Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22526 del 28/10/2011

Cassazione civile sez. I, 28/10/2011, (ud. 12/07/2011, dep. 28/10/2011), n.22526

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.C. – B.I. – P.L. –

P.G. – P.A. – P.C. –

PI.GI., elettivamente domiciliati in Roma, Via

Nicastro, n. 3, nello studio dell’Avv. Carlo Voccia; rappresentati e

difesi, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv.

CRISCI Lucio;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SAN MARTINO SANNITA, in persona del Sindaco p.t.,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Claterna, n. 13, nello studio

della Dott.ssa Angela De Maria; rappresentato e difeso dall’Avv.

D’AURIA Giuseppe, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

B.E.;

– intimata –

nonchè sul ricorso proposto in via incidentale da COMUNE DI SAN

MARTINO SANNITA, in persona del Sindaco p.t., come sopra

rappresentato;

contro

B.C. – B.I. – P.L. –

P.G. – P.A. – P.C. –

PI.GI.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, n. 2193,

depositata in data 30 giugno 2004;

sentita la relazione all’udienza del 12 luglio 2011 del Consigliere

Dott. Pietro Campanile;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott. Federico Sorrentino, il quale ha concluso per il rigetto del

ricorso principale, assorbito l’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Il Tribunale di Benevento, con sentenza del 5 dicembre 2002, accoglieva la domanda proposta da Bo.Co., C., E. e I. nei confronti del Comune di San Martino Sannita, in relazione all’occupazione acquisitiva di un terreno già appartenente al loro de cuius, B.G..

1.1 – Veniva, in particolare, accolta la tesi secondo cui, essendo stata disposta l’occupazione dell’area in data 25 ottobre 1986 per la realizzazione di interventi del piano di zona Z2, il decreto di esproprio non era mai intervenuto.

Per converso, il Tribunale si dichiarava incompetente in relazione alla domanda di determinazione dell’indennità di occupazione.

1.2 – La Corte di appello di Napoli, pronunciando sull’appello proposto in via principale dal Comune, nonchè sull’impugnazione incidentale degli attori, rilevava che non poteva affermarsi l’illegittimità della procedura, essendo il decreto di esproprio intervenuto tempestivamente, vale a dire in data 8 gennaio 1998, durante il periodo di anni 18 di efficacia del piano di zona, come prorogato ai sensi della L. n. 547 del 1978, art. 51. D’altra parte, si affermava l’erroneità della declaratoria di incompetenza in relazione all’indennità di occupazione, che veniva liquidata, in assenza per altro di contestazioni in merito alla sua entità, in Euro 10.970,00 con riferimento a quanto spettante agli appellanti in via incidentale.

1.3 – Per la cassazione di tale decisione propongono ricorso C. e B.I., nonchè gli eredi di Bo.

C. indicati in epigrafe, deducendo quattro motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il Comune di San Martino Sannita, che, con unico e complesso motivo, chiede in via incidentale la cassazione delle statuizioni inerenti alla determinazione dell’indennità di occupazione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Deve in primo luogo disporsi la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

2.1 – Va ancora rilevato che, a fronte di una decisione emessa nei confronti di quattro comproprietarie del bene ablato, una di esse, B.E. (essendo per la sorella Co., deceduta nelle more, subentrati i suindicati eredi), pur avendo partecipato al giudizio di merito, non ha proposto ricorso per cassazione. Secondo la giurisprudenza di questa corte, con riguardo all’espropriazione di beni indivisi, l’opposizione del singolo comproprietario estende i suoi effetti anche agli altri comproprietari ed implica che il giudizio debba determinare l’indennità nel suo complesso, in quanto l’obbligazione indennitaria dell’espropriante non può essere adempiuta in forma frazionata e la comunione, con oggetto l’indennità, permane fin quando non ne sia disposto lo svincolo. Si ritiene tuttavia che, qualora solo alcuni degli opponenti comproprietari abbiano coltivato il giudizio nei gradi d’impugnazione non può configurarsi la formazione frazionata del giudicato in capo ai diversi opponenti, i quali tutti devono considerarsi parti processualmente necessarie nei successivi gradi, anche se non abbiano proposto impugnazione, con ciò escludendosi il frazionamento del giudizio postulato dal comune ricorrente (Cass., 24 marzo 2011, n. 6873). Correttamente, pertanto, l’impugnazione principale è stata notificata anche alla predetta B.E., dovendosi per altro rilevare che inammissibilità del ricorso incidentale, appresso evidenziata, esclude, in virtù del principio della ragionevole durata del processo, trattandosi di attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio, che debba disporsi, in parte qua, l’integrazione del contraddittorio (Cass., Sez. Un., 23 marzo 2010, n. 6826).

Mette conto di rimarcare che, nella diversa ipotesi in cui l’azione del singolo proprietario abbia contenuto risarcitorio, la pretesa non può essere coltivata oltre i limiti del pregiudizio sofferto in proprio dall’istante (Cass. 26 maggio 1997 n. 4650), e che, conseguentemente, in tema di responsabilità della P.A. per occupazione illegittima del fondo, l’appartenenza del fondo medesimo a più comproprietari non implica solidarietà attiva in un unico credito risarcitorio, ma comporta l’insorgenza di un autonomo diritto di ciascuno dei comproprietari al ristoro del pregiudizio causato al proprio patrimonio, e ciascuno dei detti comproprietari ha la possibilità di agire in giudizio per il risarcimento del danno nei limiti della propria quota di comproprietà del bene Cass., 12 gennaio 2010, n. 254; Cass. 28 luglio 1999 n. 8177).

3 – Va altresì rilevata, sempre in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso incidentale, in quanto assolutamente carente degli indefettibili requisiti richiesti dal combinato disposto degli artt. 371 e 366 cod. proc. civ., nell’interpretazione costantemente resa da questa Corte.

Ed invero, mentre il controricorso, avendo la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, non necessita dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, potendo richiamarsi a quanto già esposto nel ricorso principale, lo stesso atto, quando racchiuda anche un ricorso incidentale, deve contenere, in ragione della sua autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti della causa ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 cod. proc. civ., comma 3, e art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 3. Ne consegue che il ricorso incidentale è inammissibile tutte le volte in cui si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, potendo il requisito imposto dal citato art. 366 reputarsi sussistente solo quando, nel contesto dell’atto di impugnazione, si rinvengano gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. 8 gennaio 2010, n. 76; Cass., 31 gennaio 2007, n. 2097). Nel controricorso in esame, al di là di un fugace ed indistinto richiamo a “tutto quanto dedotto ed eccepito nel corso del giudizio di primo grado, a quanto precisato con l’atto di appello in data 15.3.2003, ed a quanto ripetuto con la comparsa conclusionale ..”, mediante un inammissibile rinvio per relationem ad altri atti processuali, non è dato di rinvenire elementi che consentano di individuare l’oggetto e l’origine della controversia, lo svolgimento del processo e le posizioni delle parti: il tutto in palese violazione del principio testè richiamato.

4 – Con il primo motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 219 1981, art. 28, in relazione alla L. n. 167 del 1962, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendosi che, a seguito della caeducazione del piano di zona, a seguito dell’adozione del P.R.G., i termini di efficacia dello stesso andavano valutati entro tali limiti, con conseguente intempestività del decreto di esproprio.

4.1 – Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 20, della L. n. 457 del 1978, art. 51 e dell’art. 42 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendosi che, avendo il Comune optato per la procedura prevista dalla L. n. 865 del 1971, non poteva tenersi conto della durata di efficacia del piano di zona, bensì del termine di validità massima – ex lege – di cinque anni del decreto di occupazione, che indicava il maggior termine di dieci anni. Si aggiunge che, al di là di tale improprio riferimento, la corte avrebbe ritenuto come emesso un decreto di esproprio in realtà mai acquisito agli atti del processo.

4.2 – Con il terzo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione agli aspetti sopra evidenziati.

4.3 – Viene infine riproposta, con l’ultimo motivo, la questione dell’inammissibilità dell’atto di appello del Comune, denunciandosi violazione dell’art. 342 c.p.c., essendo lo stesso privo di quelle indicazioni atte ad individuare l’oggetto e le ragioni del gravame.

5 – Quest’ultimo motivo deve essere preliminarmente esaminato, per evidenti ragioni di priorità sul piano logico-giuridico.

Dello stesso, per come formulato, deve rilevarsi l’inammissibilità, essendo assolutamente carente sul piano dell’autosufficienza e della specificità, in quanto non indica quali censure, ed in quali termini, sarebbero state formulate nell’atto di appello della controparte.

Giova in proposito richiamare il principio secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ovvero, come nella specie, riproponga la questione della relativa inammissibilità, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea la statuizione del giudice di appello, e, a tal fine, non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la portata (Cass., 20 settembre 2006, n. 20405; Cass., 31 marzo 2007, n. 8055).

6-1 rimanenti motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, per lo loro intima connessione, appaiono fondati nei termini che seguono.

Premesso che non può condividersi il rilievo secondo cui l’emissione del decreto di occupazione avrebbe comportato una scelta procedurale antitetica all’applicazione della L. n. 219 del 1981, con conseguente necessità di applicare, ai fini della durata dell’occupazione legittima, il termine di cinque anni ai sensi della L. n. 865 del 1971, deve osservarsi che il tema centrale, ben individuato dalla corte territoriale, è costituito dalla determinazione dell’efficacia del piano di zona.

Sotto questo profilo, tuttavia, va ricordato che, secondo un consolidato e costante orientamento di questa Corte, il termine indicato dalla legge (anni diciotto, per effetto delle proroghe intervenute al riguardo), deve intendersi come limite massimo, nel senso che la P.A. non può di certo superarlo, proprio in virtù di quelle esigenze salvaguardate dall’art. 42 Cost., richiamato nello stesso ricorso, tali da non consentire il proprietario rimanga indefinitamente esposto alla vicenda ablatoria.

Questa Corte deve, in proposito, richiamare e ribadire l’orientamento (Cass., n. 15379 e n. 4027 del 2009; Cass. n. 13493 del 2002; Cass. n. 3835 del 2001) secondo cui: 1) questa apposizione preventiva dei termini in questione è ravvisabile proprio nelle disposizioni legislative concernenti l’approvazione dei piani di zona, aventi efficacia di provvedimento dichiarativo della pubblica utilità ove il termine legale di validità del piano rappresenta nel contempo il termine ultimo entro il quale devono essere compiute le espropriazioni ed ultimati i lavori; le quali hanno sostituito alle indicazioni separate di ciascun termine richieste dall’art. 13, la prefissione di un termine unico, indicato dalla stessa legge e decorrente dalla data di approvazione del piano di zona, entro il quale ogni attività deve essere compiuta. La garanzia del diritto del proprietario viene tutelata comunque dalla limitazione temporale imposta ex lege, all’atto di programmazione urbanistica, cui necessariamente si commisura l’estensione temporale dell’efficacia della conseguente procedura ablatoria iniziata in concreto (normalmente) con il provvedimento di approvazione del progetto; 2) il piano per l’edilizia economica e popolare (PEEP) è valido, infatti, ai fini della espropriazione delle aree in esso comprese, per 18 anni a partire dalla data del decreto di approvazione: in quanto il termine originario di cui alla L. n. 167 del 1962, art. 9, era di 10 anni; è stato elevato a 15 dalla L. n. 274 del 1974, art. 1, ed ulteriormente prorogato di 3 anni dalla L. n. 865 del 1971, art. 51; esso ha valore di piano particolareggiato di esecuzione ai sensi della L. n. 1150 del 1942, e la sua approvazione equivale a dichiarazione di p.u. delle opere in esso previste; 3) siffatta disciplina non è neppure unica nel nostro i sistema, come dimostra la L. n. 641 del 1967, art. 14, che, con riguardo alla procedura espropriativa in attuazione di un programma di edilizia scolastica, stabilisce che la dichiarazione di pubblica utilità è implicita nel decreto di vincolo dell’area ritenuta idonea allo scopo, ed è efficace per la durata di due anni: perciò costituente il termine richiesto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13 per il compimento dei lavori e della procedura espropriativa. Ed è divenuta la regola nel nuovo T.U. per le espropriazioni di p.u. appr. con D.P.R. n. 327 del 2001, il cui art. 13 ha unificato i due termini finali fissandone la durata massima in 5 anni, prorogabili dall’autorità che l’ha dichiarata per un periodo non superiore ad altri due,ove ricorrano le condizioni stabilite nel quinto comma della norma.

Tanto premesso, deve rimarcarsi, come già sopra evidenziato, che le menzionate disposizioni sui piani di zona stabiliscono esclusivamente un termine massimo, sicchè “nulla preclude all’autorità che li ha emanati o a quelle incaricate della loro attuazione di indicare immediatamente ovvero nei successivi provvedimenti di localizzazione e di esecuzione delle singole opere termini meno ampi e più appropriati alle espropriazioni ed ai lavori da realizzare nel caso concreto; con la conseguenza che in tal caso l’amministrazione espropriante resta soggetta a tale più riduttiva predeterminazione e che alla loro scadenza più non le è consentito invocare il più elevato termine massimo indicato” (così, in motivazione, Cass., 26 marzo 2010, n. 7254).

6.1 – Non può omettersi, quindi, di considerare che, a fronte di un decreto di occupazione, emesso in data 25 ottobre 1986, con presa di possesso e redazione del verbale di consistenza nei giorni immediatamente successivi, decreto di occupazione che indicava in dieci anni la durata dell’occupazione e, quindi, il termine per il compimento dei lavori e dell’espropriazione, la sentenza impugnata, in violazione del principio, testè richiamato, della validità del vincolo derivante dalla indicazione di un termine inferiore rispetto a quello previsto dalla legge, ha fatto esclusivo riferimento alla durata, in generale, dell’efficacia dei piani di zona, senza tener conto di quella, inferiore, predeterminata dalla stessa amministrazione.

6.2 – Quanto alla questione relativa all’emissione del decreto di esproprio, che, secondo le deduzioni dei ricorrenti, il Comune avrebbe erroneamente fatto coincidere, nel proprio atto di appello, con il provvedimento di determinazione dell’indennità, e che non risulterebbe mai prodotto, va osservato che la corte di appello, con una statuizione che deve ritenersi ferma, in quanto non impugnata sotto il profilo revocatorio al riguardo esperibile, ha affermato:

“dalla c.t.u. e dalla documentazione in atti si rileva che il Comune di San Martino Sannita, in data 25 ottobre 1986, dispose l’occupazione di urgenza dei terreni in questione, per la durata di anni 10 dalla immissione in possesso 28/11/1986 – sulla base del piano di zona L. n. 219 del 1981, ex art. 28, adottato il 12/5/1984 ed esecutivo a seguito di approvazione regionale del 25/10/1985.

L’espropriazione definitiva delle aree avvenne con provvedimento sindacale prot. 52 in data 8/1/1998”.

6.2 – Va quindi cassata la sentenza impugnata nei limiti dianzi precisati, con rinvio alla stessa Corte di appello di Napoli, che in diversa composizione, si adeguerà ai principi avanti enunciati.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; Accoglie il principale nei sensi di cui in motivazione, dichiara inammissibile l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2011

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