Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22531 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. III, 10/09/2019, (ud. 30/05/2019, dep. 10/09/2019), n.22531

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22197-2017 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE BRUNO BUOZZI

99, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI LAZZARA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato SABRINA GIANI;

– ricorrente –

contro

GENERALI ITALIA SPA, in persona dei legali rappresentanti Dott.

C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE

DELLA VITTORIA 5, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ARIETA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO

FOSSATI;

– controricorrente –

e contro

M.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 65/2017 del TRIBUNALE di CUNEO, depositata il

19/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/05/2019 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI.

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza resa in data 19/1/2017, il Tribunale di Cuneo ha rigettato la domanda proposta da G.M. per la condanna di M.A. al risarcimento dei danni subiti dall’attore come conseguenza nel negligente adempimento, da parte del convenuto, degli obblighi professionali di avvocato sullo stesso incombenti nell’interesse del G., per non essersi il M. prontamente attivato al fine di impedire la prescrizione di un credito risarcitorio vantato dal G. nei confronti di terzi a seguito di un sinistro stradale;

che, a fondamento della decisione assunta, il tribunale ha evidenziato come, al momento del contestato inadempimento del M., il rapporto professionale tra le parti fosse stato già da tempo risolto, avendo lo stesso M. tempestivamente manifestato la propria volontà di recederne;

che, con ordinanza in data 14/6/2017, la Corte d’appello di Torino ha dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., l’appello proposto dal G., rilevando, tra le restanti argomentazioni, la tardività della deduzione, da parte dell’appellante, del preteso profilo di inadempimento del M. consistito nel mancato avvertimento, al momento del recesso dal rapporto professionale, dell’imminente scadenza della prescrizione del credito dell’attore;

che avverso la sentenza di primo grado e l’ordinanza del giudice d’appello, G.M. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione;

che la Generali Italia s.p.a., già chiamata in giudizio a fini di manleva, resiste con controricorso;

che M.A. non ha svolto difese in questa sede;

che G.M. e la Generali Italia s.p.a. hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza di primo grado per violazione dell’art. 1176 c.c. in combinato disposto con l’art. 1703 c.c. e ss. e art. 1362 c.c. e ss. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il tribunale erroneamente interpretato la corrispondenza intercorsa tra le parti in relazione all’avvenuta conclusione del rapporto professionale in esame, e per aver erroneamente qualificato il comportamento contrattuale del M., escludendone immotivatamente e, comunque, in modo illogico l’effettiva violazione dei doveri di diligenza sullo stesso incombenti;

che il motivo è inammissibile;

che, al riguardo, osserva il Collegio come, con il motivo in esame, il ricorrente si sia limitato alla prospettazione di una rilettura nel merito, tanto dell’interpretazione delle manifestazioni di volontà negoziale delle parti consacrate nella documentazione richiamata in ricorso, quanto del relativo comportamento contrattuale, sulla base di una diversa rivisitazione degli elementi istruttori acquisiti nel corso del giudizio, senza dedurre l’effettivo e inequivoco ricorso di una reale violazione dei canoni legali di ermeneutica negoziale, nè dei canoni legali di valutazione della diligenza del professionista: valutazione, nella specie operata, dal giudice a quo, sulla base di un percorso argomen-tativo che appare immune da vizi d’indole logico-giuridica;

che, infatti, varrà in primo luogo osservare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione degli atti negoziali deve ritenersi indefettibilmente riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente nei limiti consentiti dal testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero nei casi di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3;

che in tale ultimo caso, peraltro, la violazione denunciata chiede d’essere necessariamente dedotta con la specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi altrimenti, la ricostruzione del contenuto della volontà delle parti, in una mera proposta reinterpretativa in dissenso rispetto all’interpretazione censurata; operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003, Rv. 568253);

che, nel caso di specie, l’odierno ricorrente si è limitato ad affermare, in modo inammissibilmente apodittico, il preteso tradimento, da parte dei giudici di merito, della comune intenzione delle parti (ai sensi dell’art. 1362 c.c.) e, genericamente, dei restanti canoni legali di ermeneutica negoziale, orientando l’argomentazione critica rivolta nei confronti dell’interpretazione del giudice a quo, non già attraverso la prospettazione di un’obiettiva e inaccettabile contrarietà, a quello comune, del senso attribuito ai testi e ai comportamenti negoziali interpretati, o della macroscopica irrazionalità o intima contraddittorietà dell’interpretazione complessiva dell’atto, bensì attraverso l’indicazione degli aspetti della ritenuta non condivisibilità della lettura interpretativa criticata, rispetto a quella ritenuta preferibile, in tal modo travalicando i limiti propri del vizio della violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) attraverso la sollecitazione della corte di legittimità alla rinnovazione di una non consentita valutazione di merito;

che, sul punto, è appena il caso di rilevare come il tribunale abbia proceduto alla lettura e all’interpretazione delle dichiarazioni in esame nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore, non ricorrendo ad alcuna attribuzione di significati estranei al comune contenuto semantico delle parole, nè spingendosi a una ricostruzione del significato complessivo degli atti interpretati in termini di palese irrazionalità o intima contraddittorietà, per tale via giungendo alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto al testo interpretato, e del tutto scevro da residue incertezze, sì da sfuggire integralmente alle odierne censure avanzate dal ricorrente in questa sede di legittimità;

che, quanto alla paventata violazione dei canoni legali di valutazione della diligenza professionale, varrà considerare come il ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle norme di legge richiamate – alleghi un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica del ricorrente, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente lo stesso nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo;

che, nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate dall’odierno ricorrente deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dal giudice a quo del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o dei rapporti tra le parti ritenuti rilevanti;

che si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato;

che, ciò posto, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/05/2005, Rv. 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892), non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti;

che, con il secondo motivo, il ricorrente censura l’ordinanza emessa dal giudice d’appello, per violazione degli artt. 183,190 e 345 c.p.c., in relazione agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. (con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere il tribunale illegittimamente rilevato la tardività dell’argomentazione proposta dal G. in ordine allo specifico profilo di inadempimento del M. consistito nell’aver trascurato di avvertire il proprio cliente dell’imminente decorso della prescrizione del relativo credito, essendo viceversa risultata, dagli atti di causa, la tempestiva deduzione della circostanza di fatto nella comparsa conclusionale depositata in primo grado;

che il motivo è inammissibile;

che, sul punto osserva il Collegio come l’avvenuta deduzione, da parte del ricorrente, solo nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, della circostanza relativa al mancato avvertimento del proprio cliente in ordine all’imminente decorso della prescrizione del relativo credito, non valga a escluderne l’effettiva tardività, non essendo stato posto, il convenuto, nelle condizioni di contraddire in modo effettivo (anche nel senso della possibilità di negare la deduzione in termini probatori) sulla circostanza, mai tempestivamente posta a oggetto del contraddittorio delle parti nei termini processualmente imposti, dovendo ritenersi che, nella specie, la deduzione in ordine al comportamento contestato era certamente valsa a modificare i termini e i confini dell’indagine istruttoria processualmente proposta, sì da configurarsi quale vera e propria mutatio libelli;

che, sul punto, varrà richiamare l’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 12621 del 20/07/2012, Rv. 623842 – 01);

che, con il terzo motivo, il ricorrente censura l’ordinanza del giudice d’appello per violazione dell’art. 1176 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1703 ss. e 1362 ss. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il giudice a quo erroneamente interpretato la documentazione relativa alla corrispondenza intercorsa tra le parti in ordine alla definizione del rapporto professionale in esame, e per aver erroneamente qualificato il comportamento contrattuale del M. in relazione all’effettiva violazione dei doveri di diligenza sullo stesso incombenti;

che il motivo è inammissibile;

che, al riguardo – ferma la decisività, nel merito, delle medesime ragioni già argomentate a proposito del riconoscimento dell’inammissibilità del primo motivo di ricorso – è appena il caso di osservare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c. emessa per manifesta infondatezza nel merito del gravame non è ricorribile per cassazione, neppure ai sensi dell’art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento carente del carattere della definitività, giacchè il medesimo art. 348-ter c.p.c., comma 3 consente di impugnare per cassazione il provvedimento di primo grado (cfr. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20470 del 12/10/2015, Rv. 637505 – 01);

che, pertanto, sulla base delle argomentazioni che precedono, dev’essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al rimborso, in favore della società controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo, oltre all’attestazione della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 12.000,00, oltre alle spese for-fettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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