Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22534 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. III, 16/10/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 16/10/2020), n.22534

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31598-2019 proposto da:

I.V., rappresentato e difeso per procura a margine del

ricorso dall’avv. MAURO PIGINO del Foro di Vercelli, con studio in

Vercelli via Fiume 5C, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo

PEC di questi;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ex

lege;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1118/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 27/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

I.V., cittadino della Nigeria, propone ricorso per cassazione nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso la sentenza n. 1118/2019 della Corte d’Appello di Torino, pubblicata in data 17.5.2019, non notificata.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Il ricorrente, proveniente dalla Nigeria, riferisce nel ricorso di aver abbandonato il suo paese per le condizioni di estrema povertà in cui viveva, e per la pericolosità di esso. Riferisce di essersi trasferito in Libia, dove lavorava presso un autolavaggio, di essere stato arrestato e torturato e quindi da lì fuggito alla volta dell’Italia. Segnala che il suo ricorso, volto ad ottenere le due protezioni maggiori ed in subordine il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, era stato rigettato essendo stato ritenuto un migrante determinato da motivi esclusivamente economici, e in quanto si era ritenuto che la Nigeria non fosse interessata da una situazione di conflitto armato o di violenza indiscriminata e che pertanto mancassero i presupposti per il riconoscimento delle misure di protezione richieste.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e comunque l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Rileva che la Corte d’appello, nel rigettare la sua impugnazione ha escluso che la Nigeria, e in particolare la regione del Delta State di sua provenienza, sia interessata da una condizione di violenza indiscriminata, violando il proprio dovere di cooperazione istruttoria ed in particolare omettendo di acquisire informazioni complete ed aggiornate sulla situazione sociale e politica esistente in Nigeria ed in particolare nella zona di provenienza del ricorrente. Riferisce, citando lo stesso sito “viaggiaresicuri” del Ministero degli Esteri, unico ad essere citato nella sentenza impugnata, aggiornato alla data di presentazione del ricorso, che dallo stesso emerge una situazione ben diversa e più preoccupante di quella rappresentata nel provvedimento impugnato, anche quanto alla regione del Delta State.

Il motivo è fondato e va accolto.

E’ orientamento consolidato di questa Corte che nei giudizi aventi ad oggetto domande di protezione internazionale e di accertamento del diritto al permesso per motivi umanitari, la verifica delle condizioni socio politiche del paese di origine non può fondarsi su informazioni risalenti ma deve essere svolta, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, all’attualità (in questo senso Cass. n. 28990 del 2018; Cass. n. 11096 del 2019; Cass. n. 13897 del 2019), e che, per non incorrere nel vizio di motivazione apparente, la decisione che contrapponga alla ricostruzione della situazione socio politica del ricorrente una propria differente ricostruzione che, sulla base di informazioni diverse rispetto a quelle offerte in condivisione dal ricorrente, escluda una situazione di pericolo generalizzato o di violenza indiscriminata, deve esplicitare quali siano le fonti dalle quali ha estratto le informazioni poste a base della decisione.

Questa Corte ha inoltre recentemente affermato che ai fini dell’adempimento del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, i contenuti del sito “viaggiaresicuri” del Ministero degli Esteri – se non corroborati da altre pertinenti e recenti fonti informative – sono per sè inidonei (per le preminenti finalità di assistenza al turismo che connota la fonte) a fornire informazioni pienamente adeguate e attendibili sulle effettive situazioni di criticità del tessuto sociale, politico ed economico dei territori considerati, e in ogni caso di per sè insuscettibili di escludere il ricorso dei presupposti necessari ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria (Cass. n. 10834 del 2020).

Il motivo di ricorso va accolto, quindi, in quanto manca nella sentenza impugnata un esame della denunciata situazione di pericolosità diffusa del paese di provenienza alla luce di informazioni attendibili e aggiornate al tempo storico della decisione, che non possono essere attinte esclusivamente dal sito “viaggiaresicuri”, essendo esso di sicura attendibilità quanto alla provenienza da fonte ufficiale ma finalizzato a fornire informazioni di viaggio e a segnalare possibili fonti di rischi ai turisti e non alla diversa finalità di fornire una ricostruzione obiettiva analitica e complessiva delle situazioni di pericolo esistenti in un paese.

Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, o comunque l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostiene che, in riferimento alla protezione umanitaria, la sentenza impugnata avrebbe svalutato il percorso di integrazione compiuto e documentato, attribuendo ad esso l’esclusiva rilevanza di un modo di tenersi impegnato, per consentirgli di svolgere una vita attiva e di impiegare il periodo di attesa della decisione sulle protezioni umanitarie, in vista di una integrazione futura.

Evidenzia invece di aver intrapreso attività che vanno ben oltre quelle comunemente attuate nella prima fase di arrivo in Italia, grazie al supporto delle strutture di accoglienza, avendo intrapreso l’apprendimento della lingua, superando anche l’esame finale a conclusione del primo ciclo di istruzione, avendo portato a termine due diversi corsi di formazione professionali (dei quali produce anche il certificato) e soprattutto segnala di essersi inserito nel mondo lavorativo italiano in modo stabile e duraturo, avendo un contratto di lavoro sì a tempo determinato, ma portato avanti fin dal 2017 con lo stesso datore di lavoro e quindi tendenzialmente un lavoro stabile.

Anche questo motivo deve essere accolto, in quanto la corte d’appello, al di là dell’apprezzamento in fatto, che non è di competenza della corte di legittimità, pur a fronte di un percorso di integrazione documentato, non ha ritenuto di procedere al giudizio di comparazione imposto già da Cass. n. 4455 del 2018 e poi da SU, n. 29459 del 2019.

In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S. U. n. 29459 del 2019).

La sentenza contiene infatti alcune affermazioni non condivisibili ed errate: non è condivisibile, nella sua assolutezza, l’affermazione della corte d’appello laddove dichiara, a pag. 5, che la maggiore o minore integrazione in Italia e l’attività lavorativa svolta non hanno alcuna rilevanza ai fini della valutazione dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, e laddove di seguito specifica che tutte le attività svolte nel periodo trascorso in Italia, siano esse di volontariato, di istruzione, di formazione professionale, di lavoro subordinato, non possono costituire autonomo titolo per il riconoscimento della protezione umanitaria, nè valida prova del radicamento del richiedente asilo nel territorio.

E’ ben vero che, come prosegue la sentenza, il grado di integrazione sociale non può essere il motivo unico per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, dovendo comunque essere presente una violazione, o un pericolo di violazione dei diritti umani ne paese di provenienza, al di sotto della soglia che identifica la condizione di vulnerabilità. E tuttavia tale affermazione, proprio per la sua assolutezza, si pone in aperto contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite in relazione alla necessità di procedere al giudizio di comparazione tra la situazione che l’immigrato si è costruita in Italia, e la condizione in cui andrebbe a reinserirsi ove rimpatriato nel paese di origine: “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass. n. 29459 del 2019), e ciò al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, in quanto appare svalutare fino a zero il percorso di integrazione compiuto in Italia dal richiedente il permesso umanitario.

Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

 

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