Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22471 del 04/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 04/11/2016, (ud. 08/06/2016, dep. 04/11/2016), n.22471

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16052-2013 proposto da:

DITTA CMC DI C.M., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DELLA LIBERTA’ 10, presso lo studio dell’avvocato GEMMA

PATERNOSTRO, rappresenta e difesa dall’avvocato ANTONIO APREA,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.M.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI GIUSEPPE

GENTILE, rappresentata e difesa dall’avvocato SANTA ZINGRILLO giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2657/2012 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 20/06/2012, R.G. N. 4354/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/06/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato GIOVANI GENTILE per delega verbale SANTA ZINGRILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 9 giugno 2004 D.M.G. conveniva in giudizio la ditta CMC di C.M. (e C.), chiedendone la condanna al pagamento della complessiva somma di Euro 76.601,96 per differenze retributive, 13a mensilità, permessi ed altro come da conteggio allegato, ai sensi del contratto collettivo di categoria, comunque ex art. 36 Cost., assumendo di aver lavorato alle dipendenze della predetta C. dal (OMISSIS) come operaia cucitrice, per cui aveva ricevuto una retribuzione mensile di Lire 450.000, senza busta paga e senza regolarizzazione contributiva.

Con sentenza in data 6 aprile 2009 l’adito giudice del lavoro di BARI accoglieva per quanto di ragione la domanda, condannando la resistente al pagamento di Euro 57.035,32 per differenze retributive ordinarie nonchè di Euro 6495,08 per 13a mensilità e di Euro 8104,66 per TFR, oltre accessori di legge e condanna alle spese di lite.

C.M. appellava detta pronuncia, però confermata dalla Corte di Appello di Bari con sentenza n. 2657 del 24 aprile/2 luglio 2012, che rigettava l’interposto gravame, disattendendo in primo luogo la preliminare eccezione di nullità, circa l’individuazione di parte convenuta, in quanto l’indicazione in epigrafe della sentenza impugnata della ditta resistente (CMC di C.M. e C.), doveva ricondursi ad un mero refuso, avendo il giudice di primo grado in motivazione evidenziato la circostanza dell’essere, sulla base della visura camerale, la ditta intestata soltanto a C.M. (non anche a C.), peraltro risultando scusabile l’errore della ricorrente sull’indicazione dell’esatta ragione della ditta, posto che l’attrice non era destinataria del rilascio di formali buste paga.

Parimenti, veniva respinta l’ulteriore eccezione di carattere formale, laddove nel dispositivo della pronuncia appellata emergeva che l’importo liquidato rappresentava la somma di Euro 57.035,32 a titolo di differenze retributive ordinarie, di 6495,98 per tredicesime e di Euro 8104,67 TFR.

La Corte distrettuale, inoltre, rigettava il gravame in relazione alla contestata natura subordinata del rapporto, atteso che i testi avevano fornito inequivoci elementi in merito a detta natura subordinata della prestazione dedotta in lite, e dalle deposizioni era possibile anche desumere le mansioni espletate nonchè l’orario osservato. Quindi, dettagliatamente esaminate le dichiarazioni testimoniali fornite da Co.Gi. e da M.G., i giudici dell’appello consideravano ininfluente quanto riferito dalla teste MA.Mi., laddove quest’ultima aveva escluso per gli anni dal (OMISSIS) l’attività lavorativa della D.M., asserendo che durante il periodo in cui aveva lavorato presso la ditta C. non aveva mai visto la signora D.M. lavorare insieme a lei, pur conoscendola di vista. Vanamente l’appellante aveva tentato di supportare tale dichiarazioni, avvalendosi sia del tardivamente prodotto estratto conto previdenziale I.N.P.S., relativo a Co.Gi. in data 17 febbraio 2010 (secondo il quale quest’ultima non avrebbe mai prestato attività lavorativa dipendenze della C.), sia dell’estratto conto I.N.P.S., relativo alla stessa D.M., datato 11 luglio 2005, secondo il quale l’attrice avrebbe prestato lavoro dipendente soltanto a far data dal 1 aprile 2004. Infatti, tali documenti, lungi dal comprovare l’asserita esclusione della prestazione dipendente, ne rappresentavano prova di d’intercorrenza, nella misura in cui la mancata registrazione del rapporto di lavoro confermava pienamente l’assunto testimoniale dell’inosservanza datoriale dell’obbligo assicurativo, come asseverato proprio dalle testi Co. e M..

Infine, quanto alle censure relative alla c.t.u. contabile, cui si era attenuto il giudice di primo grado, ad avviso della Corte barese, le doglianze formulate apparivano per un verso generiche e per altro verso introducevano un profilo argomentativo mai sollevato in prime cure, tale da determinare l’inammissibilità del gravame, qualora pure non si fosse considerato che le contestazioni erano rivolte essenzialmente verso voci di spesa già escluse in sentenza dal primo giudicante.

Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.M. quale titolare della ditta CMC, come da atto notificato il 19 giugno 2013, affidato a tre motivi (peraltro senza rituali allegazioni ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 e senza idonea indicazione richiesta ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – dove tra l’altro non sono stati chiariti passaggi essenziali del giudizio di merito, nè sono stati per intero riprodotte le dichiarazioni testimoniali acquisite).

La D.M. ha resistito con controricorso, deducendone tra l’altro l’inammissibilità, perchè formulato in base ad eccezioni e contestazioni affatto nuove e mai formulate nel precedente grado di giudizio, abbandonando invece tutte quelle proposte in sede di appello.

La sola ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., però non comparendo alla pubblica udienza dell’otto giugno 2016 nella quale è invece comparsa unicamente la controricorrente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la C. ha dedotto nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) per violazione dell’art. 414 c.p.c., n. 4 – ingiustizia derivata dalla decisione; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nullità del ricorso introduttivo per omessa indicazione del contratto collettivo di categoria, che non risultava assolutamente individuato nello specifico, nè tanto meno materialmente prodotto in copia integrale dall’attrice, con conseguente manifesta ingiustizia della gravata decisione, poichè la D.M. si era limitata a produrre uno stralcio del richiamato c.c.n.l. di categoria, peraltro neppure individuato nello specifico, con esclusivo riguardo alla parte economica. La Corte di appello certamente aveva travisato le risultanze documentali, avendo ignorato del tutto la questione inerente alla mancata produzione da parte della D.M. del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore. Ne era derivata carente ed errata motivazione, meramente apparente, visto che il giudicante non aveva esaminato le anzidette questioni preliminari; non si comprendeva in virtù di quale ragionamento logico giuridico la Corte territoriale avesse comunque provveduto a qualificare la natura del rapporto lavorativo, nonchè a quantificare l’importo domandato a titolo di asserite differenze retributive. Era incontrovertibile l’indeterminatezza della domanda, laddove poi i conteggi elaborati dalla ricorrente erano del tutto generici e non indicavano neppure analiticamente il parametro di base per determinare il preciso ammontare).

Con il secondo motivo la ricorrente ha, inoltre, eccepito la nullità della sentenza per violazione dell’art. 101 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (il giudice di appello aveva omesso di dare piena contezza, nella parte motiva della gravata pronuncia, anche dell’ulteriore circostanza per cui il giudice di primo grado non avrebbe potuto fondare la propria decisione nè sulla risultanze espletata c.t.u. contabile, per essere la stessa nulla e del tutto priva di qualsivoglia valore giuridico probatorio sia pure indiziario. Infatti, il C.T.U. dr.ssa P., in espressa violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., aveva sconfinato i limiti inerenti proprio incarico professionale, avendo proceduto all’accertamento di fatti posti a fondamento della domanda, il cui onere incombeva di certo alla ricorrente, fatti in per nulla rientranti nei quesiti, così come espressamente formulati dal giudice di primo grado. Per contro, l’incaricato ausiliare, pur nella indeterminatezza della domanda e nella genericità richiamato contratto collettivo, peraltro non racchiuso nelle tavole processuali, aveva invece 9:1- proceduto-accertate e quantificate le presunte spettanze inserendovi tra l’altro l’asserita differenze paga, asseriti straordinari, asserite ferie non godute, asserita 13a mensilità, asserita indennità di fine rapporto relativamente al periodo 1 dicembre 1994/4 giugno 2002, ma senza fondamento alcun principio di prova scritta e soprattutto senza neppure essere stato espressamente preventivamente interpellato dall’autorità giudiziaria in tale specifici termini.

Ne derivava la nullità e l’inutilizzabilità degli accertamenti posti a base dell’espletata c. t. u. contabile. Il giudice del gravame aveva completamente omesso qualsivoglia valutazione, motivazione e statuizione, così determinando manifeste erronee conseguenze giuridiche riferibili al caso specifico. Il percorso logico seguito dalla Corte territoriale era pertanto del tutto carente e viziato, per non aver considerato che il c.t.u., oltre ad eccedere dai limiti dell’incarico conferito, non aveva neppure esaminato tutti i fatti di causa e le risultanze istruttorie, avendo quindi redatto la relazione senza alcuna prova sufficientemente idonea e determinante al fine della dimostrazione degli elementi costitutivi dell’allegato vincolo della subordinazione).

Con il terzo motivo, quindi, la C. ha denunciato omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – correlato manifesto travisamento delle risultanze istruttorie (erano inattendibili i testi sui quali era stata fondata la decisione appellata, essendo costoro incorsi in dichiarazioni generiche superficiali – contraddittorie, e non direttamente riconducibili nello specifico alla persona della D.M., tenuto soprattutto conto delle dichiarazioni rese all’udienza del 30 gennaio 2006 dalla teste M. Giovanna – mancata considerazione d’idonea prova documentale, ritenuta tardiva, in relazione agli anzidetti estratti contributi – I.N.P.S. – omesso accertamento della verità materiale con poteri istruttori di ufficio art. 437 c.p.c., senza alcuna valida apparente motivazione logica difetto della motivazione).

Tutte le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, va rimarcata l’irritualità del ricorso per aver omesso di riportare in modo sufficiente, ancorchè mediante sintetica sommaria enunciazione, i fatti di causa (art. 366 c.p.c., n. 3), nonchè la specifica indicazione degli atti processuali sui quali lo stesso ricorso appunta i propri rilievi critici (art. 366, n. 6), sicchè in particolare, al fine di poter validamente sostenere la tesi della nullità del ricorso introduttivo e dei conseguenti vizi, sarebbe stato necessario – per consentire le necessarie verifiche, in termini di tempestività e di divieto di novità- riportare, sebbene per sommi capi, l’atto depositato in data 9 giugno 2004 per l’attrice, la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. con le relative eccezioni, la motivazione della pronuncia di primo grado e quindi le censure contro la stessa formulate con il ricorso d’appello ex art. 434 stesso codice di rito.

Tutto ciò è mancato, con conseguente difetto di autosufficienza del ricorso per cassazione qui proposto, laddove sono ammissibili valide censure nei soli termini rigorosamente (c.d. critica vincolata) consentiti dall’art. 360 c.p.c..

Ad ogni modo, va appena osservato che nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per omessa determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui essa si fonda, ravvisabile solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto risulti impossibile l’individuazione esatta della pretesa del ricorrente ed il resistente non possa apprestare una compiuta difesa, implica un’interpretazione dell’atto introduttivo della controversia riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione, il che comporta l’esame non del ricorso introduttivo ma delle ragioni esposte nella sentenza impugnata per affermare che il ricorso stesso sia o meno affetto dal vizio denunciato (Cass. lav. n. 820 del 16/01/2007, conformi: n. 2572 del 2000, n. 6501 del 2002, n. 17076 del 2004, n. 5879 del 2005.

Cfr. altresì Cass. lav. n. 25753 del 24/10/2008, secondo cui l’onere della determinazione dell’oggetto della domanda, fissato a pena di nullità dall’art. 414 c.p.c., n. 3, deve ritenersi osservato, con riguardo alla richiesta di determinazione della giusta retribuzione, qualora l’attore indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, mentre resta a tal fine irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà, dell’attore medesimo, di modificarne l’ammontare in corso di causa, nonchè dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere. Conforme Cass. Sez. 6 – L, n. 17501 del 31/07/2014.

Cfr., ancora Cass. sez. un. civ. n. 3105 del 22/05/1985: l’onere della determinazione dell’oggetto della domanda, fissato a pena di nullità dell’atto introduttivo dallo art. 414 c.p.c., n. 3, deve ritenersi osservato, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l’attore indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, mentre resta a tal fine irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell’attore medesimo di modificarne l’ammontare in corso di causa, nonchè dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine all’individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere).

Questa Corte, inoltre, ha già avuto modo di affermare (con sentenza n. 23745 del 17/09/2008) che i mezzi di prova ed i documenti che, a pena di decadenza, il ricorrente deve, in forza dell’art. 414 c.p.c., comma 1, n. 5, e art. 415 c.p.c., comma 1, indicare nel ricorso e depositare unitamente ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a fondamento della domanda e, tra questi, non è riconducibile il contratto o l’accordo collettivo qualora esso debba costituire un criterio di giudizio. Infatti, anche prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 – che, nel modificare l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha posto sullo stesso piano, tra i motivi di ricorso, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, onerando il ricorrente per cassazione di depositare il testo di quest’ultimi ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, come modificato dal citato D.Lgs. n. 40 – il codice di rito risolveva il problema della conoscibilità della regola di giudizio affidando al giudice, senza preclusioni, il potere di chiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti o accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa (art. 425 c.p.c., comma 4), i quali, pertanto, seppur non formalmente inseriti fra le norme di diritto, rimanevano, sul piano dell’acquisizione al processo, distinti dai semplici fatti di causa (il testo tuttora in vigore, sin dal 12-12-1973, del cit. art. 425 in tema richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali, ancora prevede testualmente che “Il giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa”).

Pertanto (v. Cass. lav. n. 4889 del 05/04/2002), l’eventuale mancata indicazione del contratto collettivo applicabile nel ricorso introduttivo di una causa di lavoro, con il quale, sulla base della asserita prestazione di lavoro subordinato, vengano chiesti conguagli retributivi, non incide sull’oggetto della domanda e non comporta quindi la nullità del ricorso.

Alla stregua di quanto precede, dunque, va respinto il primo motivo di ricorso, sicchè dovendosi escludere ad ogni modo la pretesa nullità ex art. 414 c.p.c., n. 4, risulta così superato l’asserito derivato difetto di motivazione, nei sensi indicati dalla ricorrente con la seconda parte del suo primo motivo di censura.

Le stesse carenze espositive di cui si è detto riguardano, poi, anche il secondo mezzo d’impugnazione, circa la dedotta violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., per il fatto che il c.t.u. avrebbe espletato l’incarico oltre i limiti del mandato conferito. Anche in questo caso, infatti, l’enunciazione dei fatti di causa è carente, avendo parte ricorrente omesso di riportare in modo sufficientemente completo gli estremi della domanda, in relazione quindi pure ai conteggi allegati al ricorso introduttivo, nonchè la conseguente relazione dell’ausiliare, in base all’incarico conferitogli dal giudice (determinare e quantificare la somma dovuta per differenza tra quanto percepito e quanto spettante per il lavoro svolto, secondo il contratto collettivo di categoria, oltre tutte le dovute spettante).

Orbene, la ricorrente ha omesso inoltre di precisare tutte le modalità seguite all’anzidetto conferimento d’incarico peritale, di riportare le relative operazioni, di indicare i passi salienti della relazione del c.t.u., la data del suo deposito, le udienze successive e le eventuali conseguenti immediate eccezioni.

A parte ciò, comunque, la ricorrente non considera che l’operato del c.t.u. risulta essere stato fatto proprio dal giudice di primo grado con la sentenza appellata, quindi confermata dalla Corte distrettuale, sicchè già con l’interposto gravame sarebbe stato possibile censurare la pronuncia di prime cure per vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., piuttosto che per violazione del principio fissato dal citato art. 101.

D’altro canto, la stessa ricorrente assume, ma senza alcuna idonea precisazione sul punto, che il c.t.u. avrebbe comunque accertato e quantificato le pretese spettanze, comprendendo quindi anche le anzidette voci, però testualmente aggiungendo “così come asseritamente vantate dalla ricorrente e, per l’appunto, solo ed unicamente sulla base di quanto da essa unilateralmente e arbitrariamente prospettato e dedotto nel ricorso introduttivo…”.

E’ possibile, quindi, presumere che la verifica, affidata con ampio mandato dal giudice di merito al designato c.t.u., sia avvenuta proprio in relazione a quanto dedotto e richiesto con il ricorso introduttivo del giudizio, sicchè non è ravvisabile alcuna violazione dei principi di cui agli artt. 101 e 112 codice di rito (peraltro la violazione del principio del contraddittorio in senso lato, relativamente all’attività del c.t.u. è in effetti ipotizzabile soltanto laddove l’operato del c.t.u. avvenga unilateralmente e comunque senza alcuna possibilità di controlli dalle parti. Cfr. al riguardo Cass. 1 civ. n. 986 del 07/02/1996: ai sensi dell’art. 194 c.p.c., comma 2, e art. 90 disp. att. c.p.c., comma 1, alle parti va data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, mentre l’obbligo di comunicazione non riguarda le indagini successive, incombendo alle parti l’onere di informarsi sul prosieguo di queste al fine di parteciparvi. Tuttavia, ove il consulente di ufficio rinvii le operazioni a data da destinare e successivamente le riprenda, egli ha l’obbligo di avvertire nuovamente le parti e l’inosservanza di tale obbligo può dar luogo a nullità della consulenza – peraltro relativa e quindi sanabile se non dedotta nella prima difesa o udienza successiva – ma solo se quella inosservanza abbia effettivamente comportato, con riguardo alle circostanze del caso concreto, un pregiudizio del diritto di difesa.

Cass. lav. n. 3615 del 02/05/1990: eventuali irritualità dell’espletamento della consulenza tecnica ne determinano la nullità solo ove incidano sulle garanzie del contraddittorio, come quelle consistenti nell’omissione delle comunicazioni di cui agli artt. 90 e 91 disp. att. c.p.c. – trattasi, peraltro, di nullità relative che restano sanate se non opposte nella prima udienza successiva al deposito della relazione peritale e che si verificano solo se la detta omissione attenga all’inizio delle operazioni, non richiedendosi analoghe comunicazioni per ogni singola, ulteriore attività che il consulente tecnico ritenga di dover compiere. Cass. 1 civ. n. 10870 del 01/10/1999 ha inoltre più in generale affermato che tutte le nullità relative all’espletamento della consulenza tecnica hanno carattere relativo e devono essere fatte valere nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate. Conformi Cass. n. 7088 del 1992, n. del 1995.

Più di recente, Cass. 3 civ. n. 2251 del 31/01/2013 ha di nuovo affermato e chiarito che la nullità della consulenza tecnica d’ufficio – ivi compresa quella dovuta all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente – ha carattere relativo e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata.

Cade, per l’effetto, anche il vizio di motivazione formulato con la seconda parte del secondo motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 5, laddove invero non è nemmeno chiaro se le critiche ivi formulate riguardino gli accertamenti compiuti dall’ausiliare, ovvero le conseguenti valutazioni e determinazioni del giudicante.

A tale ultimo riguardo, comunque, va disatteso pure il terzo e ultimo motivo, laddove in effetti la ricorrente pretende inammissibilmente in questa sede di legittimità una rivalutazione dei fatti diversa da quanto al riguardo apprezzato dai competenti giudici di merito.

Nel rinviare, quindi, alla narrativa che precede, circa le motivazioni svolte con la pronuncia d’appello qui impugnata, le stesse appaiono del tutto coerenti sotto il profilo logico ed immuni da errori di diritto.

Ed invero, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. civ. Sez. 6 – 5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014. In senso analogo, v., tra le altre, Cass. 15489 del 2007, nonchè ancora Sez. 6 – 5, n. 5024 del 28/03/2012, secondo la quale il controllo di logicità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa.

Cfr. altresì Cass. n. 25332 del 28/11/2014, secondo cui il giudizio di legittimità è a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.

V. pure Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007: il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti.

In senso analogo, Cass. lav. n. 3881 del 22/02/2006 riteneva che il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. Conforme Cass. n. 3928 del 2000).

Il giudice di merito è libero, poi, di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 3601 del 20/02/2006. V. per altro verso anche Cass., lav. n. 14331 del 21/06/2006: in mancanza di un provvedimento decisorio esplicitante le ragioni per le quali il giudice ritenga di far ricorso all’uso dei poteri istruttori ovvero di non farvi ricorso, nonostante la formale ed esplicita richiesta di una delle parti, non è consentita una censura che, seppur sollevabile precedentemente, sia stata avanzata per la prima volta in sede di legittimità e con la quale si denunzi il mancato esercizio dei poteri d’ufficio, censura che finirebbe, con il giudizio di rinvio, per prolungare la durata del processo. Tale soluzione trova conforto nel principio, costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo – art. 111 Cost. – e nella ricaduta, in termini processuali, scaturente dall’inerzia e mancata sollecitazione della parte interessata all’esercizio dei poteri ufficiosi – pur dopo che l’esaurimento dell’istruttoria abbia fatto permanere un quadro probatorio incerto – e ciò anche in ossequio applicativo del principio della tempestività dell’allegazione della sopravvenienza, comportante l’osservanza, a pena di decadenza, dell’onere di far valere nel primo atto difensivo eccezioni o deduzioni volte a contrastare le avverse domande, dovendosi avere riguardo al sistema di preclusioni e decadenze proprio delle controversie di lavoro e, sia pure in misura minore, anche del procedimento ordinario, dopo le riforme del 1990-1995).

Nei sensi anzidetti, dunque, il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vanno quindi poste a carico della ricorrente.

La ricorrente, tuttavia, essendo stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato (sebbene in via anticipata e provvisoria, come da relativo provvedimento in data 12 giugno 2013 emesso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari) non è tenuta, nonostante il rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 18523 del 2/9/2014).

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi, oltre che alle spese generali in ragione del 15%, nonchè accessori di legge, a favore di parte controricorrente.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2016

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