Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22506 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/10/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 16/10/2020), n.22506

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11582-2012 proposto da:

MG SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAVOUR 101, presso lo

studio dell’avvocato FORLANI ROBERTO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI ROMA UFFICIO

CONTROLLI in persona del Direttore pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 305/2011 della COMM. TRIB. REG. del Lazio,

depositata il 21/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/01/2020 dal Consigliere Dott. CORRADINI GRAZIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 61/58/2010 la Commissione Tributaria Provinciale di Roma rigettò il ricorso proposto da M.G. Srl contro l’avviso di accertamento relativo al IRPEG, IRAP ed IVA per l’anno 2003, emesso dalla Agenzia delle Entrate Ufficio di Roma 2 sulla base di un processo verbale di constatazione con cui erano stati recuperati a tassazione gli importi di Euro 486.640,00 per mancata documentazione dell’IVA indicata in dichiarazione, di Euro 10.086.975,00 per mancata dimostrazione della sussistenza di un debito verso finanziatori e di Euro 1.223.456,00 per costi non documentati.

La società M.G. aveva dedotto con il ricorso introduttivo, per quanto ancora interessa, che non aveva potuto produrre la documentazione dimostrativa dell’IVA e delle spese in quanto asseritamente oggetto di sottrazione da parte del precedente amministratore, ma la Commissione Tributaria Provinciale ritenne non provate le giustificazioni addotte dalla contribuente.

Investita dall’appello della società M.G. che sostenne la erronea motivazione della sentenza di primo grado per quanto attinente alla carenza della prova documentale e la mancanza di obbligo in capo alla contribuente di conservazione della documentazione relativa al debito verso i finanziatori, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza n. 305/29/2011, depositata in data 21.11.2011, rigettò l’appello e condannò la appellante alle spese di lite. La CTR rilevò che l’accertamento era corretto e correttamente motivato in presenza di un processo verbale di constatazione di cui una copia era stata consegnata all’amministratore, mentre le giustificazioni addotte dalla contribuente non apparivano plausibili poichè l’esposto presentato dall’attuale amministratore ai Carabinieri contro l’ex amministratore non aveva rilevanza nei confronti del Fisco posto che il nuovo amministratore ben avrebbe potuto e dovuto presentare una istanza urgente al Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 2380 c.c. e ss., al fine di ottenere il rilascio coattivo della documentazione societaria eventualmente sottratta e comunque mancava pure qualsiasi documentazione relativa ai costi ed all’IVA asseritamente ritenuta detraibile. Inoltre sarebbe stato preciso onere della società conservare i documenti relativi al conto “debiti verso finanziatori” ai sensi degli artt. 2220 e 2457 c.c., se non altro a fini probatori.

Contro la sentenza d’appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la contribuente nei confronti della Agenzia delle Entrate e del Ministero delle Finanze, con atto notificato il 4.5.20162, affidato a due motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Si deve rilevare preliminarmente la inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero della Economia e delle Finanze.

1.1. Il Ministero infatti non rappresenta (Cass. 20 ottobre 2006 n. 22587) nè l’Agenzia delle Entrate, nè, di conseguenza, un ufficio periferico della stessa e non risulta aver partecipato al giudizio di appello. In tema di contenzioso tributario, la legittimazione “ad causam” e ad “processum” spetta invece esclusivamente all’Agenzia delle Entrate con riferimento ai procedimenti introdotti, come nel caso in esame, successivamente al 1 gennaio 2001, data in cui è divenuta operativa la sua istituzione, dovendosi così considerare inammissibile la domanda azionata nei confronti del Ministero (In applicazione del principio, questa Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze in quanto privo di legittimazione passiva, per essere stato il giudizio d’appello azionato dopo il primo gennaio 2001; v, per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 29183 del 06/12/2017 Rv. 646519 – 02).

1.2. Conseguentemente, ritiene il collegio che la legittimazione spettasse alla sola Agenzia delle Entrate, subentrata al dipartimento delle entrate (vedi D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 62; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 16122 del 15/11/2002 Rv. 558531 – 01) e che, essendosi oltretutto svolto l’intero giudizio di merito nei confronti della Agenzia delle Entrate, il ricorso per cassazione introdotto nei confronti del Ministero dell’Economia sia inammissibile poichè la capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, fin dalle fasi di merito, esclude la legittimazione del Ministero della Economia, essendo invece parte necessaria del processo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art 10, l’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato. Peraltro il ricorso per cassazione è stato proposto anche nei confronti della Agenzia delle Entrate, che era ed è il soggetto legittimato e che si è validamente costituito nel giudizio, per cui la pronuncia deve essere resa nei confronti della Agenzia delle Entrate.

2. Ciò posto, con il primo motivo la società M.G. denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la società non avesse posto in essere tutte le azione esperibili per il recupero della documentazione societaria benchè la nuova amministratrice, M.V., si fosse affidata, attraverso la denuncia penale, alla magistratura penale che ben avrebbe potuto esercitare il potere di sequestro della documentazione e quindi, l’ex amministratore, Sig. Mo.Al., che riteneva di essere ancora l’amministratore della M.G., stante l’insanabile contrasto con la nuova amministratrice M.V., avesse promosso il giudizio R.G. n. 97543/2003 davanti al Tribunale civile di Roma per impugnare la delibera adottata in data 8.9.2003 dalla assemblea della M.G. al fine di ottenere l’annullamento della stessa delibera con cui era stato nominato amministratore il sig. Mo.Br. in sostituzione del sig. Mo.Al.. La Amministrazione Finanziaria era stata posta al corrente delle iniziative prese e del fatto che il sig. Mo.Al., ancora amministratore della società, aveva rifiutato di restituire la documentazione sociale, ma la sentenza impugnata non aveva considerato la prova del conflitto esistente in ordine alla carica di amministratore e non aveva valutato neppure l’unica prova che era nella disponibilità della società M.G. e cioè l’estratto del verbale dell’assemblea dei soci dal quale si ricavava l’avvenuta dazione da parte dei finanziatori della somma contestata dall’Ufficio.

2.1. Il motivo è infondato poichè, pur tenendo conto che si tratta della formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, precedente alla modifica introdotta per effetto del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. n. 143 del 2012, peraltro il vizio di motivazione, al fine di incidere sulla stessa, deve riguardare un fatto decisivo per il giudizio, nel senso di un fatto inteso in senso storico – naturalistico e deve consistere in motivazione inesistente o quanto meno obiettivamente carente in ordine all”iter” logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata.

2.2. A tale ultimo proposito deve essere evidenziato che, a fronte della formulazione del vizio pregresso, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, prevede “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” non più “circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” bensì circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Trattasi di innovazione di non poco momento, posto che il termine “punto” è un termine atecnico col quale è possibile individuare qualunque fatto, elemento, questione, situazione o circostanza in ordine alla quale la motivazione possa essere viziata, mentre il concetto di fatto è più specifico, sia dal punto di vista naturalistico che da quello giuridico. Secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, i “fatti” in ordine ai quali assume rilievo il vizio di motivazione sono i “fatti principali”, ossia i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso come individuati dall’art. 2697 c.c., anche se in giurisprudenza vi sono alcune pronunce per le quali assumono rilievo in concreto anche i “fatti secondari”, ossia i fatti affermati dalle parti in funzione di prova dei fatti principali: in ogni caso giammai in dottrina e giurisprudenza si è ritenuto che il termine “fatto” possa, dopo la citata riforma, considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo per fatto intendersi un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico.

2.3. Nel caso in esame, invece, viene dedotta una insufficiente ed erronea valutazione della prova in ordine al conflitto interno societario che avrebbe impedito all’organo societario che si trovava nell’esercizio dei poteri al momento dell’accertamento di acquisire la documentazione giustificativa della realtà dei componenti negativi del reddito, per non avere, in particolare, la sentenza impugnata esaminato la prove,, che avrebbe portato la contribuente e cioè una delibera assembleare dalla quale sarebbe risultato che vi era stato il finanziamento da parte dei soci e comunque la difficoltà per gli organi societari in carica di acquisire la documentazione probatoria. Viene quindi richiesta una nuova valutazione della prova degli elementi negativi che è compito esclusivo del giudice del merito, essendo ciò precluso al giudice di legittimità attraverso la deduzione del preteso vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La ricorrente non può infatti “rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. 7 aprile 2017 n. 9097).

2.4. La sentenza impugnata, con motivazione coerente e priva di vizi logici e giuridici, facendo applicazione del corretto principio giuridico per cui la prova delle poste negative deve essere fornita dal contribuente, ha specificamente ritenuto che le poste contabili negative non fossero state documentate – il che non risulta comunque essere stato mai contestato nel giudizio di merito – e che la carenza di prova non fosse stata giustificata pur avendo avuto l’organo societario competente i mezzi idonei per acquisirla, che però non aveva attivato, essendo stata la mera successiva denuncia penale un mezzo inadeguato, per cui la deduzione, contenuta nel ricorso per cassazione, laddove fa riferimento ad un estratto del verbale della assemblea dei soci, attraverso il quale si sarebbe potuto desumere l’avvenuto finanziamento da parte dei soci, in assenza oltretutto della indicazione di dove e quando tale deduzione sarebbe stata prospettata nel giudizio di merito ed in particolare nell’atto di appello e di quale sarebbe stato il contenuto di tale verbale, neppure trascritto nel ricorso per cassazione o allegato ad esso, si scontra con evidenti profili di inammissibilità per difetto di autosufficienza oltre che di rilevanza, in presenza di una motivazione della sentenza impugnata che ha dimostrato di avere preso in esame le prove dedotte.

2.5. Nessun riferimento vi è in sostanza ad un fatto decisivo, espressione che non si riscontra in alcun modo nella esposizione del motivo di ricorso, che è carente innanzitutto in relazione alla illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica dei fatti controversi in relazione ai quali la motivazione si assume viziata, delle ragioni della ritenuta insufficienza, omissione o contraddittorietà della motivazione in ordine ai suddetti fatti, nonchè del carattere decisivo dei medesimi, laddove nella specie tutta l’esposizione del motivo risulta generica, mancando l’individuazione di “fatti” controversi in senso tecnico nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo degli stessi (intesa la decisività nel significato ad essa attribuito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, anche anteriore alla modifica del 2006, ossia come idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinare senz’altro una diversa ricostruzione del fatto, non come idoneità a determinare la mera possibilità o probabilità di una ricostruzione diversa: v. tra le altre Cass. n. 22979 del 2004 e n. 3668 del 2013).

3. Il secondo motivo di ricorso è poi inammissibile poichè con esso si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e quindi sotto il profilo della violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, e dell’art. 2714 c.c., n. 3, l’errore che sarebbe stato commesso dal giudice di appello il quale avrebbe omesso di esercitare i propri poteri istruttori in presenza di una situazione di perdita incolpevole dei documenti che avrebbe consentito il ricorso alla prova per testimoni o per presunzioni; cosicchè avrebbe errato il giudice di appello in quanto, in particolare, non aveva sospeso il giudizio tributario in attesa della definizione del giudizio civile relativo alla legittimità dell’amministratore “sostituito” ovvero, in subordine, per non avere disposto la prova testimoniale che la contribuente non aveva potuto presentare stante il divieto di tale mezzo istruttorio previsto per il giudizio tributario.

3.1. Il vizio di violazione di legge non è infatti prospettabile nella specie, poichè, in primo luogo, viene dedotta la violazione di vizi procedurali eventualmente prospettabili ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. ed inoltre esso consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03); come nel caso in esame in cui si deduce addirittura che il giudice avrebbe errato nel non disporre d’ufficio la acquisizione di documentazione presso un terzo ovvero la prova testimoniale, pur non richieste dalla parte poichè vietate dalla abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3 e dal divieto di prova testimoniale nel processo tributario.

3.2. In ogni caso, è principio consolidato quello per cui, nel processo tributario, a seguito dell’abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, ed in applicazione del medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 1, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti, dovendo, invece, essergli riconosciuto il potere di ordinarne l’esibizione, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., entro gli stessi limiti consentiti al giudice di primo grado, ossia quando è impossibile acquisire altrimenti la prova, come nel caso in cui una parte non possa conseguire i documenti in possesso dell’altra, ovvero in situazioni di oggettiva incertezza, al fine di integrare gli elementi istruttori in atti, non potendo invece essere ordinata d’ufficio l’esibizione di documenti di una parte o di un terzo, quando l’interessato può di propria iniziativa acquisirne una copia e produrla in causa (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 33506 del 27/12/2018 Rv. 652181 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16171 del 19/06/2018 Rv. 649371 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 955 del 20/01/2016 Rv. 638439 – 01); come nel caso in esame in cui la sentenza di appello ha correttamente rilevato che la parte avrebbe avuto il rimedio cautelare appositamente disposto dall’ordinamento per acquisire la documentazione, se fosse stato vero che era stata sottratta dall’ex amministratore, ma non lo aveva attivato, affidandosi ad una tardiva denuncia penale che non poteva conseguire lo stesso risultato. Non può quindi la parte rimproverare al giudice di non avere sopperito alle carenze istruttorie della parte, sovvertendo i rispettivi oneri probatori e tanto meno fare da ciò discendere una violazione di legge.

3.3. Ciò vale poi anche con riguardo alla doglianza relativa alla mancata adozione d’ufficio di prova testimoniale al fine di acquisire la prova degli elementi negativi che la parte avrebbe “perso” incolpevolmente per sottrazione da parte dell’ex amministratore.

3.4. Premesso che in tema di imposte sui redditi delle società l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente (v., per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 30366 del 21/11/2019 Rv. 655932 – 01), ma che anche in tema di IVA l’onere di provare i crediti vantati spetta ugualmente al contribuente, pur avendo la giurisprudenza di questa Corte ritenuto che può essere adempiuto con le modalità di cui all’art. 2724 c.c. ove l’allegata impossibilità di dimostrare con i mezzi ordinari l’IVA assolta in rivalsa sia conseguenza di un comportamento incolpevole (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 25694 del 14/12/2016 Rv. 641946 – 02), peraltro neppure la perdita incolpevole della documentazione esenta il contribuente dall’onere della prova, su di lui gravante, della legittimità e correttezza della detrazione dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni e servizi, nè introduce una presunzione di veridicità, a suo favore, di quanto quella documentazione avrebbe dovuto rappresentare (v. Cass. Sez. 6 5, Ordinanza n. 9611 del 13/04/2017 Rv. 643957 – 01), bensì, in applicazione della regola generale di cui all’art. 2724 c.c., n. 3, consente soltanto, in deroga agli ordinari limiti, la prova testimoniale o presuntiva, previa dimostrazione di essersi trovato nell’incolpevole impossibilità di produrre le fatture annotate nell’apposito registro e di acquisirne copia presso i fornitori (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23331 del 16/11/2016 Rv. 642021 – 01).

3.5. I principi invocati dalla contribuente anche in proposito sono pertanto erronei poichè sarebbe spettato alla parte provare la perdita incolpevole dei documenti e quindi dedurre, se del caso, la prova testimoniale diretta a dimostrare 9 il contenuto delle fatture che non aveva potuto reperire presso i fornitori e non invece dedurre, oltretutto per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, che sarebbe spettato al giudice disporre d’ufficio la prova testimoniale in ordine alla perdita incolpevole ed al contenuto dei documenti.

4. In conclusione, il ricorso nei confronti della Agenzia delle Entrate deve rigettato e al rigetto segue, secondo soccombenza, il regolamento delle spese di lite. Non sussistono i presupposti ratione temporis per il raddoppio del contributo unificato, essendo stato il ricorso notificato in data 4.5.2012 e quindi prima della entrata i vigore della L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al TU sulle spese di giustizia, comma 1-quater.

PQM

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze; lo rigetta nei confronti della Agenzia delle Entrate e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in Euro 11500,00, (11.500) undicimilacinquecento, otre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

 

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