondatezza del ricorso. Il Tribunale di Lecce con ordinanza del 19.3.2014 accoglieva la domanda ordinando la reintegrazione del L. nel posto di lavoro; Il Tribunale con sentenza del 24.9.2014 accoglieva invece l’opposizione della Sveviapol sud e conseguentemente rigettava la domanda del L.. La Corte di appello di Lecce con sentenza del 15.12.2014 rigettava il reclamo del L. e dichiarava inammissibile il reclamo incidentale della società. La Corte territoriale osservava che, circa il preteso carattere discriminatorio del recesso, era stata solo richiesta una prova in ordine ad una frase pronunciata dall’amministratore della società, che comunque dimostrava al più un sentimento di fastidio ma certo non un’intenzione di rappresaglia nei confronti del sindacato. Il L. del resto aveva partecipato alle trattative ed aveva siglato l’accordo sindacale del (OMISSIS), il suo essere un sindacalista era comunque un mero indizio ed il procedimento era immune da vizi di sorta; peraltro il motivo illecito doveva essere la ragione esclusiva ed unica del recesso che comunque appariva dovuto anche ad altre ragioni. La Corte dichiarava inammissibile il reclamo incidentale della società per difetto di interesse e comunque lo riteneva infondato. Circa la doglianza del ricorso principale per cui al L. doveva essere attribuita lo stesso punteggio degli esattori la Corte territoriale osservava che era corretto il ragionamento del Tribunale che aveva rilevato come la cosiddetta prova di resistenza portava a ritenere che comunque, anche ammettendo la pretesa parità di punteggio per ragioni organizzative e produttive, il lavoratore sarebbe stato egualmente licenziato. Inoltre la L. n. 223 del 1991 non stabiliva che il concorso tra i tre criteri di scelta dovesse essere paritario e che i carichi di famiglia, anzi, erano indicati al primo posto e quindi considerati come prioritari,anche in relazione all’art. 36 Cost.. Non era stata assegnata, comunque, alcuna supervalutazione del criterio del carico familiare. La pretesa del L. di far considerare anche una convivenza more uxorio era infondata in quanto- al momento del recesso- non vi era un obbligo del L. di provvedere al mantenimento della partner, assunto poi con le successive nozze. Circa la mancata valutazione di ipotesi alternative alla riduzione del personale nell’Accordo tra le parti del (OMISSIS) era stata ribadita la già evidenziata in sede di comunicazione originaria drammaticità della situazione (nonchè l’enorme perdita sui crediti) sostanzialmente preconcordataria e le parti avevano ravvisato l’impossibilità di ricorrere a strumenti alternativi; il L. aveva sottoscritto il detto Accordo.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il L. con 7 motivi corredati da memoria; resiste la controparte Cosmopol spa con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Circa l’eccezione di tardività del ricorso in quanto notificato dopo i 60 giorni dalla comunicazione della cancelleria a mezzo pec del provvedimento la stessa appare infondata posto che non si documenta nella memoria di costituzione che sia stata effettuata una comunicazione relativa alla copia integrale della sentenza impugnata. Questa Corte ha poi affermato in relazione alla nuova formulazione dell’art. 133 c.p.c., comma 3, che ” la novella dell’art. 133 c.p.c., comma 2, operata con il D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni in L. 11 agosto 2014, n. 114, secondo cui la comunicazione, da parte della cancelleria, del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c., è finalizzata a neutralizzare gli effetti della generalizzazione della modalità telematica della comunicazione, se integrale, di qualunque tipo di provvedimento, ai fini della normale decorrenza del termine breve per le impugnazioni, solo nel caso di atto di impulso di controparte” (Cass. N. 23526/2014). Anche l’eccezione relativa alla notifica all’attuale parte resistente la stessa parte osserva di essere cessionaria della società convenuta nei gradi di merito e, pertanto, l’eventuale nullità è stata sanata essendosi la società difesa nel merito ed ammettendo di essere tenuta ex art. 11 c.p.c., a rispondere dei provvedimenti giudiziari emessi a carico del cedente.

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 15 e 18; il licenziamento aveva carattere discriminatorio posto che il L. era rappresentante sindacale ed aveva anche mosso critiche alle trattative in corso e l’attribuzione dei punteggi. Inoltre non era stato dato rilievo alla convivenza more uxorio con la sig.ra S. poi divenuta sua moglie. Indebitamente non erano state ammesse le richieste istruttorie che avrebbero convalidato la tesi del ricorrente.

Il motivo appare inammissibile nella prima parte in quanto muove, pur prospettando violazioni di diritto, in realtà censure di merito alla sentenza impugnata non compatibili con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis. Va ricordato sul punto l’orientamento di questa Corte che si condivide e a cui si intende dare continuità secondo il quale “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. SSUU n. 8053/2014). Il ” fatto” di cui si discute è già stato ampiamente esaminato dai Giudici di appello che hanno escluso la natura ritorsiva del recesso non sussistendo in tal senso alcuna prova o alcun serio elemento. Circa la seconda doglianza in ordine alla mancata considerazione del rapporto more uxorio con la sig.ra S. il motivo è inammissibile in quanto non esamina sul punto la ratio decidendi della sentenza impugnata e cioè che la S. non poteva considerarsi “a carico” del L.. Infine il motivo è inammissibile sul punto della mancata ammissione delle istanze istruttorie in quanto parte ricorrente non le riproduce e non ne spiega la rilevanza ed il carattere decisorio, mentre la Corte territoriale sul punto ha motivato circa la loro inutilità ai fini di dimostrare il carattere ritorsivo del recesso.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 anche in combinato disposto con la L. n. 223 del 1991, comma 1. I lavoratori erano stati inizialmente ritenuti tutti fungibili, ma poi era stato attribuito un diverso punteggio sul piano organizzativo; si erano pertanto violati i criteri di scelti adottati dalla stessa società e pertanto la procedura era viziata e ciò indipendentemente dalla cosiddetta prova di resistenza.

Il secondo motivo appare infondato in quanto si condivide la tesi della Corte di appello per cui il lavoratore non può vantare un interesse a dedurre la violazione di uno dei criteri di scelta se non dimostra che è stato danneggiato dall’applicazione di tale criterio, come nel caso in esame. Il meccanismo voluto dalla legge è quello per cui l’interesse pubblico alla correttezza della procedura si attua attraverso i meccanismi di impugnazione individuali delle decisioni del datore di lavoro, che però presuppongono un interesse ex art. 100 c.p.c., nel sindacare in concreto la violazione dei criteri adottati.

Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1: i 3 criteri di scelta andavano applicati in concorso tra loro senza privilegiarne alcuni mentre era stato attribuito un peso eccessivo a quello sui carichi di famiglia. I calcoli dei punteggi non erano trasparenti.

Il motivo appare infondato: la Corte di appello ha già osservato che tutti i tre criteri legali sono stati considerati in concorso tra loro come prevede la legge e che è stato dato un rilievo più significativo a quello sui carichi familiari secondo una scelta che appare sorretta da equità e ragionevolezza non solo perchè tale criterio è il primo considerato dalla L. n. 221 del 1991 ma in relazione all’art. 36 Cost.; ogni finalità discriminatoria è stata peraltro esclusa. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e conforme alle indicazioni legali; le censure sviluppate nell’ultima parte del motivo sono di mero fatto e non coerenti con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che consente di avanzare censure di fatto, anche sotto il profilo della motivazione del provvedimento impugnato, solo a certe precise condizioni, condizioni che non nel caso in esame non sussistono perchè il problema della legittimità del recesso, alla luce dei criteri di scelta, è già stato esaminato.

Con il quarto motivo si allega la violazione e falsa applicazione della normativa nazionale e comunitaria sul divieto di discriminazione e della L. n. 1128 del 1954 e del D.P.R. n. 223 del 1989. Non era stata considerata la relazione more uxorio con la sig.ra S.: la Carta di Nizza e la Cedu, nonchè le direttive dell’Unione, aprono alle relazioni stabili e durature anche se non formalizzate con un matrimonio.

Il motivo appare inammissibile in quanto non censura la ratio decidendi sul punto della sentenza impugnata e cioè che la sig.ra S. non poteva essere ritenuta “a carico” del ricorrente, come necessario perchè venisse considerata ai fini del criterio legale dei “carichi familiari”. Si tratta di un fatto obiettivo, non contestato nel motivo, che rende non pertinenti le considerazioni, in astratto condivisibili, in ordine all’orientamento delle due Corti europee.

Con il quinto motivo si allega a violazione e falsa applicazione della L. n. 221 del 1991, art. 4, comma 3. L’originaria comunicazione non indicava le ragioni per le quali non si riteneva di dover adottare misure alternative alla dichiarazione di mobilità. La comunicazione era a monte viziata e non poteva essere sanata dal successivo Accordo.

Il motivo appare infondato posto che la Corte di appello ha già evidenziato come la drammaticità della situazione in cui versava la società con una condizione sostanzialmente pre – concordataria e con una perdita su crediti pari ad Euro 1.774.637,09 era stata certamente sottolineata nell’Accordo sindacale del (OMISSIS) sottoscritto anche dall’attuale ricorrente, ma era già stata fatta presente nell’originaria comunicazione ai sindacati; tale situazione rendeva inevitabile il ricorso ad un congruo ridimensionamento del personale posto che decisioni alternative non erano in grado di portare ad una consistente riduzione dei costi. La questione, dunque, è già stata esaminata e la Corte di appello ha offerto una motivazione congrua e logicamente coerente che riporta alla comunicazione l’evidenziazione obiettiva di una situazione che non poteva essere risolta o affrontata senza una riduzione di personale.

Con il sesto motivo si allega l’omessa pronuncia in ordine alla violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui alla L. n. 221 del 1991, art. 4, comma 9 e art. 4, comma 12, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. L’elenco dei lavoratori da licenziare con l’indicazione dei criteri di scelta e delle modalità applicative degli stessi andava comunicata all’Ufficio regionale del lavoro, alla Commissione regionale per l’impiego ed alle associazioni di categoria, il che non era avvenuto. La comunicazione inviata dalla società era generica e priva di indicazioni sui criteri di scelta.

Il motivo appare inammissibile per difetto di autosufficienza posto che parte ricorrente non riproduce la comunicazione che si assume viziata e carente e neppure ricostruisce come tale censura sia stata proposta in prime cure ed in appello (posto che la sentenza di appello non la esamina e non la contempla tra i motivi di impugnazione). Era onere di parte ricorrente dimostrare la violazione dell’art. 112 c.p.c., evidenziando uno specifico capo di domanda riproposto ritualmente ed idoneamente, il che non è avvenuto neppure in sede di memoria ex art. 378 c.p.c.. In ogni caso da quanto emerge dalle difese di controparte (controricorso) sulle quali la memoria ex art. 378 c.p.c., non offre contestazioni fattuali puntuali la comunicazione ex art. 4 dei criteri di scelta e delle modalità di applicazione risulterebbe effettuata non ai lavoratori (per i quali non è previsto), ma agli Uffici competente ed alle OOSS (cfr. pagg. 24 e 25 del controricorso).

Con l’ultimo motivo si allega l’omessa pronuncia in ordine alle richieste istruttorie contenute nel reclamo e la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 420 e 421 c.p.c., in ordine alla mancata ammissione delle richieste istruttoria avanzate.

Il motivo appare inammissibile in quanto non si documenta che nel reclamo sia stato formulato uno specifico motivo concernente la mancata ammissione delle istanze istruttorie richieste (ed in particolare di quelle indicate al motivo) non essendo sufficiente – come si dichiara al motivo – che sia stata genericamente richiesta la loro ammissione come dedotto. La sentenza impugnata riportando i motivi del reclamo a pagg. 6 e 7 non ha fatto menzione di un motivo avente ad oggetto lo specifico tema della mancata ammissione delle istanze istruttorie salvo la questione della disciminatorietà del recesso (pag. 8) sulla quale si è già detto: il capitolo proposto (n. 5) è stato giudicato sul punto del tutto irrilevante, mentre gli altri motivi o concernono (cap. n. 6) il già esaminato profilo della mancata considerazione del rapporto more uxorio con la S. (che è irrilevante perchè la stessa comunque non era comunque “a carico” del ricorrente) oppure il diverso profilo del rispetto dei criteri di scelta (per provare i quali non sembra essere stato proposto alcun gravame in sede di reclamo concernente la mancata ammissione della prova). Peraltro i capitoli nn. 3 e 4 sono inconferenti in ogni caso poichè il ricorrente, come detto, non ha interesse a dolersi della pretesa violazione del criterio di ordine organizzativo che non lo ha pregiudicato e i primi due capitoli sono del tutto generici alludendo a circostanze non specificate adeguatamente. Sicchè, indipendentemente dalla questione della ritualità della doglianza oggi formulata non essendo chiaro se ci si duole della mancata ammissione delle prove per documentare il carattere discriminatorio del recesso o la mancata osservanza dei criteri di scelta, dei capitoli (che sono sei) non è stata dimostrata nè la decisorietà nè l’ammissibilità, così come la richiesta di CTU in ordine alla genuinità dei metodi di calcolo adottati dalla società appare esplorativa.

Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.

La Corte ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 – bis.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, nonchè spese generali al 15% ed accessori come per legge.

La Corte ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2016

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