Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2254 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/01/2011, (ud. 07/12/2010, dep. 31/01/2011), n.2254

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – rel. Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30639-2006 proposto da:

SOGEFI FILTRATION SPA (già FILTRAUTO ITALIA Srl incorporante SOGEFI

FILTRATION Spa e questa in precedenza già FIAAM FILTER Spa), in

persona dell’Amministratore Delegato e legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA LARGO SOMALIA 67 presso lo

studio dell’avvocato GRADARA RITA, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GRASSOTTI AMEDEO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 35/2006 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

BRESCIA, depositata il 10/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/12/2010 dal Presidente e Relatore Dott. ANTONIO MERONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato GRASSOTTI AMEDEO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato GENTILI PAOLO, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI NICOLA, che ha concluso per il rigetto del 1 e 2 motivo,

l’accoglimento del 3 e 4 motivo.

Fatto

La Sogefi Filtratici s.p.a. (già Filtrauto Italia s.r.l., incorporante Sogefi Filtration s.p.a. e questa in precedenza già Fiaam Filter s.p.a.), con ricorsi separati e poi riuniti, ha impugnato il silenzio rifiuto formatosi in esito alla presentazione di due richieste di rimborso di una parte di imposte pagate all’estero e non portate in detrazione nelle dichiarazioni dei redditi degli anni 1994 e 1995, come invece richiesto dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 15, comma 3 – TUIR. Questa Corte è stata già investita della odierna controversia, su ricorso della società, ed ha cassato con rinvio la sentenza con la quale la CTR aveva ritenuto, erroneamente, che la mancata richiesta della detrazione dell’imposta nella dichiarazione dei redditi, relativa al periodo nel quale le imposte sono state pagate a titolo definitivo, avesse comportato la decadenza della società dal diritto invocato. Con sentenza n. 21646/2004, infatti, è stato affermato principio di diritto, vincolante nella specie, secondo il quale la prescrizione in forza della quale “la detrazione del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero spetta, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 15, comma 3, a condizione che la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui le imposte estere sono state pagate a titolo definitivo sia stata presentata in termini e che le detrazioni siano state in essa indicate”, non esclude, “nell’ipotesi in cui il contribuente si avveda di aver commesso nella dichiarazione un errore, avendo inesattamente determinato le detrazioni stesse, che egli può chiedere la restituzione dell’eventuale eccedenza indebita in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38, purchè beninteso ricorrano le condizioni fissate dal detto art. 15 del t.u.i.r.”.

Il giudice del rinvio, con la sentenza indicata in epigrafe, accogliendo l’appello dell’Ufficio (soccombente in primo grado) ha dichiarato non dovuto il rimborso richiesto, sul rilievo che il credito d’imposta compete soltanto nei limiti in cui le imposte pagate all’estero siano riferibili a redditi che entrino a far parte della base imponibile in Italia. Scrive, infatti, la CTR: “Nelle ipotesi, come quella in specie, di percezione di dividendi solo parzialmente dichiarati (nella misura del 40% e del 5%), il calcolo proporzionale non può tener non conto rectius: non può non tener conto di tale parziale esenzione, atteso che in definitiva le imposte scontate all’estero da parte dell’azionista italiano sono detraibili per la sola parte imputabile al dividendo che ha concorso a formare la base imponibile”. Se così non fosse, osserva ancora la CTR, si riconoscerebbe al contribuente, in maniera del tutto ingiustificata, la facoltà di dichiarare solo in parte i redditi prodotti all’estero con diritto a detrarre anche le imposte pagate sul reddito escluso dalla base imponibile.

La società ricorre nuovamente a questa Corte, contro l’Agenzia delle Entrate, per ottenere la cassazione della sentenza della CTR, meglio indicata in epigrafe, sulla base di quattro motivi. L’Agenzia resiste con controricorso.

Diritto

1. Non può trovare accoglimento nessuno dei motivi addotti a sostegno del ricorso e va confermato il principio di diritto affermato dalla CTR, secondo il quale, in forza del combinato disposto degli artt. 15, 96 e 96 bis Tuir vigente ratione temporis, la detrazione delle imposte pagate all’estero sui dividendi esteri compete nei limiti in cui tali dividendi concorrono a formare la base imponibile in Italia.

2. Con il primo motivo, viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., sul rilievo che la CTR, a seguito del rinvio disposto da questa Corte, sarebbe stata investita soltanto del controllo sulla tempestività della istanza di rimborso. Quindi, erroneamente si sarebbe pronunciata anche sul merito della spettanza del rimborso stesso. In altri termini, la ricorrente sostiene la tesi che la cassazione della prima sentenza della CTR, basata sulla affermazione, ritenuta errata, che la società fosse decaduta dal diritto alla detrazione dell’imposta pagata all’estero (per non averla esposta compiutamente nella relativa dichiarazione dei redditi, e quindi per un vizio della procedura di accertamento), abbia comportato la formazione del giudicato favorevole alla società, sul merito della spettanza del rimborso, posto che su questo punto la controparte non aveva proposto ricorso incidentale.

La tesi non è condivisibile, perchè l’Agenzia delle Entrate non aveva alcun onere di impugnazione della prima sentenza della CTR che la vedeva totalmente vittoriosa, sulla base di una questione preliminare che lasciava impregiudicato il merito. Nè rileva il fatto che la CTP aveva accolto nel merito il ricorso della società.

Tale sentenza deve considerarsi travolta dalla decisione di secondo grado, che ha accolto l’appello dell’ufficio per ragioni di procedura, assorbenti rispetto al merito. La CTR ha ritenuto che la mancata esposizione in detrazione del credito di imposta, nella dichiarazione dei redditi, avesse comportato la decadenza dal relativo diritto e, quindi, il tema della spettanza o meno del rimborso è stato travolto ed assorbito dalla statuizione pregiudiziale (risultata poi errata) dell’intervenuta decadenza.

D’altra parte, la pronuncia di rinvio di questa Corte non affronta assolutamente, nemmeno per implicito, il merito della spettanza del rimborso, ritenendo appunto pregiudiziale l’accertamento della regolarità della relativa richiesta di rimborso, prima del quale un esame del merito sarebbe stato contrario ai principi dell’economia processuale e della logica del giudizio. In definitiva, nella specie, il Collegio del precedente giudizio di cassazione ha ritenuto che la mancanza del ricorso incidentale non fosse sintomatico di acquiescenza sul merito. Su tale punto l’odierno Collegio non può più ritornare.

A sostegno della propria tesi, la ricorrente cita una giurisprudenza secondo la quale si forma il giudicato implicito sulle questioni preliminari o pregiudiziali, quando la parte vittoriosa nel merito non contrasti con il ricorso incidentale (sulle questioni preliminari o pregiudiziali) il ricorso principale proposto dalla parte soccombente nel merito (Cass. 10888/1996, 8537/2001, 100/2003). E’ evidente che nella specie tale giurisprudenza non può trovare applicazione: se è vero che l’esame del merito implica il superamento (e quindi una decisione per implicito) delle questioni preliminari o pregiudiziali, le quali quindi devono essere riproposte da chi ne abbia interesse, non è vero l’inverso (cioè la decisione sulle questioni preliminari o pregiudiziali che definisca l’intera controversia non implica una presa di posizione sul merito).

La fattispecie in esame è completamente differente da quella rappresentata dalla citata giurisprudenza. L’ufficio è uscito vittorioso dal primo giudizio di appello in base all’accoglimento di una eccezione pregiudiziale che non implicava nemmeno l’esame del merito (v. art. 276 c.p.c., comma 2).

Il motivo, quindi va rigettato.

3. Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, comma 3, la società ricorrente ripropone, sotto altro profilo, la medesima questione della violazione del giudicato interno, sostenendo che la prima decisione del giudice di appello non può non implicare la decisione di merito, tenuto conto del divieto di decisioni non definitive o parziali vigenti nel processo tributario.

Osserva il Collegio che la decisione sulle questioni pregiudiziale è comunque una decisione che definisce l’intera materia del contendere, pur senza affrontare la questione di merito che resta assorbita (ma non per questo decisa in un senso o nell’altro). Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la disposizione che esclude l’ammissibilità di sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande, costituisce una norma a carattere eccezionale che introduce una deroga rispetto al regime previsto per il processo civile dall’art. 279 cod. proc. civ., e tende soltanto ad “evitare gl’inconvenienti cui il frazionamento del giudizio da generalmente luogo anche nel processo civile, avuto specifico riguardo alla struttura del processo tributario ed al sistema della riscossione frazionata dei tributi, con i quali l’istituto della sentenza non definitiva, ed a maggior ragione quello dell’impugnazione differita che solitamente vi si accompagna, verrebbero inevitabilmente a configgere” (Cass. 7909/2007). La norma, quindi, non incide sulla logica interna delle decisioni, che resta quella di cui all’art. 276 c.p.c., secondo la quale le decisioni sul merito possono implicare una decisione sulle questioni preliminari o pregiudiziali, ma queste non implicano decisioni di merito.

Quindi, anche il secondo motivo di ricorso va rigettato.

4. Con il terzo motivo, denunciando la violazione dell’art. 15, comma 1 – TUIR e la falsa applicazione degli artt. 96 e 96 bis del medesimo TUIR, nel testo vigente ratione temporis, la difesa della società ricorrente sostiene la tesi che per determinare l’ammontare del credito di imposta spettante alla società stessa, ai sensi del citato art. 15, primo comma, si debba tenere conto dell’intero ammontare delle imposte pagate all’estero, comprese quelle che incidono sulla parte dei dividendi esteri che non partecipano alla formazione del reddito complessivo imponibile in Italia (secondo il disposto degli artt. 96 e 96 bis TUIR).

La tesi prospettata dalla ricorrente non sembra condivisibile.

L’interpretazione letterale e sistematica delle norme di riferimento inducono a ritenere che la società non abbia diritto al rimborso richiesto. Non si comprende per quale ragione le imposte che incidono sui dividendi tassati all’estero – che non entrano nella formazione della base imponibile in Italia e quindi sono esenti da imposta in Italia (per cui non sussiste il rischio della doppia imposizione) – dovrebbero essere recuperate in Italia, attraverso il meccanismo del credito/detrazione d’imposta, con la conseguenza non tanto di evitare la doppia imposizione, ma di fare ottenere al percettore la totale esenzione fiscale dei dividendi che vengono tassati all’estero e vengono poi “detassati” in Italia, attraverso il meccanismo del credito d’imposta.

L’art. 15, comma 1, TUIR, vigente ratione temporis, disponeva testualmente che “Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta fino alla concorrenza della quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al lordo delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione”. Dalla lettera della legge, che contiene una norma di carattere generale, risulta chiaramente che per usufruire del credito di imposta occorre che il contribuente sia titolare di redditi prodotti e tassati all’estero e che tali redditi concorrano alla formazione del reddito complessivo tassabile in Italia. Soltanto dopo che sia stato determinato il reddito complessivo tassabile in Italia entra in gioco il limite di detraibilità derivante rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al lordo delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione. In altri termini, il diritto alla detrazione dell’imposta pagata all’estero opera nei limiti in cui il reddito di fonte estera entra a far parte della base imponibile in Italia, fatto salvo l’ulteriore limite stabilito dalla legge. Ne deriva che il prelievo fiscale su redditi esteri che non concorrono alla formazione del reddito complessivo, non da diritto a detrazione.

La norma mette al riparo i contribuenti dalla doppia imposizione in senso giuridico (che, notoriamente, è quella che colpisce più volte lo stesso presupposto d’imposta in capo allo stesso soggetto o in capo a soggetti differenti), in quanto l’imposta pagata all’estero sulla parte di reddito che sia tassabile anche in Italia da diritto alla corrispondente detrazione. Non è così, ovviamente, per i redditi prodotti e tassati all’estero che non siano tassabili anche in Italia (in quanto non entrano a far parte della base imponibile), perchè in tal caso non v’è rischio di doppia imposizione e, addirittura, il meccanismo della detrazione porterebbe alla vanificazione dell’imposta pagata all’estero, che verrebbe detratta indebitamente in Italia.

Rispetto all’art. 15, che contiene una norma di carattere generale, che stabilisce quali siano i presupposti per beneficiare della detrazione d’imposta (titolarità di redditi prodotti e tassati all’estero ma che entrino a far parte della base imponibile in Italia), gli artt. 96 e 96 bis TUIR, nel testo vigente ratione temporis, dettavano uno speciale regime fiscale per un particolare tipo di reddito di provenienza estera, quali i dividendi esteri, prevedendo che dovessero entrare a far parte della base imponibile in Italia soltanto nella percentuale del 40% e del 5%. Infatti, l’art. 96 TUIR, vigente stabiliva che gli utili distribuiti da società collegate, ai sensi dell’art. 2359 c.c. non residenti nel territorio dello Stato concorrevano a formare il reddito soltanto per il 40 per cento del loro ammontare. L’art. 96 bis TUIR invece prevedeva che gli utili distribuiti, in occasione diversa dalla liquidazione, da società non residenti aventi particolari requisiti concorressero alla formazione del reddito soltanto nella misura del 5% del loro ammontare, in presenza di particolari condizioni.

In base a tali disposizioni, soltanto una percentuale dei dividendi esteri concorre alla formazione della base imponibile in Italia. Ne consegue che soltanto per questa percentuale si pone il problema della doppia imposizione, che viene risolto con il sistema della detrazione dell’imposta pagata all’estero sulla frazione di dividendi che entrano nella base imponibile. Come rileva l’amministrazione resistente, è evidente che se il 95% o il 60% dei dividendi esteri non subisce tassazione in Italia, ma soltanto all’estero, su tale percentuale non può verificarsi alcuna doppia imposizione. Quindi, le censure sono infondate.

5. Con il quarto motivo vengono denunciati vizi di motivazione in relazione all’ammontare delle imposte detraibili. Si tratta di censure di merito che, nella parte in cui vengono prospettate come omessa valutazione delle risultanze processuali sono carenti di autosufficienza (a parte la considerazione che si tratterebbe di violazione di una norma processuale, che andava eventualmente denunciata ai sensi dell’art. 360, n. 4, in relazione all’art. 116 c.p.c. ed il motivo doveva concludersi con il prescritto quesito di diritto). Il motivo, oltretutto, è inammissibile anche perchè privo del quesito-sintesi richiesto quando si denuncia un vizio di motivazione (Cass. 2652/2008).

6. Conseguentemente, il ricorso nel suo complesso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate in considerazione della novità e complessità delle questioni prospettate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 7 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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