Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22496 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/10/2020, (ud. 29/01/2020, dep. 16/10/2020), n.22496

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18490-2013 proposto da:

M.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CESI

44, presso lo studio dell’avvocato FAUSTO MARIA AMATO, rappresentato

e difeso dall’avvocato GASPARE MOTTA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 21/2013 della COMM. TRIB. REG. della Sicilia,

depositata il 18/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/01/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

M.V. ricorre per la cassazione della sentenza n. 21/29/13, depositata il 18 gennaio 2013 dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, con la quale, in riforma della decisione di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso la cartella di pagamento emessa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54 bis, per imposte relative all’anno 2005.

Riferisce che il contenzioso aveva tratto origine dalla cessione, nel luglio 2005 e nel luglio 2006, di due rami d’azienda, in favore della Mediterranea Asfalti s.r.l. e della Grandi Opere s.r.l., le quali si erano accollate, tra le passività, i debiti fiscali (oltre che quelli previdenziali) della cedente. Afferma che le suddette cessioni erano state comunicate all’Agenzia delle entrate e che le cessionarie avevano provveduto a saldare i debiti tributari, compensandoli con i propri crediti Iva. Tuttavia l’Amministrazione finanziaria aveva ugualmente provveduto alla iscrizione a ruolo e alla notifica al contribuente della cartella esattoriale.

Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Palermo con l’accoglimento delle ragioni del M. (sentenza n. 163/05/10). La decisione era stata impugnata dall’Agenzia dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, che con la sentenza ora al vaglio della Corte aveva accolto le ragioni dell’appellante. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che la documentazione acquisita al processo non fosse sufficiente a provare l’adempimento degli obblighi fiscali da parte delle società cessionarie, mancando degli oggettivi collegamenti tra i versamenti, che pur risultavano eseguiti dalle acquirenti dei rami d’azienda, e le imposte dovute dalla cedente.

Il ricorrente censura con quattro motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, e art. 324 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per non aver rilevato l’inammissibilità dell’appello dell’Ufficio, per violazione dell’obbligo di specificità dei motivi;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 58, e degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c. per aver deciso ultrapetita, sulla base di questioni non prospettate nè allegate dall’Ufficio;

con il terzo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver ammesso domande ed eccezioni nuove dell’appellante, inammissibili e comunque comportanti una decisione che esulava dalle prospettazioni originarie dell’Agenzia;

con il quarto per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, e art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per il malgoverno del materiale probatorio, con conseguente decisione assunta in violazione del divieto di doppia imposizione.

Chiede dunque la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale statuizione. L’Agenzia delle entrate contestato le ragioni avverse e chiede il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che

Preliminarmente deve dichiararsi la carenza di legittimazione passiva del Ministero della Economia e delle finanze, nelle cui posizioni processuali sono ormai subentrate le Agenzie fiscali, e in particolare quella delle Entrate per i rapporti tributari, a partire dai contenziosi introdotti successivamente alla data in cui le Agenzie sono divenute operative (1 gennaio 2001).

Esaminando quindi il merito, il primo motivo del ricorso, con il quale il contribuente si duole della mancata rilevazione d’ufficio dell’inammissibilità dell’appello per assenza di specificità dei motivi di impugnazione, è infondato.

A parte che il motivo sfiora esso stesso l’inammissibilità per aver contestualmente invocato la violazione di norme di diritto e la violazione di norme processuali, senza distinguere i profili per i quali denuncia i due vizi con unico motivo, esso è in ogni caso privo di pregio.

Il ricorrente denuncia il difetto di specificità dell’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria, affermando che con l’impugnazione l’Ufficio si sarebbe limitato a riprodurre le difese articolate nel giudizio di primo grado, senza alcun riferimento e alcuna critica alla motivazione della decisione appellata.

In realtà con l’atto d’appello l’Agenzia ebbe a denunciare l’inadeguatezza della motivazione del giudice provinciale, che nel decidere sulla controversia non aveva in alcun modo tenuto conto delle “delicate questioni sollevate dall’Ufficio e soprattutto sulle informazioni fornite.”. Ebbe a censurare dunque la sentenza per non aver esaminato i motivi esposti dall’Ufficio, i quali furono pertanto riproposti dinanzi al giudice d’appello. Dunque, a differenza di quanto assume la difesa del contribuente, l’appello era costruito con specifica critica alla decisione della Commissione provinciale, con conseguente riproposizione di tutte le ragioni che si assumeva mai esaminate in primo grado.

Anche il secondo motivo non è fondato. Con esso il ricorrente si duole del vizio di ultrapetizione della decisione, sulla base di questioni non prospettate nè allegate dall’Agenzia delle entrate.

La difesa dell’Ufficio aveva contestato l’adempimento degli obblighi fiscali del cedente mediante una pluralità di ragioni, che in sintesi erano tutte riconducibili alla irrilevanza, ai fini fiscali, della cessione di rami d’azienda dal contribuente alle società cessionarie, e soprattutto alla mancanza della tracciabilità dei versamenti eseguiti dalle cessionarie a titolo di pagamento dei debiti fiscali del M.. Si duole poi che il giudice d’appello ebbe a disporre che l’Agenzia provvedesse a meglio verificare se le società cessionarie avessero eseguito versamenti per conto del cedente e nello specifico per il soddisfacimento dei suoi debiti erariali.

E’ la stessa articolazione del motivo ad escludere un vizio di ultrapetizione della sentenza. La controversia era infatti principalmente incentrata sulla contestazione sollevata dall’Agenzia in ordine alla sussistenza, e comunque alla corrispondenza, di versamenti d’imposta eseguiti dalle società cessionarie con le obbligazioni erariali del M.. A tal fine anzi il giudice regionale ha anche inteso approfondire l’esame della documentazione nella disponibilità dell’Amministrazione finanziaria per l’eventuale emersione di dati a supporto della prospettazione difensiva del contribuente. Esula dunque la decisione tanto dalla censura di ultrapetizione, quanto dalla denuncia dell’improprio utilizzo dei poteri istruttori del giudice tributario, che anzi furono esercitati nell’interesse del contribuente, cui incombeva comunque l’onere di dimostrare l’adempimento delle proprie obbligazioni tributarie.

Deve rigettarsi anche il terzo motivo, con il quale si duole che il giudice regionale abbia erroneamente ammesso domande ed eccezioni nuove dell’appellante, inammissibili e comunque comportanti una decisione che esulava dalle prospettazioni originarie dell’Agenzia.

Per quanto già chiarito, contestandosi da parte dell’Agenzia l’assolvimento del M. ai propri debiti erariali, la decisione assunta dal giudice regionale, che ha ritenuto “non sufficienti gli elementi forniti dal ricorrente” a dare prova dell’assolvimento del debito erariale, esula dalle critiche sollevate dalla difesa del contribuente, non riscontrandosi nè la denunciata ammissione di nuove eccezioni o domande, nè la lamentata ultrapetizione della pronuncia.

Inammissibile è infine il quarto motivo, con il quale la sentenza è criticata per il malgoverno del materiale probatorio, e perchè con essa si viola il divieto di doppia imposizione.

Le censure articolate dal contribuente, secondo cui la documentazione era idonea a dimostrare le ragioni del contribuente, tentano una rivalutazione del merito della controversia, che è inibita in sede di legittimità, tanto più alla luce della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Il ricorso va dunque rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza del contribuente anche nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

 

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