Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22495 del 06/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 06/08/2021, (ud. 15/07/2021, dep. 06/08/2021), n.22495

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18020/2020 R.G. proposto da:

A.I., rappresentato e difeso dall’Avv. Gabriele Ferabecoli, con

domicili o eletto in Roma, via Trionfale, n. 5637;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Trieste depositato il 29 maggio

2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 luglio

2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

A.I., cittadino del Pakistan, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso il decreto del 29 maggio 2020, con cui il Tribunale di Trieste ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;

che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

Diritto

CONSIDERATO

che:

che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);

l’infondatezza delle censure proposte dal ricorrente, giustificando il rigetto del ricorso, in applicazione del criterio della ragione più liquida, esclude la necessità di soffermarsi, in questa sede, sulla questione concernente l’invalidità della procura ad litem per mancanza di certificazione della data di rilascio, segnalata nella proposta del Relatore in conformità ad una recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 1/06/2021, n. 15177), seguita dalla rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2021, n. 17970);

con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, sostenendo che, nell’escludere la sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel suo Paese di origine, il decreto impugnato ha richiamato fonti d’informazione non aggiornate, non avendo tenuto conto d’informazioni più recenti e di precedenti giurisprudenziali, dai quali risulta il clima d’insicurezza ed instabilità sociale esistente in Pakistan, a causa di attacchi terroristici e scontri politici;

il motivo è inammissibile, avendo il Tribunale richiamato, nell’escludere la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), informazioni desunte da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate (rapporti EASO relativi alla situazione della sicurezza nel Pakistan negli anni 2017, 2018 e 2019, rapporto CRSS relativo all’anno 2017), da cui ha desunto che nella regione di provenienza del ricorrente (Punjab), pur registrandosi ancora attacchi terroristici, non sussiste una situazione di violenza indiscriminata, essendosi ridotto notevolmente sia il numero dei relativi atti che il numero delle vittime;

il predetto apprezzamento, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non risulta validamente censurato dal ricorrente, il quale si limita a lamentare la violazione del dovere di cooperazione istruttoria posto a carico del giudice dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’insufficiente aggiornamento delle informazioni citate, richiamando informazioni più recenti fornite dalle medesime fonti, dalle quali non si evincono tuttavia elementi idonei ad orientare in senso diverso la decisione;

in tal modo il ricorrente dimostra di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cit. da parte del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);

inappropriato deve ritenersi altresì il richiamo a precedenti giurisprudenziali riguardanti cittadini pakistani ai quali, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, dal momento che i motivi della decisione in tanto possono considerarsi viziati, in quanto risultino di per sé erronei, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, e non in quanto si pongano eventualmente in contrasto con quelli addotti in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (cfr. Cass., Sez. II, 26/06/ 2017, n. 15846; Cass., Sez. lav., 17/03/1980, n. 1772);

con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, ribadendo che il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione istruttoria, essendosi limitato ad un esame superficiale dell’attuale situazione del Pakistan, senza verificare se la stessa legittimasse un giudizio di verosimiglianza della vicenda personale da lui narrata;

il motivo è infondato;

in tema di protezione internazionale, questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 4/11/2020, n. 24575; 7/08/2019, n. 21142);

l’esito negativo del controllo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente, nella specie giustificato dall’incoerenza e implausibilità della vicenda personale narrata e dall’inidoneità della stessa ad evidenziare un pericolo attuale, deve ritenersi di per sé sufficiente a dispensare il giudice da approfondimenti istruttori in ordine alla situazione del Paese di origine, non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove, come nella specie, sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925).

con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, censurando il decreto impugnato nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, ha ritenuto non dedotta una condizione di vulnerabilità personale, senza tener conto dei fatti da lui riferiti nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale e confermati in sede di audizione personale, e ha omesso di procedere ad una valutazione comparativa tra il livello d’integrazione da lui raggiunto in Italia e la situazione in cui versava prima dell’espatrio;

il motivo è infondato, avendo il Tribunale correttamente giustificato il rigetto della domanda con l’impossibilità di procedere alla predetta valutazione comparativa, in conseguenza della ritenuta inattendibilità da parte delle dichiarazioni rese dal ricorrente in ordine alla situazione in cui versava nel Paese di origine, che consentiva di escludere la sussistenza dell’allegata condizione di vulnerabilità personale, ed avendo ritenuto pertanto ininfluente la documentazione prodotta a riprova del livello d’integrazione sociale e lavorativa da lui raggiunta in Italia;

secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede infatti specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando, come nella specie, quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione cd. maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/2019, nn. 21123 e 21129);

in assenza di un’effettiva condizione di vulnerabilità, deve considerarsi inoltre insufficiente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, dal momento che, presi isolatamente, il livello di integrazione dello straniero in Italia ed il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani esistente nel Paese di provenienza non integrano di per sé i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione in questione (cfr. Cass., Sez. I, 22/02/2019, n. 5358; Cass., Sez. VI, 28/06/2018, n. 17072);

il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2021

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