Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22526 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. III, 10/09/2019, (ud. 10/05/2019, dep. 10/09/2019), n.22526

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23786-2017 proposto da:

P.B., P.M.L., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA TIBULLO 16, presso lo studio dell’avvocato MARIA LUISA

PASANISI, rappresentati e difesi dall’avvocato VITO DE VITO;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI UGENTO, in persona del Sindaco p.t., elettivamente

domiciliato in ROMA, PIAZZA SAN LORENZO IN LUCINA 26, presso lo

studio dell’avvocato DAMIANI STUDIO STICCHI, rappresentato e difeso

dall’avvocato SERGIO DE GIORGI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 823/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 30/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE IGNAZIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DE VITO VITO;

udito l’Avvocato DE GIORGI SERGIO.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che:

P.B. e P.M.L. convenivano in giudizio il comune di Ugento chiedendo che fosse condannato alla rimozione dei rifiuti abbandonati da ignoti in un terreno di loro proprietà, e al relativo ripristino dello stato dei luoghi, nonchè perchè rispondesse, in via risarcitoria, dei danni subiti dai deducenti a causa dell’ingiusto procedimento penale all’esito del quale erano stati assolti dall’accusa di non aver eseguito le due ordinanze sindacali con cui l’ente locale aveva ordinato agli stessi di rimuovere il suddetto materiale di risulta;

gli istanti esponevano che, in forza del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 14 temporalmente applicabile, l’obbligo di ripristino, in assenza dell’individuazione dei responsabili diretti e in mancanza di una corresponsabilità dei proprietari, incombeva sul comune;

il comune resisteva controdeducendo, in particolare, che la norma invocata era stata abrogata, e, comunque, che gli attori erano corresponsabili per non aver custodito e recintato la proprietà, mentre, per ciò che riguardava il processo penale, doveva ritenersi che l’esercizio dell’azione da parte del pubblico ministero avesse assorbito ogni profilo eziologico;

il tribunale accoglieva la domanda, con pronuncia riformata dalla corte di appello secondo cui per un verso la norma invocata era destinata a regolare l’eventuale responsabilità dominicale senza prevedere, in via residuale, un obbligo di fare a carico dell’amministrazione; per altro verso, nell’ipotesi, era anche evincibile una corresponsabilità dei proprietari, posto che, pur essendo a conoscenza dell’abbandono di rifiuti nel corso di plurimi anni, non avevano approntato alcun accorgimento non apponendo neppure cartelli di divieto di discarica, lasciando diversi ingressi accessibili a chiunque e omettendo di apporre recinzioni per cui sarebbe bastato depositare una denuncia d’inizio di attività;

il collegio di merito, infine, sottolineava che l’azione penale esercitata dall’ufficio della pubblica accusa aveva interrotto ogni nesso causale necessario all’ipotizzata responsabilità risarcitoria;

avverso questa decisione ricorrono per cassazione P.B. e P.M.L. articolando quattro motivi;

resiste con controricorso il comune di Ugento;

le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RILEVATO IN DIRITTO

Che:

con il primo motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso poichè la corte di appello avrebbe omesso di rispondere a una eccezione d’inammissibilità dell’appello formulata in memoria di replica, con cui si era allegato che difettava la Delib. di giunta comunale contenente, secondo lo statuto dell’ente locale, l’autorizzazione a stare in giudizio in seconde cure;

con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dei principi di diritto ambientale poichè la corte di appello avrebbe errato omettendo di rilevare che il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14 “ratione temporis” applicabile e da interpretare secondo i criteri desumibili dai trattati Europei e in specie dall’art. 174 dell’Atto unico Europeo del 1987, escludeva ogni imputazione e addebito per il proprietario incolpevole, fatta eccezione per il costo di ripristino nei limiti del valore dell’area compromessa, oggetto, in caso d’ignota responsabilità, di un obbligo di bonifica a carico dell’amministrazione, a tutela dell’interesse pubblico alla salubrità ambientale;

con il terzo motivo si prospetta la violazione dei principi in materia edilizia, in uno all’omesso esame di un fatto decisivo e discusso, poichè la corte di appello avrebbe errato omettendo di rilevare che il titolo abilitativo per la recinzione era stato richiesto nel 1989, quando era costituito dall’autorizzazione, e non era mai stato rilasciato, mentre il fatto che dal 1996 sarebbe stata sufficiente la d.i.a. non avrebbe potuto costituire ragione di addebito posta la legittima ignoranza del mutamento del regime normativo in questione;

con il quarto motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso poichè la corte di appello, nell’escludere la responsabilità risarcitoria del comune, avrebbe errato omettendo di esaminare e considerare che: l’autorizzazione alla recinzione non era mai stata concessa; i deducenti avevano richiesto più volte sin dal 1989, senza esito, all’amministrazione d’inibire le condotte illecite altrui, riferite anche all’Enel oltre che a terzi non identificati nè identificabili posto che i ricorrenti medesimi risiedevano a Roma; il comune non aveva mai avvisato gli esponenti della sopravvenuta sufficienza della d.i.a. e, nel 1999, senza dare seguito alle denunce e richieste pendenti, aveva emanato le ordinanze sindacali rimaste inottemperate, rendendone destinatari solo i proprietari del fondo e neppure l’Enel indicato come riconoscibile corresponsabile della compromissione indebita dei terreni;

Rilevato che:

il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato;

per un verso si tratterebbe, in tesi, di omessa pronuncia sull’eccezione, in senso lato, indicata come formulata, e non del dedotto omesso esame, il cui regime normativo fa diversamente riferimento a un fatto storico discusso in istruttoria;

per altro verso i ricorrenti indicano di aver proposto l’eccezione in una non meglio specificata memoria di replica, senza chiarire quindi se sia stato un atto meramente illustrativo facente parte della discussione scritta finale, ovvero di altro atto assertivo, con una violazione dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, che non permette di constatare se si tratti di questione nuova, e come tale in questa sede preclusa, essendo sotteso, al rilievo, possibile anche d’ufficio, un accertamento in fatto (la presenza o meno della Delib., in funzione della decisione sulla sussistenza di valida procura);

nel merito, infine, la questione sarebbe stata comunque infondata, poichè questa Corte ha chiarito che, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50, fonte primaria), competente a conferire al difensore del comune la procura alle liti è solo il sindaco, sicchè la Delib. della giunta comunale, quand’anche prevista dalla normativa secondaria rappresentata dallo statuto, resta un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., 23/03/2016, n. 5802, pag. 3, Cass., 21/06/2018, n. 16459, pagg. 4-5);

il secondo e terzo motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono in parte inammissibili, in parte infondati;

la corte territoriale ha utilizzato due “rationes decidendi”: secondo la prima, il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14 non prevede un obbligo di fare neppure residuale in capo all’amministrazione; la seconda è data dal rilievo di corresponsabilità dei proprietari sopra riassunto in parte narrativa;

la seconda ragione decisoria è autonoma ed è qui censurata negando la configurabilità della responsabilità dominicale;

la negazione in parola, come desumibile in specie dal terzo motivo, si fonda in particolare sul fatto che il comune non aveva rilasciato l’autorizzazione alla recinzione richiesta dalla precedente proprietà nel 1989 – e ciò sarebbe desumibile da affermazioni non riportate della sentenza di primo grado – e non aveva informato i richiedenti che nel 1996 il mutamento normativo, la cui mancata conoscenza non poteva imputarsi ai deducenti, aveva reso possibile procedere a recinzione mediante semplice d.i.a.;

la prospettazione non può essere condivisa;

la corte territoriale, con accertamento in fatto in questa sede non sindacabile (pag. 6 della sentenza impugnata), ha evidenziato che la proprietà aveva omesso ogni condotta idonea a impedire il protrarsi e reiterarsi delle condotte di abbandono dei rifiuti: mancanza di recinzioni e cartelli, perdurante presenza di ingressi accessibili a chiunque;

su tali basi ha concluso per la responsabilità dei proprietari concorrente, a titolo omissivo, con quella degli autori materiali dei fatti illeciti;

secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 25/02/2009, n. 4472, pag. 8, ripresa sia pure ad altri fini da Cass., 22/03/2011, n. 6525) sull’art. 14 menzionato, e successivamente abrogato dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 264 la norma prevede(va) specifici obblighi in capo al proprietario così come a qualunque soggetto si fosse trovato con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli – e per ciò stesso imporgli – di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata a evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente;

la suddetta nomofilachia ha sottolineato che il requisito della colpa postulato dalla norma va riferito all’omissione di tutti gli accorgimenti e le cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi;

in questa cornice è certamente corretta la sussunzione, effettuata dal collegio di merito, della condotta degli odierni ricorrenti come colposamente omissiva, non potendo bastare una richiesta di autorizzazione alla recinzione, neppure volturata al passaggio di proprietà, nè in alcun modo risultata coltivata per anni, e neppure fatta seguire, per altri anni ancora, dalla semplice denuncia di inizio di attività, la cui possibilità non può essere aggirata da una inescusabile ignoranza della semplice e univoca previsione legislativa, resa manifesta dalla persistente passività dei titolari del fondo;

il tutto tenendo conto che l’accertamento fattuale è stato esteso dalla corte territoriale alle altre attività di prevenzione e custodia ipotizzabili, tutte constate come omesse;

ne consegue che difetta lo stesso presupposto sotteso alle censure in scrutinio, ossia l’incolpevolezza dei proprietari del fondo, mentre non residua alcuna omissione dirimente di un fatto storico discusso, e invece solo un tentativo d’inammissibile rilettura istruttoria;

stante quanto sopra risulta irrilevante invocare, come fatto dai ricorrenti – in memoria, l’assenza di obblighi di bonifica per il proprietario non responsabile;

il quarto motivo, diretto a censurare l’esclusione della responsabilità risarcitoria dell’ente locale per il processo penale, è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1;

secondo il costante e dirimente orientamento di questa Corte, al di fuori delle diverse ipotesi di calunnia, la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio, anche in ipotesi di successiva assoluzione, non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., poichè l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale interrompe, assorbendolo, ogni ipotizzabile nesso causale tra quella iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato (cfr. da Cass., 25/05/2004, n. 10033, a Cass., 30/11/2018, n. 30988);

spese secondo soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali del controricorrente liquidate in Euro 5.000,00, oltre a Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15 per cento di spese forfettarie, oltre accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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