Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22519 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. III, 10/09/2019, (ud. 18/04/2019, dep. 10/09/2019), n.22519

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9900-2017 proposto da:

V.S., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati

VINCENZO TOSCANO, GIUSEPPE FIORELLA;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE PASCHI SIENA SPA in persona dell’Avv. C.L. nella

sua qualità di Responsabile del Servizio Assistenza Giudiziale,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 133, presso lo

studio dell’avvocato ALESSANDRO BERTI ARNOALDI VELI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIULIANO BERTI ARNOALDI VELI;

CA.EN., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. CARO 62,

presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato QUARTO MONTEBELLI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2323/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 20/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/04/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato VINCENZO TOSCANO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE FIORELLA;

udito l’Avvocato DAVIDE NEGRINI per delega;

udito l’Avvocato DAVIDE NEGRINI per delega orale per Ca. E..

Fatto

FATTI DI CAUSA

V.S., assumendosi vittima di una truffa, perpetrata da B.M., promotrice finanziaria, con il coinvolgimento di Ca.En., direttore della filiale di Rimini della Banca Monte dei Paschi di Siena, avviava un procedimento penale a loro carico per truffa aggravata ed appropriazione indebita. La Banca Monte dei Paschi S.P.A. veniva citata in giudizio quale responsabile civile.

V.S. asseriva che B.M., presentatasi con artifici e raggiri quale consulente finanziario della Banca Monte dei Paschi di Siena, l’aveva indotta a trasferire i rapporti bancari a lei intestati dalla Banca Credito Cooperativo di Valmarecchia alla Banca Monte dei Paschi, facendole sottoscrivere vari moduli in bianco che, anzichè essere utilizzati allo scopo dichiarato di trasferire tali rapporti, erano stati impiegati, a sua insaputa, per conferire a B.M. una delega ad operare sui suoi conti correnti, avvalendosi della quale la promotrice finanziaria aveva prelevato complessivamente Euro 193.200,00, sottraendoglieli. Ca.En., direttore della Filiale della Banca Monte dei Paschi, avrebbe operato in concorso con B.M., presentandogliela quale consulente finanziario e rappresentandole i vantaggi del trasferimento dei suoi rapporti bancari all’istituto di cui era direttore, con le aggravanti di avere commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera e di avere cagionato un danno di rilevante entità.

Contestualmente V.S. agiva civilmente nei confronti di B.M., Ca.En., P.S., c.m., Ba.Ro. e Bu.To. nonchè di Banca Monte dei Paschi di Siena al fine di ottenerne la condanna al risarcimento del danno patrimoniale subito.

Il Tribunale civile di Rimini, con sentenza n. 1142/2013, condannava in solido B.M., Ca.En. e la Banca Monte dei Paschi a pagare Euro 215.000,00 quale danno patrimoniale all’attuale ricorrente, al netto della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulla somma rivalutata dal 4/06/2004 al saldo.

In sede penale, il Tribunale di Rimini, con sentenza n. 2171/2010, assolveva Ca.Br. “per non aver commesso il fatto”, rigettava la domanda formulata contro l’istituto bancario, riconosceva B.M. responsabile dei reati che le erano stati contestati, condannandola a cinque anni di reclusione, al pagamento di Euro 3.000,00 di multa e al risarcimento del danno morale da liquidarsi in sede civile, con provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 20.000,00.

In sede di gravame, la Corte d’Appello penale di Bologna, con sentenza n. 1181/2013, dichiarava non doversi procedere nei confronti di B.M. per i reati per cui era stata condannata in primo grado per intervenuta prescrizione, dichiarava inammissibile l’appello proposto dalla parte civile nei confronti di Ca.En. e della Banca Monte dei Paschi in quanto rivolto unicamente ad ottenere l’affermazione della responsabilità penale degli imputati in assenza di alcun riferimento, neppure implicito, agli effetti di carattere civile che si intendevano conseguire.

La Corte di Cassazione in sede penale, con sentenza n. 38611/2014, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., in accoglimento delle richieste di V.S., rilevata la non necessità della formale enunciazione della finalizzazione dell’atto di gravame agli effetti civili, cassava parzialmente la sentenza della Corte territoriale, limitatamente alla declaratoria di inammissibilità dell’appello, e rinviava alla Corte d’Appello di Bologna, quale giudice competente per valore in grado d’appello, per la statuizione in ordine alle questioni civili.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 2323/2016, pubblicata il 20/12/2016 – respinta la richiesta di V.S. di far valere la pronuncia n. 1142/2013 del Tribunale civile di Rimini (quella che le aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale) con efficacia di giudicato, per mancata produzione dell’attestazione prevista dall’art. 124 disp. att. c.p.c., nonchè per la diversità di oggetto, trattandosi di una pronuncia avente ad oggetto esclusivamente il risarcimento del danno patrimoniale, respinta anche la richiesta di tenerne conto quale prova raccolta in un diverso processo, soprattutto in ragione del ritenuto obbligo di fondare il proprio giudizio sui documenti e sulle deposizioni testimoniali assunte in sede penale, data la natura di giudizio ad istruzione chiusa del giudizio di rinvio – non accoglieva la domanda di V.S. di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti di Ca.En., con la seguente motivazione: “l’affermazione della responsabilità dell’imputato ai sensi dell’art. 538, comma 3, va condotta con le regole proprie del giudizio penale (e non civile), la sussistenza del profitto e dell’elemento psicologico (dolo) del reato attribuito al Ca. è rimasta non totalmente dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbiò (art. 533 c.p.p.)”.

V.S. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 2323/2016 della Corte d’Appello di Bologna, basato su cinque motivi, corredato di memoria.

Resistono con autonomo controricorso Banca Monte dei Paschi di Siena ed Ca.En..

Con ordinanza interlocutoria n. 3097/17 del 29/11/2018 la trattazione della causa, già assegnata alla Terza Sezione civile di questa Corte, veniva rinviata alla pubblica udienza, stante l’esigenza di trattare, in particolare le questioni relative all’accertamento della responsabilità, secondo i parametri del diritto penale, con esclusione delle regole proprie del diritto civile, in contraddittorio con le parti ed alla presenza del Pubblico Ministero.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 113,115 e 116 c.p.c. e dell’art. 640 c.p. nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

L’errore della Corte d’Appello sarebbe quello di non aver tenuto conto che è punibile per il reato di truffa anche chi procuri ad altri un ingiusto profitto. E, nel caso di specie, non avere considerato che V.S. e la madre avevano trascurato di verificare compiutamente l’andamento dei propri investimenti in ragione dell’affidamento in loro ingenerato dal rapporto personale intercorrente tra il Direttore di Banca e B.M. – provato dal fatto che Ca.En. aveva ammesso di conoscere B.M. sin dai tempi della scuola e di averla raccomandata alla Banca di Credito Cooperativo di Valmarecchia, in quanto persona valida nell’ambiente assicurativo finanziario, nonchè dal fatto che B.M. aveva presentato Ca.En. all’odierna ricorrente come suo ex fidanzato – integrerebbe gli estremi del vizio di violazione delle norme indicate nell’epigrafe del mezzo impugnatorio per non avere accertato gli elementi di fatto alla base della loro corretta applicazione.

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 42,43 e 640c.p., degli artt. 192 e 546c.p.p. nonchè dell’art. 111 Cost.; denuncia la nullità della sentenza e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5).

Essendo sufficiente per integrare gli estremi del reato di truffa il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di indurre con artifici e raggiri taluno in errore e di determinarlo a porre in essere un atto dispositivo patrimoniale con altrui danno ed ingiusto profitto per sè o per altri, e potendo assumere rilevanza penale anche il comportamento omissivo, la Corte d’Appello, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto tener conto che Ca.En., almeno nelle due occasioni in cui ricevette personalmente V.S. per ottenerne cospicui versamenti di denaro e per suggerirle di investire in obbligazioni della Banca Monte dei Paschi di Siena, avrebbe dovuto effettuare in tempo reale una verifica sull’andamento del conto corrente in essere presso l’istituto di credito di cui era Direttore; tale verifica gli avrebbe consentito di avvedersi di tutte le operazioni distrattive che B.M. aveva posto in essere fino a quel momento; non solo: dal comportamento omissivo di Ca.En., il giudice del rinvio avrebbe dovuto dedurre che egli intendeva celare le operazioni effettuate da B.M..

Nè la Corte d’Appello avrebbe preso in esame altri significativi comportamenti omissivi: in particolare, il fatto di non aver comunicato ad una delle più importanti clienti della sua banca che la Consob, il 17/12/2003, aveva sospeso in via cautelare B.M. dall’attività di promotore finanziario per gravi illeciti a danno dei clienti della Banca di Credito Cooperativo di Valmarecchia.

3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 42,43 e 640c.p., degli artt. 192 e 546c.p.p. nonchè dell’art. 111 Cost.; la nullità della sentenza; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5).

Ad Ca.En., al fine di dimostrare la ricorrenza sia dell’elemento materiale sia di quello soggettivo del reato di truffa, V.S. attribuisce la responsabilità di non averla edotta che B.M. era stata licenziata dalla Banca di Credito Cooperativo di Valmarecchia. Che egli fosse a conoscenza di tale licenziamento sarebbe emerso non solo dall’interrogatorio reso da B.M. alla Polizia Giudiziaria, ma anche dal giudizio civile risarcitorio, posto che di tale circostanza si faceva menzione nella comparsa di costituzione e risposta.

La sentenza gravata avrebbe svalutato la rilevanza di tali dichiarazioni, ad avviso della ricorrente, senza motivazione; avrebbe dovuto invece accertare la credibilità soggettiva e la credibilità oggettiva di B.M., alla luce dei riscontri oggettivi di quanto riferito: il licenziamento, il provvedimento cautelare emesso a carico della promotrice finanziaria dalla Consob, le operazioni distrattive, gli accertamenti eseguiti dal Tribunale civile di Rimini, valutati secondo il suo prudente apprezzamento.

E non avrebbe dovuto svalutare le sue dichiarazioni, solo perchè parte civile, atteso che la giurisprudenza di legittimità penale riconosce che le dichiarazioni della persona offesa possano essere assunte da sole come fonte di prova, ove sottoposte ad un vaglio positivo di credibilità oggettiva e soggettiva, tenendo conto di tutti gli elementi eventualmente emergenti dagli atti.

Per tali ragioni ad avviso della ricorrente il giudice a quo sarebbe incorso nel vizio di travisamento della prova; egli aveva emesso una statuizione che, per causa dell’omessa pronuncia su fatti e circostanze decisivi a seguito di specifica censura o indicazione di parte, si profilava irrimediabilmente incompleta.

4.Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 1710, 1711 e 2049 c.c., dell’art. 40c.p., comma 2, artt. 42 e 43 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11, artt. 81 cpv., 110, 185 e 640 c.p., degli artt. 192,538 e 546 c.p.p., del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 nonchè dell’art. 111 Cost.; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

La Corte d’Appello avrebbe erroneamente escluso la ricorrenza di una condotta agevolativa da parte di Ca.En., perchè basata su una prova inattendibile, la sua deposizione resa in quanto persona offesa, e per il contenuto del contratto quadro del 13/10/2003 per la gestione individuale di valori mobiliari firmato da B.M., in virtù della delega ricevuta da V.S., e controfirmato dal direttore Ca..

Secondo la ricorrente, la delega autorizzava B.M. ad effettuare operazioni in titoli, ma non a firmare il contratto quadro ed inoltre le operazioni in titoli sarebbero state effettuate nei mesi di agosto e di settembre 2003, quindi, prima della firma del contratto quadro; perciò il fatto che Ca.En. lo avesse controfirmato lo rendeva responsabile della violazione degli artt. 1710 e 1711 c.c. nonchè del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 e del Reg. Consob n. 16190/2007, per non aver preteso che il contratto fosse firmato dalla mandante anzichè dalla mandataria e per aver consentito alla delegata di compiere operazioni sui titoli prima della sottoscrizione, sia pure illegittima, del contratto quadro.

In sintesi, l’omessa adozione della condotta doverosa (controlli sull’operato di B.M.) e l’omessa rappresentazione alle sue clienti del licenziamento di B.M. avrebbero dovuto indurre la Corte d’Appello a ravvisare persino l’elemento del dolo nel comportamento omissivo di Ca.En. per non aver impedito l’evento avverso o almeno il dolo eventuale, per avere accettato il rischio, conoscendo i precedenti di B.M., che potesse porre in essere gravi malversazioni a carico di una importante cliente dell’istituto di credito all’epoca dei fatti da lui diretto.

La Corte d’Appello avrebbe dovuto altresì tener conto che il Tribunale civile di Rimini aveva ritenuto Ca.En. e la Banca Monte dei Paschi di Siena responsabili del danno patrimoniale cagionato dall’imputata, al fine di desumerne elementi atti a ravvisare l’adozione da parte di Ca.En. di un comportamento almeno facilitativo nei confronti di B.M., avendole consentito di utilizzare un ufficio all’interno della filiale da lui diretta, avendole permesso di impiegare nei rapporti con i clienti la modulistica dell’istituto di credito, avendo omesso di rendere note le vicende pregiudizievoli che l’avevano riguardata.

5. Con il quinto ed ultimo motivo V.S. deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 61,112,113,115,116 e 191 c.p.c., dell’art. 220c.p.p. nonchè dell’art. 111 Cost.; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

La ricorrente lamenta che, pur avendo chiesto nel giudizio di rinvio, la rinnovazione della perizia grafologica della sigla apposta sul modulo recante il falso riepilogo delle operazioni effettuate per suo conto da B.M., la Corte d’Appello si sia limitata a ritenere che la sigla non provenisse da Ca.En., basando tale conclusione solo su quanto affermato dal perito nominato in dibattimento penale dal Tribunale e dal CTU della Pubblica accusa, omettendo tanto di respingere le critiche circostanziate e specifiche mosse alla perizia grafologica quanto di giustificare la sua mancata rinnovazione.

6. Per ragioni di ordine logico conviene partire dallo scrutinio del terzo motivo, il quale è da reputarsi fondato.

Va ribadito che spetta al giudice l’esame dei documenti e delle prove testimoniali nonchè la loro valutazione e che il giudizio sull’attendibilità dei testi involge un apprezzamento di fatto sottratto allo scrutinio di legittimità ove sorretto da congrua motivazione.

Nel caso di specie, le ragioni addotte a giustificazione della svalutazione delle risultanze emergenti dalla testimonianza della madre dell’attuale ricorrente e dalle dichiarazioni di B.M. non sono idonee, a giudizio di questa Corte, a rendere percepibile l’iter logico seguito per assumere tale decisione: il giudice del rinvio si è limitato a dichiarare che la madre dell’attuale ricorrente aveva fornito una rappresentazione dei fatti imprecisa e non del tutto coerente, riferendo di un analogo giudizio espresso dal giudice penale, senza considerare che invece il Tribunale civile di Rimini con la sentenza n. 1142/2013, che aveva accertato la responsabilità anche di Ca.En. per il danno patrimoniale cagionato all’attuale ricorrente, aveva non solo ritenuto attendibile, ma addirittura aveva giudicato decisiva la sua testimonianza. Tale ultima circostanza è riferita dal giudice del rinvio in questi termini “non è dato comprendere perchè il predetto tribunale abbia ritenuto “decisiva” a carico del Ca. la circostanza “sempre riferita dalla M.” (…)”.

La deposizione di V.S. è stata svalutata quanto a rilievo per il suo ruolo di parte civile nel processo penale e la versione dei fatti resa da B.M. ha subito la stessa sorte senza alcuna motivazione (n. 5, p. 9 della sentenza impugnata).

Vi è in aggiunta un’altra, invero, pregnante ragione collocata a monte dell’iter logico argomentativo del giudice del rinvio che, ad avviso di questa Corte, rende non corretta la statuizione, quella secondo cui la responsabilità penale di Ca.En. avrebbe potuto essere affermata solo basandosi sulle prove documentali e testimoniali assunte in sede penale, poichè, essendo il giudizio di rinvio ad istruzione chiusa, non solo non’ potevano essere acquisite nuove prove, ma la responsabilità dell’imputato doveva essere valutata secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione delle regole proprie del diritto civile che evocano ipotesi di inversioni dell’onere della prova o, peggio ancora, di responsabilità oggettiva.

7. Tale profilo, che riguarda i rapporti del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p. rispetto al giudizio penale conclusosi con la sentenza di annullamento con rinvio emessa dalla Corte di Cassazione penale, merita un approfondimento, considerando che l’art. 622 c.p.p. si limita a disporre, con un meccanismo inverso rispetto a quello di cui all’art. 75 c.p.p., relativo alla trasmigrazione dell’azione civile già esercitata nel processo civile innanzi al giudice penale, che la Corte di Cassazione, qualora annulli la sentenza impugnata, debba, ai soli effetti civili e quando occorre, rinviare la causa al giudice civile competente per valore in grado di appello, senza null’altro disciplinare quanto alle norme processuali destinate a regolare la prosecuzione del giudizio innanzi al giudice civile, le quali devono essere ricavate in via interpretativa; soprattutto, per quanto qui interessa, circa l’utilizzabilità delle prove raccolte nello processo penale, secondo regole processuali differenti (il problema è rappresentato dal dubbio circa se si possa prescindere dai limiti di ammissibilità che ne dovrebbero regolare la sorte nel giudizio civile, ritenendo così utilizzabile anche la testimonianza della parte civile – Cass. pen, S.U., 29 settembre 2016, n. 46688 – e circa gli accertamenti da compiersi da parte del giudice d’Appello in sede di rinvio).

8. Il problema che sta a monte è che mentre la tutela giurisdizionale civile garantisce una reazione alla violazione dei diritti e tutta l’attività svolta nel processo civile costituisce lo strumento per l’attuazione dei diritti, il processo penale non solo persegue l’obiettivo di applicare la legge penale alla fattispecie concreta, ma “riveste una ben più ampia funzione politico-assiologica di tutela di tutti i valori e gli interessi in gioco, a partire dai diritti fondamentali dell’imputato”. Ed il favor rei qui esplica i suoi effetti tanto sul piano sostanziale – ove viene indicato quale ratio di alcuni istituti che escludono addirittura l’esistenza dell’illecito penale o, più semplicemente, ricollegano alla violazione della legge penale effetti meno gravi di quelli che altrimenti si verificherebbero – quanto su quello processuale, ove assurge a principio generale dell’intera regolamentazione del processo penale, affermandosi che, nel contrasto di posizioni che caratterizza l’attenuazione della potestà punitiva, il nostro legislatore verrebbe a dare una prevalente considerazione all’interesse dell’imputato.

9. Tra l’incudine del favor separationis e il martello del favor rei si collocano le strategie di azione di azione e di difesa assumibili dal soggetto danneggiato; tra tali strategie rientra la decisione di costituirsi parte civile nel processo penale. Tale opzione che, pur continua ad essere giustificata (oggi come ieri) da fini di economia e di prevenzione dei giudicati contrastanti, in funzione della ontologica “unicità del fatto storico” fatto oggetto di accertamento nelle due sedi giudiziarie, consolida in modo definitivo la concezione della parte civile quale parte puramente eventuale del processo penale.

10. Il soggetto danneggiato, che liberamente opti per la costituzione di parte civile nel processo penale, al fine di trarre il massimo vantaggio possibile dal sistema probatorio tipico del processo penale, altrettanto liberamente e consapevolmente sceglie di soggiacere alle condizioni ed ai limiti che, in funzione di una tutela necessariamente differenziata, le peculiarità strutturali del processo penale “razionalmente” impongono all’esercizio dell’azione civile in tale sede.

11. Le divergenze e le differenziazioni del rito, a seconda della sede giudiziaria prescelta, sono considerate costituzionalmente legittime, se ed in quanto non comprimano in misura irragionevole oppure non producano addirittura una vanificazione dell’esercizio dei diritti processuali del soggetto danneggiato.

12. Da un lato, la costituzione di parte civile nel processo penale si prospetta, come lo strumento tendenzialmente preferibile di tutela del diritto alle restituzioni ed al risarcimento del danno per determinate categorie di reati. Dall’altro, la scelta concreta fra il cumulo o la separazione delle azioni – che il soggetto danneggiato ha l’onere di compiere, tenendo comparativamente conto dei vantaggi e degli svantaggi ottenibili, sul piano processuale, da ciascuna delle opzioni possibili – deve misurarsi con il fatto che la fattispecie genetica del diritto al risarcimento è, in base alla legge civile, più ampia ed articolata di quella configurabile in forza della norma incriminatrice penale; essa, dunque, non è a quest’ultima esattamente sovrapponibile, ma configura e schiude un ambito di cognizione giudiziale ben più esteso, sì da preconizzare una ventaglio più ampio di forme di tutela reintegrativa che possono essere ottenute solo tramite una pronuncia del giudice civile e all’occorrenza di presupposti differenti.

13. A valle della scelta di costituirsi parte civile nel processo penale, si colloca l’eventualità del giudizio di rinvio dinanzi al giudice civile a seguito della sentenza di legittimità che annulli la sentenza penale.

14. Come si collochi questo giudizio rispetto al processo già celebrato e conclusosi con la sentenza della Corte di Cassazione, quali effetti vi esplichi la sentenza di annullamento e, dal punto di vista processuale, a quali regole debba soggiacere sono questioni assai controverse ed aperte in dottrina ed in giurisprudenza.

14.1. Più in particolare, gli interrogativi che attendono una risposta chiarificatrice involgono:

– l’oggetto del processo, essendo il diritto risarcitorio uno di quelli eterodeterminati, con la conseguenza che la sua identificazione avviene sulla scorta del petitum e della causa petendi;

– il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno, posto che l’azione civile esercitata nel processo penale risultava legata al reato oggetto di accertamento penale;

– la sorte dell’attività difensiva svolta dalle parti nel processo penale; essendo incentrata sulla responsabilità dell’imputato è legittimo chiedersi, se meno l’esigenza di accertare il fatto reato, sia spendibile per la prospettazione dell’illecito civile;

– i reati a condotta vincolata; l’interrogativo è, se dovendo presentare le specifiche modalità previste dalla norma penale, possano rilevare anche se realizzati con modalità diverse da quelle tipizzate dalla norma penale;

– la rilevanza da riconoscersi all’elemento soggettivo, sia nell’ipotesi in cui il reato da accertare in sede penale fosse solo perseguibile a titolo di dolo – il dubbio è se a fini risarcitori possa rilevare anche la colpa – sia quando il reato accertato fosse colposo: il dubbio in tal caso è se la colpa penale coincida con la colpa in sede civile;

– il titolo della responsabilità civile; il dubbio è se in sede risarcitoria sia possibile far valere una responsabilità oggettiva anche quando, in sede penale, l’azione civile era stata esercitata per un reato colposo;

– l’effetto preclusivo di una causa di punibilità in sede penale sulla domanda risarcitoria trasmigrata in sede civile;

– lo svolgimento di attività assertiva nel giudizio civile.

15. Nevralgico e preliminare risulta determinare quale sia la configurazione strutturale e funzionale del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p..

15.1. Prima di saggiare le tesi che si contendono il campo, occorre tener conto che il legislatore processuale, pur avendo di fronte a sè un’altra opzione, ha scelto di affidare il giudizio di rinvio di cui all’art. 622 c.p.c. al giudice civile. In astratto, infatti, non gli era precluso disporre un ritorno della causa al giudice penale d’appello, soddisfacendo la circostanza costituita dal trattarsi di una decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale, sia pure arricchito dall’originaria, strutturale connessione delle due azioni (come, peraltro, previsto dal codice di procedura penale nelle altre ipotesi in cui il giudizio permane in sede penale, sebbene coinvolga questioni relative alla sola azione civile esercitata nel processo penale, nelle quali è del tutto pacifico che il giudice applichi alla azione civile le regole penali, come nel caso di appello proposto dalla sola parte civile avverso la sentenza di primo grado proscioglimento, ove la Corte di merito decide l’impugnazione previo accertamento incidentale della sussistenza o meno della responsabilità penale applicando le regole penali, come previsto dall’art. 573 c.p.p.).

15.2. L’essersi orientato in tutt’altra direzione non è privo di rilievo, risponde evidentemente ad una precisa ratio e proprio tale ratio merita di essere analizzata, anche andando oltre il linguaggio normativo che certamente non può definirsi appagante, perchè l’uso dell’espressione “rinvio”. (cfr. infra) in luogo di quella più consona o almeno fonte di minori equivoci di “rimessione”, è alla base di talune soluzioni che, ad un’analisi attenta, risultano irrispettose della scelta normativa.

16. Le tesi in campo sono tre.

16.1. La più diffusa, fatta propria anche dalla Corte di Cassazione penale (da ultimo Cass. 04/02/2016, n. 27045; Cass. 10/02/2015, n. 1193) muove dalla considerazione del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.c. quale fase rescissoria dell’impugnazione, la cui fase rescindente è stata definita con la sentenza di annullamento con rinvio emessa dalla Corte di Cassazione, in quanto l’azione civile esercitata nel processo penale non sarebbe che “quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.c., e ne trae principalmente le seguenti implicazioni:

a) nel giudizio civile devono utilizzarsi le stesse regole applicate nel processo penale, con il conseguente accoglimento della domanda risarcitoria o restitutoria solo ove sussistano i presupposti per il riconoscimento, sia pure incidentale, della responsabilità penale dell’imputato, secondo i canoni propri del processo penale;

b) il principio di diritto enunciato dalla sentenza penale di annullamento è vincolante per il giudice del rinvio.

16.2. La seconda tesi ricostruisce il giudizio di rinvio ex art. 622 in termini di procedimento autonomo su di un piano tanto morfologico quanto funzionale, atteso che, a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili, si realizzerebbe una scissione strutturale tra giudizi e una divaricazione funzionale tra materie a seguito della “restituzione” dell’azione civile così ripristinata all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente. Soltanto formalmente sarebbe lecito discorrere, pertanto, di una “prosecuzione” del giudizio, mentre neanche su di un piano formale risulterebbe legittimo qualificarla come continuazione del giudizio penale, giacchè il giudizio di rinvio si svolge solo tecnicamente secondo la disciplina dettata dagli artt. 392-394 c.p.c..

16.3. Si è delineata in dottrina una terza tesi, di carattere intermedio e compromissorio, secondo la quale il giudizio di rinvio sarebbe “vicenda autonoma rispetto al processo penale, non rappresentandone – sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili – la prosecuzione avanti alla giurisdizione ordinaria civile, successivamente alla intervenuta fase di cassazione in sede penale” e pertanto “dotata di autonomia strutturale e funzionale essendosi verificata una scissione tra le materie sottoposte a giudizio mediante il ritorno dell’azione civile alla cognizione del suo giudice naturale”; tale autonomia non sarebbe piena nè effettiva, però, perchè vi si sostiene che “il giudice civile dovrebbe uniformarsi al principio di diritto contenuto nella pronuncia penale di legittimità, e ciò perchè egli è investito della controversia esclusivamente entro i limiti segnati dalla sentenza di cassazione e dalle questioni da essa decise, secondo il combinato disposto dell’art. 384 disp. att. c.p.c., comma 2 e art. 143 disp. att. c.p.c.)”. La sentenza della Cassazione penale “vincolerebbe, pertanto, il giudice di rinvio non solo in ordine al principio di diritto affermato, ma anche quanto alle questioni di fatto costituenti il presupposto necessario ed inderogabile della pronuncia”.

17. Mentre l’adozione della prima tesi e, in parte, della terza escluderebbe la rilevanza delle questioni sollevate sub p. 20 e p. 20.1; la seconda è, al contrario, proprio quella da cui dette questioni traggono origine, imponendone l’esame.

18. La Terza Sezione civile di questa Corte, con la pronuncia n. 9358 del 12/04/2017, a mente della quale “E’ vero che, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., ma è altrettanto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, da parte di questa Corte” – seguita dall’ordinanza 09/04/2019, n. 9799, secondo cui “nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti, il giudice civile valuta liberamente le prove raccolte in sede penale, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale, l’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese da una coimputata ai sensi dell’art. 192 c.p.p. è questione che riguarda esclusivamente le regole che presiedono alla formazione della prova nell’ambito del processo penale, non assumendo alcun rilievo nel giudizio civile, teso a verificare la fondatezza degli addebiti mossi ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento civile – ha gettato le basi per la formulazione della seconda tesi: tesi alla quale questa Corte intende dar seguito, offrendo (si vedano già in tal senso Cass. 13/06/2019, n. 15829 e Cass. 23/06/2019, n. 16916) un ulteriore contributo nell’analisi di tutte le implicazioni derivanti dalla natura evidentemente non meramente prosecutoria del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.c., da essa sottesa, in ordine alla sottrazione ai canoni del processo penale e alla non vincolatività del principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente.

19. La conclusione di questo Collegio è, dunque, che il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza penale sia autonomo sostanzialmente e funzionalmente da quello penale e legato ad esso solo dal punto di vista formale, rappresentando il giudizio di rinvio, ex art. 622 c.p.p., la via fisiologica per transitare dal processo penale a quello civile quando parte impugnante sia la parte civile: non essendo più in discussione i temi centrali del giudizio penale, quali la sussistenza del fatto, la sua illiceità e l’attribuibilità all’imputato, l’ulteriore svolgimento del giudizio davanti al giudice civile si configura come prosecuzione solo formale del processo penale, giacchè presenta quell’autonomia strutturale e funzionale che concretizza la scissione tra le materie oggetto del giudizio, con la restituzione dell’azione civile alla giurisdizione cui essa naturalmente compete.

20. Nella sostanza, nel giudizio di rinvio non vi è più spazio per ulteriori interventi del giudice penale, essendo venuta meno l’esigenza di qualunque accertamento agli effetti penali; il processo sul versante penalistico risulta del tutto esaurito ed il seguito appartiene al giudice civile, alla sua competenza ed alle regole proprie del processo civile. Una volta venuto meno lo spazio per ulteriori pronunce del giudice penale, mancherebbe la “ragion d’essere della speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile” (Cass. pen., 27/04/2010, n. 32577; Cass. pen. 17/04/2013, n. 23944), facendo difetto quell’interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere della questione in sede penale: in virtù del principio di economia processuale, la decisione sugli aspetti civili viene rimessa al giudice civile, competente a pronunciarsi sia sull’an che sul quantum, avendo il giudizio di rinvio, disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.c., ad oggetto “un tema ed una situazione giuridica soggettiva autonomi rispetto a quelli concernenti il dovere di punire, pur avendo in comune il fatto, quale presupposto del diritto al risarcimento”.

21. La giustificazione di tale approdo esige che si chiariscano sia pure sinteticamente i caratteri dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale nonchè i rapporti tra il giudizio civile e quello penale ed i loro caratteri irrinunciabili, perchè dettati dalla diversa finalità; il tutto nel sistema “nuovo” ispirato alla separazione della giurisdizione civile da quella penale.

22. Il codice del 1988 ha operato una scelta di compromesso, animata da due principi in evidenza non convergenti: il rafforzamento dei diritti della parte civile e l’accentuata tendenza a far rifluire la pretesa risarcitoria fuori dal processo penale, ma non si è espressamente fatto carico delle conseguenze.

23. Il punto di origine del ragionamento è, dunque, il venir meno del principio dell’unità della giurisdizione, fondato su una concezione del processo di matrice punitiva e su un sistema processuale inquisitorio, il quale, disponendo delle tecniche adeguate per ricercare la verità, era ineludibilmente individuabile quale sede elettiva ed esclusiva per l’accertamento dei fatti storici posti alla base del reato, anche quando gli stessi fatti avessero avuto rilievo extrapenale.

24. Anche il superamento dell’avversione per la duplicazione dell’attività giurisdizionale e della superiore esigenza di giustizia, inerente alla certezza e alla stabilità delle situazioni e dei rapporti giuridici, da cui derivava la necessità di evitare contrasti tra giudicati di diverse giurisdizioni, ha avuto il suo peso; soprattutto, però, è risultato determinante lo svuotamento della supremazia della giustizia penale nei rapporti tra processo penale e processo civile, realizzata, dal punto di vista definito statico, con il congegno dell’efficacia vincolante dell’accertamento penale anche nel giudizio civile (prevalenza), e, dal punto di vista dinamico, sottraendo al giudice civile la cognizione preventiva di fatti potenzialmente accertabili dal giudice penale con l’imposizione della sospensione del processo civile, in caso di pendenza dell’azione civile e di quella penale, in attesa delle statuizioni del giudice penale (precedenza).

24.1. Si è così aperta la strada all’opposto principio del favor separationis e ad un nuovo modo di intendere i rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, le cui implicazioni devono essere individuate volta per volta, anche allo scopo di evitare scelte irrazionali; scelte che si potrebbe pensare di giustificare con il fatto indiscutibile che i capisaldi concettuali alla base del sistema processuale voluto dal legislatore del 1988 non sempre si stagliano nitidamente a livello di enunciazione positiva, visto che alcune fattispecie che prescrivono l’efficacia estensiva del giudicato penale anche in sede extrapenale non sono state totalmente espunte dal sistema (artt. 651-654 c.p.p.).

25. Uno dei primi corollari travolti dal principio di separazione è il convincimento che l’art. 24 Cost., insieme con la garanzia costituzionale di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, anche scegliendo di costituirsi parte civile nel processo penale, implichi anche copertura costituzionale del simultaneus processus (Corte Cost. 25/03/1996, n. 98). Pur non potendosi trascurare che, anche in ragione del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 CEDU e art. 111 Cost., comma 2, la proposizione dell’azione civile all’interno del processo penale aggravi l’attività processuale di accertamento del reato a scapito dell’obiettivo di semplificazione e di economia del processo penale e rischi di trasformare il processo accusatorio in un ibrido, in ultima analisi è innegabile che la concentrazione in una sola sede dell’esame dei profili penalistici e civilistici del medesimo fatto costituisca un fattore di snellimento dei processi e serva ad evitare il rischio di decisioni contrastanti da parte di organi giurisdizionali diversi.

26. A seguire va preso in considerazione l’art. 75 c.p.c., comma 2, che, confermando l’autonomia dell’azione civile rispetto al parallelo processo penale, costituisce un indice sintomatico della volontà del codice del 1988 di incentivare l’esercizio dell’azione civile nella sede sua propria; almeno ove il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, prevedendo che essa, nei confronti del danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile e non abbia esercitato l’azione civile in sede propria ai sensi dell’art. 75 c.p.p., comma 2, abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile quanto all’accertamento della sussistenza del fatto o circa il fatto che l’imputato non lo abbia commesso o che il fatto sia stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima (art. 651 c.p.p.). Diversamente avviene per la sentenza irrevocabile di assoluzione, la quale – per effetto della “clausola di salvaguardia” contenuta nella parte finale dell’art. 652 c.p.p., comma 1, – non produce effetti nel giudizio civile ove l’azione civile sia stata proposta davanti al giudice civile prima della sentenza penale di primo grado e non sia stata trasferita nel processo penale.

27. E’ pur vero che al di fuori della disciplina di cui all’art. 75 c.p.p. si registrano ancora ipotesi di sospensione per pregiudizialità penale – in base al combinato disposto dell’art. 295 c.p.c., art. 654 c.p.p. e art. 211 disp. att. c.p.p. – ma esse devono considerarsi eccezionali. Difatti, secondo giurisprudenza costante, perchè possa essere sospeso un giudizio extrapenale è necessario, da un lato, che una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto diretto sul diritto oggetto del giudizio e, da un altro lato, che la sentenza penale possa effettivamente assumere nella diversa sede efficacia di giudicato. Parimenti, in alcuni settori professionali resistono disposizioni che prevedono la sospensione del procedimento disciplinare per fatti che assumono doppia valenza illecita. Tuttavia, in continuità con la regola del favor separationis, si osserva un tendenziale impulso, ispirato al principio generale dell’ordinamento della parità e della originarietà dei diversi ordini giurisdizionali, al contenimento delle ipotesi di interferenza tra i diversi procedimenti, cui fa da pendant la tendenza a considerare di stretta interpretazione ogni disposizione che si ponga come derogatoria rispetto al favor separationis.

28. In particolare, ciò che rileva è che l’efficacia di giudicato della sentenza irrevocabile di assoluzione nel giudizio civile di danno si esplichi nel solo caso di giudizio autonomamente instaurato innanzi al giudice civile sin dal primo grado, e non anche nel caso di annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello ai sensi dell’art. 622 c.p.p.: in quest’ultima evenienza, infatti, la sentenza di assoluzione dell’imputato, annullata su ricorso della parte civile, pur restando ferma quanto agli effetti penali, non produce effetti extrape-nali (Cass. 24/11/1998, n. 11897), se non quando il giudicato penale si formi in tempo utile per essere fatto valere in sede civile; se ciò non avviene significa, per contro, che potrà utilizzarsi, ove ve ne siano i presupposti, il rimedio di cui all’art. 395 c.p.c..

29. Dall’art. 538 c.p.c., comma 1, (“… quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt. 74 e ss.”) si trae ulteriore riprova che la decisione sulla domanda della parte civile è collegata alla condanna dell’imputato: il che rende sempre più chiaro che l’azione civile promossa nel processo penale ha carattere accessorio e subordinato rispetto agli scopi propri dell’azione penale di accertamento della responsabilità penale dell’imputato.

29.1. E che tali caratteri non risultino in contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Cost. è già stato acclarato dalla Consulta con la sentenza n. 12 del 29/01/2016, per la quale è vero che il danneggiato, ove l’imputato sia stato prosciolto, vede allontanarsi nel tempo l’ottenimento di una pronuncia sulla sua richiesta risarcitoria – perchè è obbligato ad attendere l’esito di un autonomo giudizio civile – ma ciò si giustifica in ragione del carattere recessivo dell’interesse del danneggiato al risarcimento rispetto al superiore interesse all’accertamento della responsabilità dell’imputato cui è votato il processo penale.

29.2. Nè tale indirizzo del sistema risulta incompatibile con l’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio che, istituendo norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, obbliga sì gli Stati membri a garantire alla vittima “il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo”, ma statuisce altresì che tale obbligo è “espressamente subordinato alla condizione che “il diritto nazionale (non) preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario”.

30. Coerente con tale sistema è anche l’eventualità che il giudice penale accerti la responsabilità penale dell’imputato, ma rigetti la domanda restitutoria o risarcitoria della parte civile, precludendo a quest’ultima l’instaurazione di un nuovo giudizio che non sia giustificata da diverse e distinte ragioni di danno, ovvero dalla diversità di petitum rispetto a quello originariamente fatto valere.

31. La sentenza penale di assoluzione non è, invece, dotata di effetti preclusivi sulla domanda della parte civile; l’art. 652 c.p.p., innovando rispetto al codice previgente, si limita ad attribuire efficacia di giudicato, nel giudizio civile di danno, a taluni accertamenti contenuti nella sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti di chi si sia costituito o sia stato posto in grado di costituirsi parte civile e non abbia esercitato l’azione civile ai sensi dell’art. 75 c.p.p., comma 2.

32. Esigenze di economia processuale ispirano la disposizione, ritenuta, non a caso, eccezionale – Cass., Sez. Un., 29/09/2016, n. 46688 – contenuta nell’art. 578 c.p.p., secondo cui se è stata pronunciata condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni a favore della parte civile, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decidono comunque sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

32. Un altro tassello del sistema è costituito dal potere di impugnare da parte del danneggiato costituitosi parte civile le sentenze di proscioglimento, con conseguente facoltà del giudice dell’impugnazione di decidere sulla domanda di risarcimento e su quella restitutoria, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto, in quanto “il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare”.

33. In altri termini, l’accoglimento dell’impugnazione della sentenza di proscioglimento conferisce eccezionalmente al giudice penale il potere di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria o restitutoria

34. Per di più l’impugnazione per i soli effetti civili, ex art. 573 c.p.p., deve essere proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale indipendentemente dal fatto che essa si accompagni all’impugnazione agli effetti penali; di talchè il suo buon esito presuppone l’accertamento della sussistenza del reato, anche solo ai limitati effetti civili, con la conseguenza che “il giudice del gravame deve valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato, secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione di regole proprie del diritto civile che evocano ipotesi di inversione dell’onere della prova o, peggio ancora, di responsabilità oggettiva” (Cass. pen. 18/06/2015, n. 42995).

35. A precisare i termini della separatezza del giudizio civile da quello penale ha contribuito la Consulta, quando (sent. n. 353 del 27/07/1994) ha sottolineato il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile esercitata nel processo penale, giustificandone gli adattamenti perchè derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi: esigenze assenti ove il danneggiato scelga di esercitare l’azione restitutoria e risarcitoria nel processo civile (Corte Cost. n. 532 del’1/01/1995).

36. Il senso del ragionamento è chiaro: il danneggiato è una sorta di ospite nel processo penale – in dottrina la posizione del responsabile civile è ritenuta equiparabile a quella del convenuto o del terzo chiamato in causa nel processo civile (artt. 166 e 271 c.p.c.), così come quella della parte civile è equiparabile a quella dell’attore nel processo penale e mantiene la sua connotazione civilistica – ma ha compiuto una scelta processuale precisa, dopo avere valutato vantaggi e svantaggi delle alternative disponibili, e, una volta, optato per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale ne subisce gli indispensabili condizionamenti (Corte Cost. n. 94 del 10/04/1996; Corte Cost. n. 424 del 30/12/1998; Corte Cost. n. 12/2016, cit.).

37. Tali condizionamenti non hanno ragione d’essere là dove non ricorra una esigenza di tutela della funzione del processo penale; tant’è che la Consulta (Corte Cost. n. 353/1994, cit.) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600 c.p.p., comma 3, per cui il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale “quando possa derivarne grave e irreparabile danno”, anzichè “quando ricorrono gravi motivi”, così come previsto dall’art. 283 c.p.c., con l’ulteriore conseguenza della non irragionevolezza della diversificazione dei diritti e dei poteri processuali attribuiti alla parte civile ed all’imputato, ritenuti in più occasioni, dalla stessa Corte costituzionale, titolari di “situazioni soggettive non omologabili”.

38. In questa cornice di riferimento si colloca l’art. 622 c.p.p. secondo cui qualora, in sede di legittimità, la sentenza sia annullata, “fermi gli effetti penali”, limitatamente alle disposizioni o ai capi riguardanti l’azione civile, ovvero sia accolto il ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento, la Corte “rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.

39. In sostanza, il giudizio di rinvio dinanzi al giudice civile consegue all’impugnazione della sentenza penale di condanna e del suo annullamento ai soli effetti civili ovvero all’impugnazione, proposta dalla sola parte civile, della sentenza di proscioglimento, annullata ai soli effetti civili.

40. Non si tratta di una previsione propriamente nuova, posto che riproduce, per un verso, l’art. 541 codice abrogato e quanto al contenuto “nuovo” – l’aggiunta è relativa all’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato: quando la Corte di cassazione annulla la sentenza per i soli effetti civili, l’eventuale giudizio di rinvio, fermi restando gli effetti penali, si svolgerà davanti al giudice civile competente in grado di appello, anche se l’annullamento riguarda una sentenza inappellabile – esso si traduce in una applicazione estensiva della previsione dell’art. 541 c.p.p., già avallata dalla giurisprudenza (ad esempio Cass., Sez. Un., 30/11/1974, n. 306),che il legislatore si è limitato a recepire.

41. Che la scelta normativa evocasse il tema dei rapporti tra azione civile ed azione penale fu chiaro alle Sezioni unite della Corte di Cassazione penale nella nota sentenza Sciortino (sent. 18/11/2013, n. 40109), ove venne affermato: “il tema proposto (si trattava di accogliere il ricorso dell’imputato nei confronti della sentenza di appello che, dichiarando di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato o per amnistia, aveva confermato le statuizioni civili, senza motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato) involge scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis” che ha ricadute immediate sulla tutela della parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio, a seconda che esso sia disposto verso il giudice civile ovvero verso il giudice penale.

42. Ciò che più rileva è che fu messo in risalto che “in circostanza nella quale non ha luogo alcun proseguimento dell’azione penale, la corte di cassazione non può (fare) a meno di restituire la cognizione in sede di rinvio (…) all’organo giudiziario cui appartiene naturalmente”, senza che sia d’ostacolo il fatto che il giudice del rinvio debba applicare le regole e le forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale. Il danneggiato è ritenuto in grado di rappresentarsi l’eventualità che venga meno, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell’azione penale, la giustificazione della permanenza del giudizio in senso penale.

43. Del resto, le posizioni delle parti sono controbilanciate, per quanto riguarda il danneggiato, dalla possibilità, in sede di rinvio di agire per il riconoscimento del danno non patrimoniale nella sua (più ampia) accezione civilistica, mentre quanto all’imputato, il suo interesse al pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, è assicurato dall’opzione di rinuncia alla prescrizione – art. 157 c.p.c., comma 7, – o all’amnistia – Corte Cost., cent. n. 175 del 14/07/1971 -. Per dovere di precisione va osservato che la formulazione dell’art. 622 c.p.p. non distingue la natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale: potranno, dunque, rientrarci tanto vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso, quanto violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall’azione civile nel processo penale.

44. Un dato è certo: l’annullamento del giudizio penale preclude un ritorno del processo al giudice penale in ogni caso, cioè sia nell’ipotesi di un ricorso dell’imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile”, sia in quella per cui l’imputato ritenga di impugnare formalmente anche il capo penale. In quest’ultimo caso il ricorso è d ritenersi inammissibile “in virtù del principio, già affermato dalle stesse Sezioni unite, secondo cui, in presenza dell’accertamento di una causa di estinzione del reato, non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale”, se non a costo di stravolgere le finalità ed i meccanismi decisori della giustizia penale “in dipendenza da interessi civili ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all’esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”.

46. Sicchè rappresenta proprio una conseguenza della sentenza Sciortino l’indirizzo giurisprudenziale più recente (Cass. 8/06/2017, n. 34878; Cass. 21/04/ 2016, n. 29627; Cass. 23/02/2012, n. 15015) che si è espresso nel senso che “il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente ad un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata in ordine alla responsabilità dell’imputato comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza stessa e, ove questa contenga anche la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, l’annullamento delle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello”.

47. L’autonomia del giudizio civile di cui all’art. 622 c.p.p. rispetto al processo penale trae argomento anche dai rapporti tra l’art. 185 c.p. e l’art. 2043 c.c..

47.1. A contendersi il campo sono due tesi: la prima degrada l’art. 185 c.p. a mero duplicato dell’altra (Cass. pen. 21/01/1992, n. 2521, per cui il diritto della persona danneggiata dal reato alla restituzione ed al risarcimento del danno ha natura prettamente civilistica, e la disposizione dell’art. 185 c.p. nulla aggiunge, ai fini del suo riconoscimento, al generale principio dell’art. 2043 c.c., secondo cui qualunque fatto, doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Non vale a modificare l’intrinseca natura privatistica di un fatto illecito, che sia definibile tale alla stregua delle citate norme civili, l’ulteriore condizione che il medesimo fatto sia punito dalla legge penale, espletando le due normative (quella civile, con le regole che essa richiama in funzione integratrice, e quella penale) una diversa funzione precettiva e sanzionatoria talchè si è potuto giustamente affermare che tra le due fattispecie esiste esclusivamente una mera connessione genetica, mentre il diritto al risarcimento nasce non già dal reato, ma dal fatto storico che l’ordinamento configura come reato); la seconda accede all’idea che uno stesso fatto possa integrare un illecito penale ed un illecito civile, giacchè il reato contiene tutti gli elementi dell’illecito aquiliano, ma la responsabilità ai fini risarcitori resta unitaria ed unica, identificata nei suoi essentialia dall’art. 2043 c.c., con l’unica differenza rappresentata dalla possibile estensione della condanna risarcitoria ai danni non patrimoniali, essendo l’art. 185 c.p. non una fattispecie di responsabilità, in quanto non rappresenta che “uno di cui”, cioè una di quelle ipotesi, per molto tempo, invero l’unica, in cui è ammessa, ai sensi dell’art. 2059 c.c., la risarcibilità del danno non patrimoniale.

47.2. Il riconoscimento all’art. 2043 c.c., da parte della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 500 del 22/07/1999, dei caratteri di norma che non assegna tutela risarcitoria ad una situazione giuridica che era sì protetta, ma in modo non pieno, stante che vi faceva difetto la tutela risarcitoria, chiamata, come tale ad operare, in seconda battuta, solo ove un’altra norma del sistema – quella primaria – avesse qualificato la posizione giuridica della vittima assegnandole protezione da parte dell’ordinamento giuridico, ma quelli propri della norma primaria che assicura tutela risarcitoria “solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante”, ha avuto come conseguenza l’impossibilità di stabilire a priori quali siano gli interessi meritevoli di protezione risarcitoria, poichè caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso come norma primaria di protezione, è la sua atipicità. Spetta al giudice “procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poichè solo la lesione di un interesse siffatto può dar luogo ad un danno ingiusto ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto” e verificare se l’ordinamento possa tollerare che il danno prodottosi rimanga a carico della vittima.

48. Anche la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. che ha emancipato il risarcimento del danno non patrimoniale dal reato e ne ha fatto una categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona non connotato da rilevanza economica, è servita a rafforzare l’idea che il giudizio civile e quello penale siano autonomi.

49. E tale autonomia, dal punto di vista processuale e, in particolare probatorio, è stata consacrata, almeno con riferimento alla prova del nesso di causalità, dalla pronuncia a sezioni unite (sent. n. 576 dell’11/01/2008) secondo cui “In tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.

50. Raggiunta la dimostrazione della separazione del processo civile e di quello penale, è necessario riscontrarne i riflessi nel processo di rinvio ai sensi dell’art. 622 c.p.p. e diversificarli secondo le “ragioni” per le quali il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. è stato disposto: a) a seguito di annullamento su ricorso della parte civile “ai soli effetti della responsabilità civile”, ex art. 576 c.p.p., della sentenza di proscioglimento limitatamente agli effetti civili; b) a seguito dell’annullamento delle sole disposizioni o capi della sentenza penale di condanna dell’imputato che riguardano l’azione civile (su ricorso dell’imputato ex art. 574 c.p.p. o della parte civile ex art. 576 c.p.p.); c) a seguito di pronuncia, nel precedente grado di giudizio, di condanna, anche generica alle restituzioni e al risarcimento dei danni, quando il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili (art. 578 c.p.p.).

50.1. Nel primo caso l’annullamento ha ad oggetto gli effetti civili della sentenza di assoluzione, gli ultimi due devono essere ulteriormente disarticolati perchè in un caso la sentenza penale di condanna, relativamente agli effetti penale, passa in giudicato, nell’altro, al contrario, non si forma alcun giudicato.

51. Bisogna cominciare col dire che c’è ampia unità di vedute circa il fatto che il giudizio che si svolge dinanzi al giudice del rinvio debba essere sottoposto al regime di cui all’art. 392 c.p.c..

51.1. Il convincimento trae partito dalla constatazione che comunque esso non è un giudizio che inizia ex novo, ma un giudizio che, principiato in sede penale, prosegue dinanzi al giudice civile per gli effetti civili.

51.2. E, in definitiva, che si parli di translatio judicii, di trasmigrazione, ecc. per descrivere questo transito poco importa; il meccanismo del rinvio è quello che sembra meglio rendere l’idea dei termini del collegamento che si instaura tra il processo penale e quello civile.

51.3. Equipararlo ad un (comune) giudizio di rinvio tout court significa, però, riconoscergli anche un carattere chiuso ai sensi dell’art. 394 con una serie di conseguenze:

– non è consentito l’intervento del terzo che non abbia partecipato al processo penale, se non nei limiti in cui egli deduca la titolarità di un diritto autonomo, al fine di prevenire un pregiudizio attuale che potrebbe derivargli dalla esecuzione della sentenza e che sia tale da legittimare la proposizione dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. (Cass. 10/04/2015, n. 7175; Cass. 20/11/1998, n. 11743);

– i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati dalla sentenza di cassazione, sicchè anche in questo caso il giudice di rinvio è chiamato a compiere l’esame della controversia, rimanendo entro il solco tracciato da questa ultima sentenza, senza poterla sindacare o eludere, quand’anche risultasse erronea (Cass. 28/06/1997, n. 5800);

– l’efficacia preclusiva riguarda anche le questioni che avrebbero potuto essere dedotte dalle parti nel giudizio di legittimità o essere rilevate d’ufficio dalla Corte di cassazione;

– l’atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio non deve contenere, ai fini della sua validità, la specifica riproposizione di tutte le domande, eccezioni e conclusioni originariamente formulate, essendo sufficiente che siano richiamati l’atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base a cui avviene tale riassunzione;

– il giudice del rinvio, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, può pronunciarsi su tutta la domanda proposta nel giudizio conclusosi con la sentenza annullata e non sulle sole conclusioni formulate con l’atto di riassunzione;

– il regime dei nova si traduce nel divieto per le parti di svolgere nuova attività assertiva o probatoria, non necessaria in conseguenza della pronuncia di cassazione; l’utilizzabilità della testimonianza resa dalla persona offesa in sede penale, giacchè essa conserva il suo valore di prova;

– il ricorso alle presunzioni semplici da parte del giudice di rinvio è ammissibile nell’ambito del solco tracciato dalla sentenza di cassazione penale sugli stessi fatti di cui alla contestazione originaria; il divieto per il giudice del rinvio, ove nel giudizio penale di merito il giudice si sia limitato a pronunciare condanna generica al risarcimento e la mancata liquidazione del danno non abbia formato oggetto di impugnazione, di ampliare i limiti del decisum propri della sentenza impugnata, procedendo alla liquidazione del danno: quest’ultima conclusione, nondimeno, è stata superata da un recente orientamento (Cass. 20/06/2017, n. 15182) che ha affermato che, nell’ipotesi di annullamento ai soli effetti civili della sentenza penale contenente condanna generica al risarcimento del danno, si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda risarcitoria al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale può procedere alla liquidazione del danno anche nel caso di mancata impugnazione dell’omessa pronuncia sul quantum ad opera della parte civile, atteso che, per effetto dell’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale – la quale estende la sua efficacia a quella di condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 574 c.p.p., comma 4, – deve escludersi che si sia formato il giudicato interno sull’azione civile, sicchè questa viene sottoposta alla cognizione del giudice del rinvio nella sua integrità, senza possibilità di scissione della decisione sull’an da quella sul quantum.

52. Ci si persuade, tuttavia, che la tesi della natura chiusa del giudizio di rinvio non sia così saldamente ancorata e che essa ben meriti di essere rimeditata, ove si consideri:

a) che il giudizio innanzi al giudice del rinvio si introduce mediante citazione (art. 392 c.p.c., comma 2), anzichè con atto riassuntivo;

b) che la citazione deve essere notificata alla parte personalmente e non nelle forme previste dall’art. 170 c.p.c., dettato (come precisa la rubrica dell’articolo) per la ipotesi del procedimento in corso;

c) che dall’art. 393 c.p.c., a mente del quale all’ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio, non consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia, si desume in via indiretta che la sentenza del giudice del rinvio non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (nè di primo, nè di secondo grado), riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti (Cass. 22/05/2006, n. 11936);

d) che il giudice del rinvio ha il compito di provvedere sulle spese di tutti i precedenti gradi di giudizio, incluso il primo, proprio perchè la sua sentenza non ha carattere sostitutivo di alcuna precedente pronuncia (Cass. 22/05/2006, n. 11936).

53. La fondatezza della tesi che svaluta il carattere prosecutorio del giudizio di rinvio, esaltandone, invece, le caratteristiche di autonomia ed indipendenza trae partito dalla ricordata sentenza Sciortino delle stesse Sezioni unite penali di questa Corte, che ritengono applicabili, nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., le regole e le forme della procedura civile. Non è dato dubitare che la Corte regolatrice intendesse riferirsi alla disciplina processuale e probatoria del processo civile, tali essendo, rispettivamente e indiscutibilmente, le forme e le regole di quel giudizio.

54. Altrettanto fecondo di implicazioni si rivela un altro pronunciamento delle stesse sezioni unite penali della Corte (Cass., Sez. Un., 29/05/2008, n. 40049), a mente del quale spetta alle sezioni civili della Corte il compito di fornire la corretta interpretazione delle disposizioni che regolano gli effetti nei giudizi civili delle decisioni adottate in altre sedi, compresa quella penale: il giudice penale deve, quindi, quanto meno tendere ad un’interpretazione uniforme, che tenga conto del diritto vivente applicato dai giudici civili, e che eviti contrasti di giurisprudenza tanto più gravi in quanto non è prevista una sede deputata alla loro composizione. Ove si giustificasse un trattamento differenziato secondo che la pretesa civile della persona offesa venga azionata nel processo penale oppure in quello civile, una volta che il primo abbia definitivamente esaurito la sua funzione, si potrebbe determinare il paradosso che due persone danneggiate dallo stesso fatto illecito che abbiano scelto strategie processuali diverse, l’una di costituirsi parte civile nel giudizio penale e l’altra di esercitare l’azione di risarcimento dei danni in quello civile, la seconda potrebbe vedersi accolta la domanda risarcitoria e l’altra vedersela rigettata in conseguenza di una diversa più rigida applicazione della regola causale.

55. Se si scorrono i repertori di giurisprudenza ci si avvede che la meno recente giurisprudenza penale affermava che, una volta venuto meno lo spazio per ulteriori pronunce del giudice penale, mancherebbe la stessa “ragion d’essere della speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile” (Cass. pen., 27/04/2010, n. 32577; Cass. pen. 17/04/2013, n. 23944) e che, in virtù del principio di economia processuale, la decisione sugli aspetti civili doveva essere rimessa al giudice civile, competente a pronunciarsi sia sull’an che sul quantum, avendo il giudizio di rinvio, disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p., ad oggetto “un tema ed una situazione giuridica soggettiva autonomi rispetto a quelli concernenti il dovere di punire, pur avendo in comune il fatto, quale presupposto del diritto al risarcimento”.

56. Tanto basta per incrinare l’idea che la Corte di cassazione penale abbia il potere di stabilire, in sede di annullamento con rinvio al giudice civile, quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, essendo più che ragionevole e giustificato che tale compito spetti integralmente al giudice civile di appello e alla Corte di cassazione civile investita dell’eventuale impugnazione della decisione emessa in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p..

57. La responsabilità penale dell’imputato è definitiva, irretrattabile ed intangibile; la pronuncia della Corte di Cassazione penale che annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l’azione civile (promossa in seno al processo penale) ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato ha superato le ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le rilevanti e consistenti deroghe alle modalità di istruzione e di accertamento dell’azione civile, imponendone i condizionamenti, i termini, i limiti e le latitudini proprie del codice di rito penale, dei suoi profili funzionali e delle sue specifiche finalità.

58. Se viene accolta dal giudice penale di primo grado la domanda restitutoria o risarcitoria della parte civile è solo perchè vi è stata una pronuncia di condanna dell’imputato; viceversa, se l’imputato viene prosciolto per qualsiasi causa il giudice penale è tenuto ad astenersi dal pronunciare sull’azione civile. Ove in sede di gravame, il giudice penale riformi la sentenza di condanna pronunciata dal primo giudice e prosciolga l’imputato ovvero, investito della sola impugnazione proposta dalla parte civile avverso l’assoluzione dell’imputato, detto giudice, non potendo restituire l’azione civile alla sede sua propria, dovrà al contrario procedere e decidere su di essa secondo i canoni propri del rito penale (art. 578 c.p.p.), essendo tale conseguenza imposta, da un lato, dal potenziale persistere del conflitto sùi capi penali (come nel caso di eventuale ricorso per cassazione della parte pubblica) e, dall’altro, dalla circostanza costituita dal trattarsi (in caso di impugnazione della sola parte civile) di una decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale, sia pure arricchito dall’originaria, strutturale, legittima connessione delle due azioni (civile e penale).

59. Ove sia intervenuto il giudicato sugli effetti penale non vi è ragione di attrarre nell’orbita delle regole processual-penalistiche un giudizio che ha ad oggetto una domanda risarcitoria e/o restitutoria che, per coerenza col sistema, deve essere esaminata secondo le regole proprie dell’illecito aquiliano, la cui funzione non ha carattere sanzionatorio, essendo indirizzata a individuare il soggetto nella cui sfera giuridica debbano essere allocare le conseguenze pregiudizievoli prodottesi.

60. Imponendo al giudice civile di pronunciarsi sull’esatta interpretazione di norme penali e sull’applicazione delle regole, processuali e probatorie, di un giudizio (erroneamente) ritenuto “prosecutorio”, del resto, si correrebbe il rischio che la Corte di Cassazione, nelle sue articolazioni, civile e penale, pervenga a soluzioni interpretative contrastanti all’interno del medesimo processo, suscettibili di indebolire la funzione nomofilattica dell’indirizzo ermeneutico espresso dal giudice di legittimità.

61. Ecco dunque la conclusione che si impone: il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. è un giudizio trasmigrato dalla sede penale a quella civile, in quanto più consona ad accertare, senza deroghe e limitazioni alle regole processuali civilistiche ed a quelle sostanziali, una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l’interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall’altro.

62. Il giudizio che si svolge dinanzi al giudice civile cui è stato rimesso è autonomo strutturalmente e funzionalmente da quello penale da cui proviene. Tale autonomia reca con sè i seguenti corollari:

– è legittima, oltre alla possibilità di formulazione di nuove conclusioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pur nei limiti del sistema generale delle preclusioni fissato dall’art. 183 c.p.c., alla luce del recente insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 15/06/2015 n. 12310). L’emendatio della domanda sarebbe oggetto di legittima formulazione dalla parte, e di altrettanto legittimo esame da parte del giudice, stante la disciplina del codice di rito penale che, con riferimento alle formalità della costituzione di parte civile, impone modalità contenutistiche e formali sostanzialmente omologhe a quelle previste dal codice di rito civile per il contenuto della citazione – analogamente a quanto si legge all’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 4, nel codice di rito penale viene previsto sia che la dichiarazione di costituzione contenga, tra l’altro, “l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda” (art. 78 c.p.p., comma 1, lett. d)), sia che la citazione del responsabile civile contenga la specifica “indicazione delle domande che si fanno valere” nei suoi confronti (art. 83, comma 3, lett. b). Pertanto, da un verso, si prevede la precisazione della causa petendi al momento della costituzione di parte civile, dall’altro si sancisce l’obbligo per la parte civile di precisare il petitum depositando conclusioni scritte comprendenti, se è richiesto il risarcimento, anche la determinazione del suo ammontare (art. 523 c.p.p., comma 2);

– non potrà escludersi l’eventuale, diversa valutazione dell’elemento soggettivo (colpa anzichè dolo) nè una differente qualificazione del titolo di responsbilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare. La tutela del diritto di difesa del danneggiato sarà, in tal caso, garantita dal disposto dell’art. 101 c.p.c., comma 2, poichè, in presenza di una rilevazione officiosa del giudice, gli sarà consentito il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione a seguito della riserva di decisione prevista dalla norma citata, così operandosi un equo bilanciamento tra le contrapposte posizioni di chi non ha spiegato tutte le necessarie difese in sede penale e che, di converso, si vede sottratto un grado di giudizio per far valere il proprio diritto. risarcitorio. In conclusione, pur nella sostanziale consonanza delle regole di enunciazione del “principio di diritto” (nel sistema processuale penale e civile) indirizzate al giudice del rinvio perchè ad esse si uniformi (art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2 e art. 384 c.p.c.), esse tuttavia presuppongono che di vero e proprio giudizio di rinvio si tratti, e non risultano applicabili allorquando, come nella specie, l’azione civile si sia ormai affrancata dal giudizio penale in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale che, chiusa la fase penale e “fermi gli effetti penali della sentenza”, rimette ai soli effetti civili la cognizione del giudice civile competente in grado di appello.

– sul versante specificamente probatorio, tenuto conto che nel processo penale, a differenza che in quello civile, la parte civile può legittimamente rendere testimonianza, in mancanza di una norma speculare a quella dell’art. 246 c.p.c., e tale testimonianza può essere sottoposta al cauto e motivato apprezzamento del giudice penale, che può fondare la sentenza di condanna anche soltanto su di essa, l’efficacia probatoria di tale atto processuale deve essere vagliata alla stregua delle regole processuali del codice di rito civile. In coerenza con quanto predicato circa la necessità che il giudizio di rinvio si svolga secondo le regole proprie del processo civile, non può essere condiviso l’orientamento che ritiene che la testimonianza resa dalla parte civile nel processo penale conservi il suo valore anche quando, con l’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, il solo processo civile prosegua dinanzi al giudice di rinvio, fondando tale convincimento sul presupposto evidentemente superato secondo il quale, in tal caso, continuerebbero ad applicarsi le regole proprie del processo penale, e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita, andrebbe esaminata dal giudice del rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (Cass. 14/07/2004, n. 13068). In coerenza con le premesse del ragionamento fin qui sviluppato è evidente invece che la ricostruzione del fatto dannoso – ovvero qualsiasi eventuale riconoscimento di efficacia probatoria – che faccia riferimento alle dichiarazioni rese in sede penale, in veste di testimone, dalla parte civile non possa essere considerata legittima, perchè l’art. 246 c.p.c., vieta di assumere “come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”;

– anche il principio di inutilizzabilità di prove assunte in violazione di un espresso divieto probatorio valevole per il processo penale non può essere condiviso (si veda Cass. 8/02/2018, n. 43896 che ha ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni di un ufficiale di polizia giudiziaria perchè assunte in violazione del divieto posto dall’art. 195 c.p.p., comma 4);

– va, infatti, aggiunto e ricordato che, nell’ordinamento processual-civilistico, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se e in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. 25/03/2004, n. 5965). In base al principio del libero convincimento, pertanto, il giudice civile può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali. In tale contesto, deve ritenersi che il giudice civile possa trarre elementi di convincimento – sempre che li sottoponga ad adeguato vaglio critico – anche dalle dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale, non potendo la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 63 c.p.p., posta a tutela dei diritti di difesa in quella sede, spiegare effetti al di fuori del processo penale. L’utilizzabilità, difatti, è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile, e le prove precostituite, quali gli stessi documenti provenienti da un giudizio penale, entrano legittimamente nel processo, attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di logica giuridica, e tali risultanze probatorie appaiono contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono (Cass. 4/06/2014, n. 12577, con riferimento, in particolare, al valore probatorio delle dichiarazioni indizianti ex art. 63 c.p.p.);

– va parimenti data continuità all’orientamento di questa Corte secondo il quale, con specifico riferimento ai poteri di valutazione delle risultanze probatorie riservati al giudice di merito, l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (imposto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con la sentenza 21 settembre 2010, Marcos Barriosfitalia, in relazione all’art. 6, par. 1 della Convenzione EDU) si impone soltanto in ambito penalistico ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado in ossequio della regola di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., comma 2, ma non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati – in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno – dalla diversa regola probatoria del “più probabile che non”, e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l’affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (nella specie, responsabilità da circolazione stradale) negata dal giudice di primo grado (Cass. 30/09/2016, n. 19430);

– anche le regole probatorie relative al nesso causale devono essere sottoposte al principio di autonomia del giudizio di rinvio rispetto a quello penale che ha dato origine alla vicenda. E’ escluso evidentemente che, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, nel giudizio di rinvio debbano continuare ad applicarsi le regole processuali penali che hanno governato il processo fino all’annullamento da parte della Corte di cassazione – con la conseguenza che l’an della responsabilità debba essere accertata secondo il canone dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (così come avviene nel giudizio penale d’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento impugnata dalla sola parte civile); una volta separata la res iudicanda penale da quella civile, a quest’ultima debbono applicarsi le regole processuali civili, con la conseguente sufficienza di un minor grado certezza in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito, secondo il canone civilistico del “più probabile che non” e senza alcun vincolo per il giudice civile nella ricostruzione del fatto di quanto accertato dal giudice penale, non essendo quello del rinvio ex art. 622 c.p.p., un giudizio tecnicamente sottoposto al regime di cui agli artt. 392-394 c.p.c. ed in particolare al vincolo del principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

In sintesi:

– l’individuazione della domanda risarcitoria e restitutoria – petitum e causa petendi – avviene sulla scorta della rappresentazione del danneggiato costituitosi parte civile;

– i fatti costitutivi della domanda non sono gli stessi del fatto reato, perciò possono essere oggetto di diversa valutazione;

– i canoni probatori applicabili sono quelli del giudizio civile, anche relativamente al nesso di derivazione causale, essendosi reciso il legale con la fase penale;

– i reati a condotta vincolata non vincolano il giudice del rinvio, sicchè si possono far valere indifferentemente condotte causative del danno diverse o quelle tipizzate;

– l’elemento soggettivo dell’illecito civile è sganciato da quello accertato con diversa finalità in sede penale; si può accertare la colpa rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. anche se in sede penale fosse oggetto di accertamento un reato doloso; la colpa penale e quella civile non coincidono, se non morfologicamente, ai sensi dell’art. 43 c.p., ma differiscono funzionalmente;

– il titolo di responsabilità può essere oggetto d’ufficio di una diversa qualificazione dei medesimi fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione parte civile;

– le cause di esclusione della punibilità e le esimenti non producono effetti preclusivi sulla domanda risarcitoria (come risulta dalla legge Gelli Bianco e dalla legge sulla legittima difesa).

64. Pertanto, in disparte l’inammissibilità della dichiarazione testimoniale re-resa dalla parte civile, in ordine alla quale nessun rimprovero può essere mosso alla sentenza impugnata, il motivo merita accoglimento.

9. Il motivo numero quattro è fondato.

Alle ragioni già impiegate per giustificare la meritevolezza di accoglimento del motivo precedente, vanno aggiunti i seguenti rilievi.

Il mezzo riguarda la condotta agevolativa ascritta ad Ca.En. esclusa dal giudice del rinvio per non aver tenuto conto, per le ragioni già ampiamente esposte, della decisione del Tribunale civile di Rimini quanto alla responsabilità di Ca.En. per il danno patrimoniale subito dalla odierna ricorrente, per non avere preso in considerazione le deposizioni rese da quest’ultima, per aver ritenuto priva di attestazione di alcuna situazione irregolare o illegittima la controfirma di Ca.En. apposta in calce al contratto quadro del 13 ottobre 2003, per aver ritenuto insufficiente che il prospetto di ottimizzazione degli investimenti fosse stato redatto da B.M. su carta recante il logo della Banca Monte dei Paschi di Siena.

Ribadito quanto già si è precisato riguardo all’inammissibilità della testimonianza di V.S., si rileva che la censura circa la conclusione del contratto quadro del 13 ottobre 2003, in quanto, per il suo contenuto, non rientrante tra le operazioni che B.M. era stata legittimata con la procura ad effettuare, formulata dalla ricorrente, alle pp. 28-29 del ricorso, non soddisfa i requisiti di autosufficienza. Lo stesso è a dirsi quanto all’asserita violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23 imputata ad Ca.En. per aver consentito a B.M. di effettuare operazioni di investimento non autorizzate.

Al netto di ciò, il giudice di rinvio ha escluso ogni responsabilità a carico di Ca.En. senza verificare – adducendo erroneamente l’impossibilità di utilizzare quale prova atipica gli accertamenti effettuati nel giudizio civile avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale e la inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla madre dell’odierna ricorrente e da B.M. – se l’utilizzabilità da parte di B.M. per trattare i rapporti con i suoi clienti di un ufficio all’interno della filiale della Banca Monte dei Paschi di Siena, la generale libertà di accesso all’interno della Banca e la dimestichezza con i luoghi, la facoltà concessale di usare i moduli con il logo della Banca, l’omessa informazione sulle vicende lavorative che avevano spinto la Banca Popolare del Credito Cooperativo di Valmarecchia a licenziare B.M., la mancanza di ogni forma di controllo sull’attività di B.M. – controllo vieppiù necessario in forza dei suoi conosciuti trascorsi – l’affidamento incolpevole ingenerato nella ricorrente circa i suoi rapporti con B.M. integrassero gli estremi di una condotta che in via diretta e/o indiretta aveva reso possibile a B.M. la realizzazione dell’illecito o se avesse dato luogo ex se ad un comportamento illecito produttivo di danno risarcibile.

10. L’ultimo motivo è fondato.

– Il giudice ha omesso di motivare tanto riguardo al rigetto della richiesta di rinnovo della perizia grafologica quanto riguardo alle ragioni per cui a fronte delle puntuali critiche rivolte alla CTU già disposta e puntualmente riportate a sostegno del mezzo impugnatorio, al fine di soddisfarne il requisito dell’autosufficienza, abbia ciononostante deciso di aderire alla medesima (Cass. 03/06/2016, n. 11482).

11. I motivi numero uno e due sono assorbiti.

12. Ne consegue l’accoglimento del ricorso e, di conseguenza, il rinvio della controversia alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio dalla Terza sezione civile della Corte di Cassazione, il 18 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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