Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22539 del 07/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 07/11/2016, (ud. 14/09/2016, dep. 07/11/2016), n.22539

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18669/2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, c.f. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

C.S., in persona del legale rappresentante Sig. C.L.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. DENZA 15, presso lo studio

dell’avvocato STEFANO MASTROLILLI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CLAUDIO SOLINAS giusta procura a margine del

ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10420/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di VENEZIA, emessa il 10/02/2015 depositata il 24/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/09/2016 dal Consigliere Relatore Dott. PAOLA VELLA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., osserva quanto segue.

1. Con il primo motivo si deduce la “nullità della sentenza: violazione del D.Lgs. n. 346 del 1992, art. 36, art. 132 disp. att. c.p.c., comma 2, n. 4) e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. – vizio di motivazione apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, non essendo ricavabile “da quali concrete prove la CTR abbia dedotto il suo convincimento in ordine allo stato soggettivo di buona fede da parte del rappresentante dell’impresa”, nè “quale sia la documentazione prodotta dalla quale desumere che sia comunque dimostrata la diligenza normale professionale richiesta rispetto a quel periodo (2007)”.

2. Il secondo censura la “violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 7, 21, 23 e 27, D.P.R. n. 322 del 1998, art. 8, del D.L. n. 331 del 1993, art. 41, convertito in L. n. 427 del 1993, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) ” poichè, “nel caso di specie, la contestazione dell’Ufficio atteneva alla mancanza di prova che le merci fossero effettivamente giunte a destinazione” e, incombendo “l’onere della prova sul contribuente”, “la CTR avrebbe dovuto verificare l’intervenuta prova di detto elemento, a prescindere allo stato soggettivo dello stesso”.

3. Entrambe le censure sono infondate.

4. Sicuramente non sussiste il radicale vizio di nullità della sentenza per apparenza della motivazione, avendo i giudici d’appello chiaramente argomentato la decisione favorevole alla contribuente.

5. In particolare, nella sentenza impugnata si legge che – a fronte di un “sistema di vendita adottato in occasione delle manifestazioni fieristiche presso la Fiera di (OMISSIS)”, con cessioni di “oggetti di oreficeria venduti a commercianti di altre nazioni, perfezionatesi con il pagamento normalmente in contanti, ritirati dagli acquirenti ed a loro cura trasportati all’estero” – il fatto sarebbe caratterizzato “da una consegna diretta di merce al cessionario che diventa anche vettore della stessa”, “assimilabile alla vendita franco fabbrica, ovvero con trasporto a carico dell’acquirente, in quanto il cedente al momento della consegna dei beni al vettore non ha più la possibilità di controllare la fisica movimentazione dei beni stessi”, con la conseguenza che, pur gravando sul cedente “l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale redime impositivo”, tuttavia, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia UE 27/9/2007, costituiscono elementi importanti le circostanze “che il fornitore ha agito in buona fede, che ha adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere e che è esclusa la sua partecipazione ad una frode”; d’altro canto, “l’operatore italiano non è tenuto a svolgere attività investigative sulla movimentazione subita dai beni dopo che gli stessi sono stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario”, dovendosi limitare a “verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte” (Cass. n. 13457/12).

6. Detta decisione non integra nemmeno gli errores in indicando prospettati dall’amministrazione ricorrente, risultando in linea con il formante giurisprudenziale interno di legittimità e dell’Unione europea.

7. Ed invero, in tema di cessioni intracomunitarie di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 41, convertito con modificazioni dalla L. n. 427 del 1993, questa Corte ha ribadito che, “in considerazione delle disposizioni normative, dei principi di diritto eurounitario, delle indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria e del normale svolgimento delle transazioni commerciali”, grava sul cedente, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare, con mezzi adeguati, la consegna della merce al vettore, l’effettività dell’esportazione in altro Stato membro e la propria buona fede, potendo l’esenzione essere negata al contribuente “ove risulti, in base ad elementi oggettivi, che egli, conoscendo o avendo dovuto conoscere che l’operazione effettuata rientrava in un’evasione posta in essere dall’acquirente, non aveva adottato misure ragionevoli per evitare di parteciparvi” (Cass. nn. 12751/11, 7389/12, 13457/12, 4636/11, 176/15, 8613/15, 15639/15). Si è in tal modo dato continuità all’indirizzo in forza del quale “la non imponibilità delle cessioni di beni asseritamente destinati all’esportazione, subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità del cessionario sulla destinazione del bene fuori del territorio comunitario e al possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla norma, viene meno qualora si accerti che i beni non siano stati effettivamente esportati e che tale dichiarazione sia ideologicamente falsa. In questo caso l’obbligo del cedente di assolvere successivamente l’Iva su tali beni può essere escluso solo nella misura in cui risulti provato che egli abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere, al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla frode” (Cass. sez., n. 7524/16; cfr. Corte giust. 16/12/2010, C-430/09, Euro Tyre Holding BV; 6/12/2012, C-273/11 Mecsek-Gabona Kft).

8. In particolare, in ipotesi di vendita con la clausola “franco fabbrica”, è stata ritenuta sufficiente la prova alternativa di “fatti secondari” da cui desumere la presenza delle merci in un territorio diverso dallo Stato di residenza, ovvero, “se la documentazione sia in possesso di terzi non collaboranti e non sia acquisibile da altri soggetti, di aver espressamente concordato, nei contratti stipulati con vettore, spedizioniere e cessionario, l’obbligo di consegna del documento e, a fronte dell’altrui inadempimento, di aver esperito ogni utile iniziativa (Cass. n. 26062/15; coni. 5142/16, 4553/15, 26466/14, 16328/11, 20575/12).

9. La buona fede del cedente può dunque intervenire in funzione di riequilibrio della distribuzione dell’inus probandi tra Amministrazione finanziaria e contribuente solo nel caso in cui il soggetto passivo cedente non sia in grado di fornire adeguata prova di circostanze decisive (particolari condizioni contrattuali, modalità di consegna della merce, condotta dell’acquirente) che siano rimaste estranee alla sua sfera di controllo, nonostante l’adozione di tutte le misure richieste dalla dovuta diligenza, facendolo restare pregiudicato da una condotta illecita della quale non era, nè poteva essere, a conoscenza (Cass. n. 4553/15); ed è stato altresì chiarito che, in simili casi, la prova adeguata non è quella diretta ad escludere la malafede, bensì quella diretta a dimostrare, in prima battuta, l’effettività dell’esportazione e, “qualora sia invece provato e ammesso che tale esportazione non vi è stata”, l’inganno subito dal cedente nonostante l’adozione delle opportune cautele (Cass. n. 178/15; conf. n. 1670/13).

10. Nel caso di specie, in cui non vi era la prova nè che le merci non fossero effettivamente giunte a destinazione, nè che fosse stata commessa una frode, il giudice d’appello ha esaminato i documenti offerti dal contribuente (listings emessi dai cessionari, attestazioni di ricezione merce ed attestazioni dell’organo di controllo interno degli Stati destinatari, menzionati a pag. 3 della sentenza) per concludere – in base ad una valutazione di merito incensurabile in questa sede – che, “vista la documentazione prodotta e considerato che l’Ufficio non ha mai sollevato dubbi sul possibile inserimento di queste tipiche cessioni commerciali nell’ambito di caroselli atti a mettere in atto operazioni fraudolente”, “ritiene che sia comunque dimostrata la diligenza normale professionale richiesta rispetto a quel periodo (2007)”.

11. Il rigetto del ricorso segue la condanna dell’amministrazione ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente, liquidate come da dispositivo.

12. Non ricorrono invece i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, essendo la parte ricorrente un’amministrazione pubblica per la quale opera il meccanismo della prenotazione a debito delle spese (cfr. Cass. S.U. n. 9338/14; conf. Cass. sez. IVA, n. 1778/16 e 6-T n. 18893/16).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’amministrazione ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate in Euro 4.500,00 nonchè Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario, Iva e Cp come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2016

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