Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22517 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/10/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 16/10/2020), n.22517

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9590/2014 R.G. proposto da

P.V., rappresentato e difeso dall’Avv. Salvatore

Cantelli, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma,

via Pietro della Valle n. 1;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio

eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

n. 230/37/13, depositata il 10 ottobre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 febbraio

2020 dal Consigliere Dott. Leuzzi Salvatore.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

– Con avviso di accertamento notificato il 13 febbraio 2009, l’Agenzia delle entrate accertava in capo al contribuente un maggior reddito complessivo ai fini Irpef e Irap con riferimento all’anno 2005, effettuando correlate riprese fiscali. Ai fini IVA, con l’atto impositivo veniva contestata nei confronti del medesimo, sempre per il 2005, l’omessa dichiarazione di compensi imponibili.

– Il procedimento di accertamento con adesione non sortiva esito positivo.

– Il ricorso del contribuente veniva rigettato dalla CTP di Roma che, tuttavia, riduceva i compensi da lavoro autonomo e quelli da lavoro dipendente del P., reputandoli incongruamente calcolati.

– L’appello del contribuente era successivamente rigettato; veniva accolto l’appello incidentale dell’erario in punto di omessa pronuncia del primo giudice sulla declaratoria di definitività della maggiore imposta accertata ai fini IVA per Euro 47.283,00.

– Il contribuente affida il ricorso per cassazione a sette motivi.

– L’Agenzia delle entrate si è costituita ai soli fini di partecipare all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370, comma 1, c. p. c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 4, 5 e 6, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 1; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; la nullità per motivazione meramente apparente e manifestamente illogica D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4 e omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione meramente apparente e manifestamente illogica D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2; l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il terzo motivo si censura la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 23,29 e 25, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione meramente apperente, illogicità manifesta e irriducibile contraddittorietà D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4; l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il quarto motivo si censura la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 112, in relazione all’art. 3, c.p.c.; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione meramente apparente, illogicità manifesta e irriducibile contraddittorietà D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4; l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il quinto motivo si denuncia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 5 e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione non coerente per irriducibile contraddittorietà D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4; l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il sesto motivo si censura la violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, il difetto di motivazione, la carenza di prova dell’accertamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione della L. n. 4 del 1929, art. 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione meramente apparente e manifesta illogicità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4; l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Con il settimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 53 e art. 163 e dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la nullità per motivazione meramente apparente D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 36, comma 2, n. 4; l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; l’omesso esame circa di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

– Il primo motivo è inammissibile.

– Suo tramite il contribuente adduce sotto il profilo della violazione di legge, della nullità della sentenza e del deficit della motivazione della sentenza d’appello, la mancata considerazione dei motivi di salute dedotti e della sua, asserita condizione depressiva correlata allo stato patologico; detto stato, impedendogli di controllare l’operato del proprio commercialista in funzione delle scadenze fiscali, sarebbe suscettibile di implicare e giustificare l’inapplicabilità delle sanzioni.

– La sentenza dà atto che il contribuente aveva dedotto il proprio stato patologico e ritiene che tale condizione non abbia inciso in modo ostativo all’adempimento degli obblighi fiscali dichiarativi.

– Segnatamente, la CTR ha reputato che l’odierno ricorrente non fosse scriminato rispetto alle sanzioni, valorizzando – in senso contrario al ricorso della forza maggiore e delle cause di non punibilità di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 4 e s.s. – due profili fattuali sintomatici della piena capacità di intendere e di volere del contribuente, nel segmento temporale in cui si collocavano gli inadempimenti fiscali: la circostanza che nel periodo di riferimento afferente alla predisposizione della dichiarazione fiscale per l’anno 2005 (aprile/giugno 2005) il P. proponesse nei confronti di enti locali ricorsi monitori a mezzo difensore all’uopo incaricato; la circostanza che nell’anno 2006 svolgesse attività lavorativa percependo redditi. Siffatte situazioni hanno consentito alla CTR di escludere che lo stato di salute del contribuente condizionasse il corretto adempimento degli obblighi tributari, non avendo, d’altronde, il P. altrimenti dimostrato il nesso eziologico diretto fra l’omissione e la grave malattia denunciata, nè la sussistenza di uno stato di incapacità di intendere e di volere ad essa connesso, nè infine – l’esclusiva dipendenza del proprio comportamento omissivo dallo stato di salute, essendo stato l’adempimento fiscale dichiarativo affidato alle cure di un professionista e non dovendovi, pertanto, il contribuente attendere personalmente.

– La censura del ricorrente appare mirata a sovvertire la ricostruzione dei fatti, pure rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, insuscettibile di sindacato in sede di legittimità se logicamente motivato, come nel caso in esame, piuttosto che tesa a contestare l’iter formativo del convincimento del giudice. Ne consegue che nella specie il ricorso concretizza un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice stesso, mostrandosi finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di legittimità.

– La pronuncia impugnata lascia ben intuire la propria ratio decidendi facendo riferimento logico e coerente a quelle tra le emergenze istruttorie ritenute maggiormente idonee e probanti.

– Sarebbe stato onere del ricorrente indicare come, dove e quando ulteriori circostanze inerenti al suo stato di salute abbiano inciso in modo decisivo sull’impossibilità di adempiere agli obblighi normativamente impostigli, gravando la prova dell’assenza di colpa, secondo le regole generali dell’illecito amministrativo, proprio sul contribuente, il quale, dunque, risponde per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica ove non dimostri di aver vigilato su quest’ultimo (Cass. n. 6930 del 2017; Cass. n. 11832 del 2016; Cass. n. 25580 del 2015).

– Il secondo motivo è infondato.

– Mediante detto mezzo il contribuente assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui lo riconosce come soggetto passivo ai fini Irap, in ragione della sussistenza del requisito della “autonoma organizzazione”.

– La CTR ha basato la propria statuizione su tre convergenti profili: l’utilizzo continuativo di una segretaria; l’impiego di altra lavoratrice dipendente; la presenza di altro collaboratore “come da mod. 770 presentati fino al 2010”.

– Orbene, la circostanza dell’impiego della segretaria è confermata alle pg. 32 e 33 del ricorso per cassazione, ove il contribuente rammenta d’avere esposto tale circostanza anche nell’atto di appello e in costanza di siffatto giudizio.

– La circostanza del ricorso, da parte del contribuente medesimo, all’ausilio di altre due persone fisiche in funzione dell’esercizio dell’attività non è efficacemente contraddetta, avendo il ricorrente abdicato all’impellenza di confrontarsi con la ratio decidendi della sentenza, che non valorizza unicamente – come preteso in ricorso – il “Mod. Unico 2004”, bensì – testualmente – il complesso di “mod. 770 presentati fino al 2010”.

– In tal senso, la sentenza d’appello è allineata al condivisibile orientamento nomofilattico, dacchè le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito, con riguardo al presupposto dell’Irap, che il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2 – il cui accertamento è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive (v. Cass., sez. un., n. 9541 del 2016).

– Il giudice del merito ha fatto pedissequa applicazione del principio compendiato; nè la circostanza di un impiego solo part-time di una segretaria vale ad escludere l’incidenza del principio medesimo nel caso di specie, rilevando la soglia minima fissata dalle Sezioni Unite sulla base del mero dato numerico.

– Il terzo motivo è inammissibile.

– Attraverso detto mezzo il contribuente si duole che la CTR avrebbe disatteso la censura inerente l’erroneo calcolo delle ritenute riconosciute sui redditi contestati, assumendo che la statuizione in parola sia sprovvista di motivazione, tanto da culminare in una omessa pronuncia in spregio all’art. 112 c.p.c. Ciò rileverebbe condensandoli – sul piano dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.

– Il ricorrente si è limitato, peraltro, a lamentare che le ritenute non risulterebbero correttamente calcolate e che andrebbero emendate applicando la ritenuta del 20% e ad additare non meglio precisati – e identificabili – errori di computo con riferimento ad una serie di enti comunali, elencati in ricorso.

– Tuttavia, l’impugnazione della statuizione relativa al computo delle ritenute riconosciute sui redditi in contestazione non è accoglibile se in essa – come nella specie – non vengano specificati i parametri disattesi, le voci incongrue, i criteri di quantificazione che la parte assume violati, le specifiche situazioni – infine – in cui il computo sbagliato si sarebbe realizzato e le singole cifre espressive di esso. Il giudice del gravame non è, infatti, vincolato in alcun modo da approssimative determinazioni quantitative postulate dalla parte, nella persistente mancanza – accertata pure in grado d’appello – di individuazione degli specifici errori che la parte stessa attribuisce al giudice e di dati fattuali e numerici che li documentino.

– Proprio la mancanza di elementi idonei a dare determinatezza alla doglianza, la CTR ha adombrato, stigmatizzando la genericità e mera ripetitività di deduzioni pregresse.

– Nè tali situazioni di errore nel calcolo delle ritenute, in difetto di specificazione della misura e della consistenza dell’errore, il Collegio è legittimato ad indagare nel contesto degli atti processuali di merito. Necessita osservare, infatti, che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo” non dispensa il ricorrente dall’onere di specificare (a pena di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore – nella specie di calcolo – denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (cfr. in tema Cass. n. 22880 del 2017).

– Va soggiunto che, come da questa Corte condivisibilmente già evidenziato, poichè l’interesse ad impugnare con il ricorso per cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole, è necessario, anche in caso di denuncia di un errore di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, che la parte ottemperi al principio di autosufficienza del ricorso (correlato all’estraneità del giudizio di legittimità all’accertamento del fatto), indicando in maniera adeguata la situazione di fatto della quale chiede una determinata valutazione giuridica, diversa da quella compiuta dal giudice “a quo”, asseritamente erronea (Cass. n. 14279 del 2017).

– Inammissibile è anche il quarto motivo.

– Mediante detto mezzo il contribuente censura – sia sotto l’aspetto della violazione di norme, sia sotto il profilo del deficit di motivazione, sia sul piano della nullità della sentenza – il mancato riconoscimento della deduzione pari a Euro 2.311,00 per non meglio individuati “oneri di famiglia”; l’asserzione per cui le spese figurerebbero nel mod. 730/2006 “effettivamente” presentato (del quale non viene riportato il contenuto utile all’intelligenza elementare della censura); la circostanza della ritardata presentazione del Mod. unico 2006 per l’anno 2005.

– Sulla base di siffatta sommaria cornice allegatoria, il contribuente invoca la deduzione della somma anzidetta sulla base del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 12.

– Il testo di detta norma, nella formulazione applicabile ratione temporis, àncora la detrazione dall’imposta lorda di “carichi di famiglia” a parametri specifici che il ricorrente oblitera e lascia in disparte, non correlandone in alcun modo l’incidenza al caso di specie. La censura rimane assertiva in quanto non è chiarita nè la condizione economico-giuridica del coniuge, nè la situazione dei figli, nè il numero di questi ultimi, ancorchè si configurino quali elementi necessari alla verifica della congruità della richiesta in rapporto ai parametri applicabili.

– Osserva il Collegio che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è posto fisiologicamente a carico del contribuente l’onere di indicare in dettaglio e provare eventuali specifici oneri deducibili, il che comporta, in base al principio di autosufficienza, che il ricorrente si faccia carico dell’incombenza di fornire precisa indicazione degli atti che provano la misura, la causale concreta e la consistenza delle deduzioni asseritamente a lui spettanti.

– Il ricorrente odierno si è, per converso, limitato alla generica asserzione d’aver presentato un mod. 730 e un tardivo mod. unico 2006, senza peraltro curarsi di offrire precise – a dire il vero, nemmeno approssimative – indicazioni in ordine al contenuto di tale documentazione.

– Il contribuente non ha, in definitiva, precisato in modo analitico se la detta documentazione “certificasse” importi deducibili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986.

– Nella specie, fa difetto l’evidenziazione di elementi di fatto suscettibili di essere adeguatamente e specificamente considerati dal giudice del merito; men che meno sono posti in rilievo elementi di fatto idonei ad assurgere a idonei indici sintomatici di una possibile decisione ingiusta, siccome capaci di generare una difettosa ricostruzione del fatto dedotto in giudizio.

– Consegue da ciò che la censura in esame si mostra sdrucciolevole sul tripartito piano dell’asserita violazione di legge, della nullità della sentenza, del denunciato vizio motivazionale di questa.

– Il quinto motivo è infondato.

– Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 (“decreto IVA”) prevede che nelle prestazioni di servizi, come nelle prestazioni professionali, l’imposta è dovuta solo al momento dell’incasso (Cass. n. 13209 del 2009; Cass. n. 3976 del 2009).

– La “VI direttiva IVA” (77/388/CEE) e la direttiva 2006/112/CE, tuttavia, vincolano l’imponibilità IVA non al pagamento del compenso, ma al materiale espletamento della prestazione professionale e, con riguardo all’evento che genera l’obbligo, prevedono che questo nasce nel momento di effettuazione della prestazione professionale.

– Ad avviso delle Sezioni Unite di questa Corte, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 deve essere, pertanto, interpretato nel senso che per le prestazioni di servizi, il presupposto impositivo si verifica con l’esecuzione della prestazione professionale, mentre l’incasso del corrispettivo rappresenta il limite ultimo oltre il quale non si può andare per la fatturazione del compenso e l’esigibilità dell’imposta (Cass. sez. un. 8059 del 2016)

– Ora, poichè è indubbio che, in linea con il principio di neutralità fiscale, vadano assoggettati a IVA i compensi professionali, quand’anche percepiti dopo la cessazione dell’attività, è, del pari, evidente che, qualora il professionista non intenda anticipare la fatturazione dei compensi prima dell’effettivo incasso, è necessario per lui attendere la riscossione dei propri crediti professionali prima di procedere alla chiusura della partita IVA.

– Nella specie, viceversa, è incontroverso che il contribuente, avendo deciso di concludere la propria attività professionale, procedeva a chiudere la propria partita IVA allorchè non aveva ancora incamerato i corrispettivi rivenienti da prestazioni rese in favore di enti pubblici.

– Naturale che, chiudendo la partita IVA, egli dismettesse lo strumento utile a “governare” fiscalmente – fino al relativo esaurimento – tutte le operazioni ulteriori rispetto alla concreta interruzione delle prestazioni professionali; si privava, in altri termini, del mezzo funzionale alla definizione dei rapporti giuridici pendenti con gli enti pubblici dai quali attendeva il corrispettivo di prestazioni già rese.

– Il ricorrente, trascurando che il momento di cessazione vera e propria dell’attività non coincide con il momento dell’astensione dall’espletamento di prestazioni professionali, ma con la definizione dei rapporti, ometteva di conservare la partita IVA fino a quando non avesse portato a conclusione tutte operazioni relative alla riscossione dei crediti e al pagamento dei debiti anche fiscali.

– In alternativa, è certamente ipotizzabile, in linea astratta, che il contribuente decida di fatturare anticipatamente tutti i compensi anche quelli non ancora percepiti – e di pagare l’IVA dovuta benchè non riscossa, per poi cessare immantinente la partita IVA.

– Nel caso che occupa era rimessa alla scelta del contribuente la possibilità di determinare il reddito relativo all’ultimo anno di attività tenendo conto anche delle operazioni che non avevano avuto in quell’anno manifestazione finanziaria. Fisiologico al riguardo che come adombrato correttamente dalla CTR – il contribuente dovesse, tuttavia, dar conto anche ai fini dell’IVA da corrispondere di tutte le operazioni imponibili effettuate nell’anno 2005.

– L’imputazione dell’IVA, che l’erario ha per tabulas eseguito a carico del contribuente, si mostra, pertanto, legittima e coerente, sia col sistema della neutralità dell’imposta, che con la descritta alternativa di opzioni operative rimessa al contribuente.

– Rispetto a queste due opzioni, l’odierno ricorrente – come accertato dalla CTR e da lui stesso dedotto in ricorso – ne ha scelto inammissibilmente una terza: quella articolata sulla chiusura della partita IVA senza previa fatturazione delle prestazioni già eseguite, ancorchè non ancora remunerate dagli enti pubblici, e sulla omessa appostazione dell’ammontare d’imposta residualmente dovuto in relazione a dette prestazioni nell’ultima dichiarazione fiscale.

– Il contribuente, poichè intendeva chiudere la propria partita IVA senza attendere oltre, era indefettibilmente vincolato a due adempimenti: 1) versare “preventivamente” l’imposta indicata nelle fatture ad “esigibilità differita” D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 6 emettendole qualora non vi avesse ancora provveduto – quand’anche l’imposta in parola non fosse stata ancora riscossa insieme ai corrispettivi (il che è in linea con quanto evidenziato dalla risoluzione dell’Agenzia delle entrate 232/E/2009); ii) computare nell’ultima dichiarazione annuale IVA anche le operazioni per le quali si è anticipata l’esigibilità dell’imposta – che in ipotesi di attività non cessata sarebbe stata “differita” – rispetto al momento dell’effettivo incasso.

– Si tratta di conclusioni in linea con quelle cui sono pervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, secondo cui: “Il compenso di prestazione professionale è imponibile ai fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”; e questo perchè “il fatto generatore del tributo IVA e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati con la materiale esecuzione della prestazione”. Il conseguimento del compenso rappresenta, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo una condizione di esigibilità dell’imposta nonchè l’estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione. Resta, peraltro, salva per il professionista la possibilità di anticipare la fatturazione delle prestazioni rese e, quindi, l’esigibilità dell’IVA rispetto al momento dell’effettivo incasso, per poi chiudere la partita IVA. In tale evenienza, viene meno l’incidenza della condizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 5 sicchè vanno computate nell’ultima dichiarazione annuale IVA, ove effettuate, anche le operazioni per le quali non si è verificata l’esigibilità dell’imposta.

– Il sesto motivo è infondato.

– Nella specie non vi è stato alcun accesso presso i locali d’esercizio dell’attività professionale del contribuente da parte dei verificatori

– Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, prevede che “gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso di impiegati dell’amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, artistiche, agricole o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni”, ed il comma 6 del medesimo articolo, prescrive che “di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da cui risultino le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute. Il verbale deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto di averne copia”. Le suddette previsioni sono applicabili anche con riguardo alle imposte dirette in virtù del richiamo al citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6, contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1.

– Come è evidente, pertanto, l’art. 52, citato, impone la redazione di verbale solo ed esclusivamente in caso di accesso per procedere ad ispezioni documentali, verifiche, ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile, pertanto non è corretta la tesi sostenuta dal ricorrente secondo la quale anche nel caso di verifica documentale espletata autonomamente dall’amministrazione finanziaria nei propri uffici sarebbe necessaria la redazione sia dei verbali giornalieri che di quello di chiusura delle operazioni.

– Al caso in esame, invece, è applicabile il disposto di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 3, che prevede che “Per l’adempimento dei loro compiti gli uffici possono: (…) 2) invitare i soggetti che esercitano imprese, arti o professioni, indicandone il motivo, a comparire di persona o a mezzo di rappresentanti per esibire documenti e scritture, ad esclusione dei libri e dei registri in corso di scritturazione, o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti (…)”, stabilendo che “Le richieste fatte e le risposte ricevute devono essere verbalizzate a norma dell’art. 52, comma 6”. Analoghe previsioni in materia di imposte dirette sono contenute nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

– Sulla base di quanto detto sopra deve pervenirsi alla conclusione che la CTR non ha violato le disposizioni indicate dal ricorrente nella rubrica del sesto motivo di ricorso, giovando richiamare il seguente principio di diritto: “In tema di accertamento tributario, la redazione del verbale di verifica e di quello conclusivo delle operazioni è richiesta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6, (applicabile non solo in materia di IVA ma anche di imposte dirette, in virtù del richiamo operato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1) esclusivamente nelle ipotesi di accesso finalizzato all’acquisizione di documentazione, e non anche in quello di accertamenti documentali cd. a tavolino, espletati autonomamente dall’Amministrazione finanziaria nei propri uffici” (v. Cass. n. 8246 del 2018).

– Quanto alle dichiarazioni 770 e ai dati desunti dall’anagrafe tributaria, la CTR ha sottolineato: che sono riepilogati nei prospetti dell’atto impositivo; che risultano allegate nelle note di costituzione in giudizio, depositate l’11 novembre 2009 presso la CTP.

– Costituisce principio giurisprudenziale pacifico quello per il quale “nel regime introdotto dalla L. n. 212 del 2000, art. 2 l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca – come accertato dalla CTR nel caso di specie – il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (v. Cass. n. 6914 del 2011; Cass. n. 13110 del 2012; Cass. n. 9032 del 2013; Cass. n. 9323 del 2017; Cass. n. 21066 del 2017).

– E’ stato, altresì, chiarito che “in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione” (così Cass. n. 26683 del 2009; Cass. n. 21118 del 2010; Cass. n. 7654 del 2012).

– Nel caso di specie, il ricorrente si è limitata a censurare la mancata allegazione di dichiarazioni e schermate non meglio precisate senza chiarire quale specifica parte di esse risultasse obliterata, quale porzione omessa apparisse rilevante, quale aspetto fosse trascritto in misura ridotta tanto da minare la comprensibilità della motivazione dell’atto impositivo ai fini dell’impugnazione.

– Giova in definitiva richiamare il seguente principio di diritto: “in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 2121 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3. Ne consegue che all’avviso di accertamento vanno allegati i soli atti aventi contenuto integrativo della motivazione dell’avviso medesimo e che non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale, ma non anche gli altri atti cui l’Amministrazione finanziaria faccia comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva” (Cass. n. 24417 del 2018).

– Il settimo motivo di ricorso – rubricato “VII motivo – 1” – è all’evidenza inammissibile.

– Suo tramite il contribuente censura la violazione dell’art. 2909 c.c., ancora una volta pure sotto i profili della carenza motivazionale e della nullità della senteza.

– Ora, è sufficiente evidenziare che l’art. 2909 c.c., di cui si assume l’intervenuta violazione, prevede che “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

– La funzione pratica del giudicato sostanziale è evidentemente quella di garantire la certezza giuridica nei rapporti tra le parti, nel senso che l’accertamento contenuto nella sentenza non più impugnabile non può più essere messo in discussione in futuri giudizi tra le stesse parti, e tanto anche con riferimento alle questioni che le parti avrebbero potuto dedurre. Si parla in proposito di preclusione del dedotto e del deducibile.

– Come è evidente il giudicato sostanziale si forma solo sulle questioni di merito suscettibili di passare in cosa giudicata, sì che l’avviso di accertamento – che sentenza non è – non è tecnicamente accostabile entro l’alveo del giudicato.

– Piuttosto, la sentenza d’appello si è limitata ad evidenziare come la parte di IVA non contestata, pari ad Euro 47.283,00, dovesse ritenersi accertata.

– Il contribuente, dal canto suo, ha confermato nel motivo in esame di aver contestato solo l’IVA reputata non esigibile, pari ad Euro 35.606,00, assumendo d’aver pagato la rimanente parte, quindi cripticamente approdando ad un ricalcolo dell’imposta già versata in maggior misura pari ad Euro “6.607,00”, che non è sorretto da alcun parametro descritto in maniera minimamente autosufficiente, quindi per nulla illeggibile.

– L’ottavo ed ultimo motivo di ricorso – rubricato come “VII Motivo – 2” – è inammissibile.

– Suo tramite si censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha rilevato che l’importo di Euro 17.295,00, corrisposti al ricorrente dalla Regione Lazio costituivano redditi da lavoro dipendente in ragione delle risultanze di cui alla dichiarazione presentata dall’ente anzidetto e che, conseguentemente, andavano inclusi nel calcolo di esso ai fini dell’imposizione fiscale, il che non era avvenuto in primo grado posto che la CTP aveva eliminato il predetto importo, sia dall’imponibile connesso ai redditi da lavoro autonomo del P., sia da quello correlato – giustappunto – ai redditi da lavoro dipendente.

– Parte ricorrente assume trascurati dal giudice regionale i seguenti fatti decisivi: che in realtà i compensi corrisposti dalla Regione Lazio costituivano compensi da lavoro autonomo “come risultava dalle allegate cinque fatture”; che nella tabella compensi di lavoro autonomo non compare la Regione Lazio come sostituto d’imposta.

– Appare evidente che – così riassunti – i profili ora descritti non assurgano a fatti decisivi, tali dovendosi intendere i precisi accadimenti o le precise circostanze in senso storico-naturalistico e non le “questioni” o le “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass. n. 21152 del 2014; Cass. n. 20035 del 2018).

– Nella specie, appare d’altronde evidente che il ricorrente miri semplicemente ad ottenere un apprezzamento alternativo delle circostanze fattuali emerse nei gradi di merito, nell’ottica di una diversa ricostruzione dei fatti più congeniale alle proprie aspettative, il che postula con ogni evidenza un accertamento precluso nella presente sede.

– La composita censura si mostra inammissibile anche nella parte in cui adduce la sussistenza di un vizio ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. posto che non descrive in alcun modo l’incongruenza ermeneutica riscontrata e il paradigma interpretativo asseritamente corretto. Giova, invero, rilevare che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste necessariamente nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 14155 del 2017).

– Il ricorso va in ultima analisi rigettato. Le spese non vanno regolate dacchè l’Agenzia è rimasta intimata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

 

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