Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22537 del 09/08/2021

Cassazione civile sez. I, 09/08/2021, (ud. 15/07/2021, dep. 09/08/2021), n.22537

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25162/2017 proposto da:

G.E., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dagli avvocati Moshi Nyranne, Assael Ivan, Palmieri Daniela, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.C.V.A., elettivamente domiciliato in Roma,

Viale Carso n. 43, presso lo studio dell’avvocato Izzo Carlo

Guglielmo, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Dionisio Antonio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1757/2017 della CORTE D’APPELLO DI TORINO,

pubblicata il 31/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/07/2021 dal cons. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma dell’impugnata sentenza – che già aveva elevato da Euro 2500,00 a Euro 3000,00 la misura dell’assegno divorzile dovuto da G.E. all’ex coniuge D.C.V.A. – ha ulteriormente elevato l’assegno a Euro 5000,00.

La Corte ha evidenziato la sperequazione reddituale tra le parti e, in particolare, da un lato, l’incremento delle esigenze di accudimento del D., colpito da una grave patologia invalidante (in “stato di handicap con connotazione di gravità”, grave e permanente limitazione della capacità di deambulazione, permanente inabilità lavorativa del 100%), che lo aveva costretto a lasciare il suo lavoro dirigenziale, e titolare di pensioni quasi interamente assorbite dalle retribuzioni dovute a due badanti e dal canone corrisposto per l’abitazione in locazione; dall’altro, ha evidenziato le ottime condizioni economiche della moglie, già sollevata dagli obblighi di versamento di premi assicurativi e di mantenimento della figlia.

La G. propone ricorso per cassazione, illustrato da memoria, resistito dal D..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., comma 2, per avere rigettato l’eccezione di genericità e inammissibilità dell’appello del D., è infondato, avendo la Corte territoriale correttamente osservato che l’appellante aveva argomentato i passaggi logici non condivisi apportando un diverso criterio valutativo, attraverso l’allegazione di circostanze specificamente dedotte, risultando l’appello formulato con motivi sufficientemente specifici.

Con il secondo motivo la G. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. e art. 116 c.p.c., per avere violato le regole della prova civile, avendo la Corte torinese ritenuto che il D. aveva attinto ai propri risparmi, in mancanza di prova al riguardo, per far fronte alle ingenti spese mediche e di assistenza, omettendo di valutare le disponibilità finanziarie dell’ex coniuge.

Il motivo è inammissibile, risolvendosi nel tentativo di ottenere una impropria rivisitazione di apprezzamenti di fatto esaurientemente compiuti dai giudici di merito, i quali hanno osservato che il D. doveva far fronte da diversi anni a ingenti spese non solo per le cure sanitarie, ma anche per la propria assistenza personale, che assorbivano quasi interamente l’importo di due pensioni, al punto che doveva attingere ai propri risparmi, seppure non vi fosse prova della loro erosione. Il motivo, inoltre, non coglie l’ulteriore ratio decidendi, secondo cui l’incremento della misura dell’assegno era determinato, oltre che dall’aumento delle spese di assistenza a carico del D., dal fatto che la G. non era più gravata da ulteriori oneri, tra i quali quello relativo al mantenimento della figlia.

Il terzo motivo che denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e omesso esame di fatti decisivi, per la mancata prova delle maggiori spese sostenute dall’ex coniuge, è inammissibile, risolvendosi nel tentativo di provocare una rivisitazione di incensurabili apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici di merito.

Il quarto motivo, che denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, art. 2697 c.c. e art. 10, comma 1, lett. c), TUIR, in ordine alla quantificazione dell’assegno che la ricorrente reputa dovuto in misura inferiore a quella determinata nella sentenza impugnata, è infondato.

La Corte territoriale ha giustificato l’incremento dell’assegno divorzile per la necessità di garantire al D. l’autosufficienza economica, in linea con la funzione preminentemente assistenziale dell’istituto (cfr. Cass. n. 11504 del 2017), in considerazione delle gravi condizioni di salute che lo costringono a sostenere rilevanti spese sanitarie e di assistenza personale, a fronte delle ottime condizioni economiche della G., ritenuta “estremamente benestante”.

Si dimostra, in tal modo, come il principio di indipendenza o autosufficienza economica non sia affatto astratto, ma concreto e idoneo a costituire un sicuro parametro legale per la valutazione della “adeguatezza dei mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno (L. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 5), ai fini sia dell’attribuzione che della quantificazione dell’assegno. E ciò anche alla luce delle precisazioni operate nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha osservato che “a giustificare l’attribuzione dell’assegno non e’, quindi, di per sé, lo squilibrio o il divario tra le condizioni reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, né il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica” di uno dei coniugi, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa. Quest’ultimo parametro va apprezzato con la necessaria elasticità e l’opportuna considerazione dei bisogni del richiedente l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita nel contesto sociale. Per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi interprete, ad essa rapportando, senza fughe, le proprie scelte valutative, in un ambito necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile” (cfr. Cass. n. 3015 del 2017).

In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 4200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Oscuramento dei dati personali.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2021

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