Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22495 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/10/2020, (ud. 29/01/2020, dep. 16/10/2020), n.22495

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10011-2013 proposto da:

F.G., domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la

cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato GIANCARLO OLIVIERI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 44/2012 della COMM. TRIB. REG. delle Marche,

depositata il 28/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/01/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

F.G. ricorre per la cassazione della sentenza n. 163/04/12, emessa dalla Commissione tributaria regionale delle Marche e depositata il 28 settembre 2012, con la quale, rigettando l’appello del contribuente, era confermato l’avviso d’accertamento, notificato dall’Agenzia delle entrate con riferimento all’anno d’imposta 2005, per maggiori redditi ai fini Irpef, Irap e Iva.

L’atto impositivo era scaturito da un controllo della documentazione contabile dell’impresa del ricorrente, esercente attività di impresa edile, all’esito della quale era contestata l’omessa dichiarazione e fatturazione del corrispettivo effettivamente ricevuto dalla vendita delle unità abitative indicate in accertamento.

Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno nella sentenza n. 65/03/2011, che aveva rigettato il ricorso. Con la sentenza ora impugnata la Commissione tributaria regionale delle Marche aveva rigettato l’appello. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che non fosse stato violato il principio del contraddittorio endoprocedimentale ed ha giudicato adeguate le prove addotte dall’Ufficio, con procedimento analitico-induttivo, per contestare al contribuente i maggiori redditi derivanti dalla cessione degli immobili.

Il ricorrente censura la pronuncia con tre motivi:

con il primo per violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inosservanza del principio del contraddittorio;

con il secondo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere mal governato le regole di valutazione delle prove presuntive;

con il terzo per omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in riferimento agli indizi esaminati.

Ha chiesto pertanto la cassazione della sentenza.

L’Agenzia delle entrate si è costituita contestando i motivi del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Diritto

CONSIDERATO

che:

esaminando il primo motivo di ricorso, con cui il contribuente si duole dell’inosservanza del principio del contraddittorio endoprocedimentale, con violazione dello Statuto del contribuente, art. 12, esso non trova fondamento.

In tema di contraddittorio endoprocedimentale la giurisprudenza di questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che per il rispetto dei diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre per quelli “non armonizzati” non è rinvenibile nella legislazione nazionale un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Sez. U, sent. n. 24823/2015; ord. 20036/2018). Sempre con riferimento ai tributi “non armonizzati” è stato anche affermato che l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di instaurare il contraddittorio nel corso del procedimento non sussiste per gli accertamenti cd. “a tavolino”, senza che peraltro la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, possa essere interpretato nel senso che la consegna della documentazione contabile spontaneamente effettuata dal contribuente presso gli uffici dove viene eseguita la verifica possa essere equiparata a quella compiuta presso la sede della società e successivamente proseguita, ai sensi di detta Disp., comma 3, negli uffici dell’amministrazione (ord. n. 6219/2018).

Condividendo i principi enunciati, cui questo Collegio intende dare continuità, nel caso di specie la difesa del contribuente non ha neppure fatto cenno a quali utili ragioni avrebbe potuto far valere in sede di contraddittorio.

Incomprensibile è poi la denuncia della mancata redazione del processo verbale di constatazione, atteso che la tipologia di accertamento (cd. a tavolino), senza accesso presso la sede dell’impresa, non prevede la compilazione di alcun verbale.

Neppure fondato è il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole del malgoverno delle prove presuntive. La questione è essenzialmente incentrata, come dimostra il contenuto della decisione impugnata, sulla sufficienza dei valori OMI ai fine dell’accertamento di un maggior corrispettivo di vendita delle unità abitative a fronte del dichiarato.

Per inquadrare la fattispecie nella cornice del principi giuridici entro cui essa va esaminata deve rammentarsi che alla disciplina del D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 3, convertito in L. n. 248 del 2006, la quale, integrando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), attribuiva valore di presunzione legale al valore normale dell’immobile risultante dalle quotazioni OMI al fine della determinazione del corrispettivo di cessione di un cespite immobiliare, seguì la disciplina introdotta dalla L. n. 244 del 2007, che, nell’intento di regolare il valore probatorio attribuibile alle quotazioni OMI per le fattispecie negoziali insorte in epoca anteriore alla normativa del 2006, dispose all’art. 1, comma 265, che “In deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 1, comma 2, per gli atti formati anteriormente al 4 luglio 2006 deve intendersi che le presunzioni di cui al D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, commi 2, 3 e 23-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, valgano, agli effetti tributari, come presunzioni semplici.”.

Seguì infine la L. n. 88 del 2009, (legge comunitaria 2008), che con l’art. 24, comma 5, intervenne di nuovo sulla disciplina delle presunzioni riconducibile all’art. 39 cit., eliminando la presunzione legale introdotta dal citato art. 35. Ciò a seguito del parere motivato del 19 marzo 2009 della Commissione Europea, la quale, nell’ambito del procedimento di infrazione n. (OMISSIS), aveva rilevato l’incompatibilità – in relazione specificamente all’IVA, ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette – delle disposizioni del 2006 con il diritto comunitario. L’intervento modificativo del 2009 ha così ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006.

Nella successione di leggi si è pertanto definitivamente persa la presunzione legale del valore dei cespiti secondo il valore normale emergente dalle quotazioni OMI. Ciò tuttavia non ha escluso del tutto il riferimento a tali quotazioni. A tal fine questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea, ha eliminato la presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi introdotta dall’art. 35 cit. – così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti” -, l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass., sent. n. 9474/2017; n. 26487/2016; n. 24054/2014; da ultimo cfr. anche ord. n. 11439/2018).

Ebbene, nel caso di specie la Commissione regionale ha apprezzato che il maggior corrispettivo attribuito dall’Amministrazione finanziaria alla cessione dei cespiti immobiliari da parte dell’impresa non era stato ricondotto ai soli valori OMI, ma ad una serie di elementi, quali: 1) i mutui di importo superiore al prezzo di acquisto degli immobili; 2) la divergenza con i prezzi dichiarati nei contratti preliminari; 3) le operazioni bancarie di versamento e prelevamento effettuate in coincidenza con la stipula dei rogiti notarili; 4) l’applicazione in alcuni casi di prezzi inferiori ai costi di costruzione.

Emerge dunque una valutazione complessiva del materiale indiziario, acquisito ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e ritenuto evidentemente idoneo ad assurgere a prova per la convergenza di presunzioni gravi, precise e concordanti (ai sensi D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

Quanto poi alla critica mossa dal contribuente, secondo cui, per quanto comprensibile, il corrispettivo di ognuna delle cessioni dei cespiti immobiliari non era stato rettificato per il concorso di tutti gli elementi indiziari evidenziati, ma per l’individuazione di un unico indizio, a parte la carenza di specificità della doglianza (perchè la critica non esamina partitamente alcuna delle operazioni), va rammentato che in ogni caso in materia di presunzioni semplici non è escluso che l’accertamento trovi fondamento anche su di un unico elemento presuntivo, e che proprio in materia di rettifica dei corrispettivi dichiarati nel settore immobiliare, si è ritenuto ad esempio indizio unico e sufficiente lo scostamento tra l’importo dei mutui e i minori prezzi indicati dal venditore (cfr. Cass., ord. 14388/2017).

Nel caso di specie non ci si trova dinanzi ad un unico indizio, ma quanto meno alla combinazione anche di uno solo degli indizi evidenziati nella decisione con lo scostamento dai valori OMI. Correttamente dunque il giudice d’appello ha ritenuto sufficienti gli elementi allegati dall’Amministrazione a supporto dell’atto impositivo per la formazione della prova presuntiva del maggior reddito accertato.

Esaminando infine il terzo motivo di ricorso, con il quale il contribuente denuncia l’omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, a parte la sua genericità, è in ogni caso inammissibile alla luce della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, secondo cui non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, sent. n. 8053/2014; n. 23828/2015; n. 23940/2017).

Si è opportunamente evidenziato che con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame – o il preteso contraddittorio esame – di elementi istruttori, come nel caso di specie, non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., ord. n. 27415/2018).

In conclusione il ricorso va rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza del ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.700,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

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