Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22458 del 06/08/2021

Cassazione civile sez. VI, 06/08/2021, (ud. 11/05/2021, dep. 06/08/2021), n.22458

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3010-2020 proposto da:

D.T., P.R., domiciliati ope legis in ROMA,

PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRA DAPAS;

– ricorrenti –

contro

COMUNE di TRIESTE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso lo studio

dell’avvocato ALDO FONTANELLI, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati VALENTINA FREZZA e MARITZA FILIPUZZI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 73/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 12/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’1 1/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ANNALISA

DI PAOLANTONIO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Trieste, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva respinto tutte le domande, ha dichiarato l’illegittimità dei contratti a termine stipulati in successione dal Comune di Trieste con D.T., P.R. e T.F. ed ha condannato il Comune a corrispondere a ciascun appellante, a titolo di risarcimento del danno, l’indennità onnicomprensiva prevista dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28 quantificata in quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

2. la Corte territoriale ha premesso che gli originari ricorrenti erano stati assunti per svolgere, negli asili nido e nelle scuole comunali dell’infanzia, mansioni riconducibili ai profili professionali A o B ed erano stati selezionati sulla base delle graduatorie elaborate dal Centro per l’Impiego, non essendo necessaria alcuna procedura concorsuale ai fini della costituzione del rapporto;

3. il giudice d’appello, ricostruito il quadro normativo, ha ritenuto illegittimi i contratti a termine, perché stipulati in assenza di esigenze temporanee ed eccezionali, ma ha escluso di poter disporre la domandata conversione del rapporto, essendo a ciò ostativo il divieto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, applicabile a prescindere dalla necessità o meno di procedura concorsuale per l’accesso all’impiego;

4. ha, poi, richiamato giurisprudenza di questa Corte e della Corte di Giustizia per evidenziare che la conformità al diritto dell’Unione può essere assicurata anche dal solo risarcimento del danno, che deve essere liquidato, salva la prova di pregiudizi ulteriori, sulla base del criterio fissato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 poi sostituito dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28;

5. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i litisconsorti indicati in epigrafe sulla base di quattro motivi, ai quali il Comune di Trieste ha opposto difese con tempestivo controricorso;

6. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

7. entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia “omessa valutazione di un punto decisivo per la controversia – errata interpretazione della normativa interna – violazione degli artt. 3 e 97 della Cost.” perché avrebbe errato la Corte territoriale nel riferire il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, anche alle assunzioni che prescindono dal previo espletamento di procedura concorsuale;

2. con la seconda censura, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti addebitano alla sentenza gravata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 36 nonché degli artt. 3 e 97 Cost. ed insistono nel sostenere che la ratio del divieto di conversione va individuata nel principio costituzionale del pubblico concorso sicché non vi è ragione di differenziare l’impiego pubblico da quello privato qualora, come nella fattispecie, il dipendente è selezionato sulla base di una procedura che non implica valutazioni discrezionali e comparative;

3. la terza critica denuncia la violazione della clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, nonché dei principi di eguaglianza e di parità di trattamento in quanto il diritto dell’Unione osta ad una legislazione nazionale che inserisca una immotivata disparità fra lavoro pubblico e lavoro privato;

4. infine con il quarto motivo i ricorrenti addebitano alla Corte territoriale l’omessa valutazione di un punto decisivo della controversia, che si assume rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5, e sostengono che ai fini del risarcimento del danno occorreva tener conto dell’illegittima interruzione nel periodo feriale nonché dell’incertezza lavorativa nella quale da tempo essi versavano;

5. i primi tre motivi, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati perché la sentenza impugnata ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte ed il ricorso non prospetta argomenti idonei a sollecitare un ripensamento dell’orientamento già espresso;

5.1. da tempo è stato affermato, ed al principio occorre dare continuità, che ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 (in tutte le versioni succedutesi nel tempo), nell’impiego pubblico contrattualizzato la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione di lavoratori non può mai comportare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato;

5.2. detto orientamento ha valorizzato i principi affermati dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5072/2016), dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 89/2003) e dalla Corte di Giustizia (sentenza 7.9.2006 causa C-53/04 Niarrosu e Sardino) per escludere profili di illegittimità costituzionale e di contrarietà al diritto dell’Unione del divieto di conversione ed ha trovato ulteriore avallo nella più recente giurisprudenza del Giudice delle leggi (Corte Cost. n. 248/2018) e della Corte di Lussemburgo (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C-494/16, Santoro), che, da un lato, ha ribadito l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, dall’altro ha riaffermato che la clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE non osta ad una notinativa nazionale che vieta la trasformazione del rapporto, purché sia prevista altra misura adeguata ed effettiva, finalizzata ad evitare e se del caso a sanzionare il ricorso abusivo alla reiterazione del contratto a termine; 5.3. né si può sostenere che il divieto di conversione sarebbe privo di copertura costituzionale nei casi in cui, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. b) l’assunzione può legittimamente essere disposta, a prescindere dal previo esperimento di procedura concorsuale, mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento;

5.4. l’argomento è già stato esaminato e disatteso da questa Corte, la quale ha evidenziato che del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, il comma 5 seppure tradizionalmente ricondotto al principio sancito dall’art. 97 Cost., comma 4, si ricollega anche alla necessità di assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione, che sarebbe pregiudicato qualora si consentisse l’immissione stabile nei ruoli a prescindere dall’effettivo fabbisogno del personale e dalla previa programmazione delle assunzioni, indispensabili per garantire efficienza ed economicità della gestione dell’ente pubblico;

5.5. si è pertanto affermato che la regula iuris dettata dal legislatore ordinario non ammette eccezioni e trova applicazione sia nell’ipotesi in cui per l’assunzione a tempo indeterminato non sia richiesto il concorso pubblico, sia qualora il contratto a termine sia stato stipulato con soggetto selezionato all’esito di procedura concorsuale (Cass. n. 8671/2019; Cass. n. 6097/2020);

5.6. è stato ulterioimente precisato che “nel pubblico impiego privatizzato, anche per i rapporti di lavoro a termine posti in essere dalle pubbliche amministrazioni mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche ed i profili per i quali è richiesto il requisito della scuola dell’obbligo, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. b), trova applicazione l’art. 36, comma 5, dello stesso decreto e dunque, in caso di abusiva reiterazione, il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, andando salvaguardati anche in tale ambito i principi di buon andamento, imparzialità ed efficienza dell’amministrazione che sottendono la regola del pubblico concorso” (Cass. n. 11537/2020 e Cass. n. 25223/2020);

6. correttamente, pertanto, la Corte territoriale, escluso il diritto alla conversione, ha riconosciuto il solo risarcimento del danno parametrato all’indennità onnicomprensiva prevista dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28 che ha sostituito la L. n. 183 del 2010, art. 32;

6.1. la pronuncia è conforme al principio di diritto, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, alla stregua del quale “in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UIC, (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito” (Cass. S.U. 15.3.2016 n. 5072);

6.2. con la richiamata decisione, alla quale le stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la successiva sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno;

6.2. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché la conversione è impedita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.;

6.3. peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere;

6.4. sulla questione qui controversa e’, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che “la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno” anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C – 494/16 Santoro);

7. il quarto motivo è inammissibile innanzitutto perché il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, a seguito della riformulazione operata dal D.L. n. 83 del 2012, è circoscritto al solo omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, che può essere denunciato solo nei limiti e nelle forme indicati da Cass. S.U. n. 8053/2014 e dalla successiva giurisprudenza conforme (Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018, Cass. S.U. n. 34476/2019);

7.1. si aggiunga che la Corte territoriale, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha escluso che gli appellanti avessero allegato e provato danni ulteriori, danni fra i quali non possono essere incluse le retribuzioni non percepite nei periodi non lavorati perché l’esclusione de iure della conversione dei contratti di lavoro a termine in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato rende i singoli contratti del tutto autonomi ed esclude alla radice la possibilità di ravvisare il danno patrimoniale nella mancata percezione della retribuzione relativa agli intervalli non lavorati (Cass. n. 6097/2020; Cass. n. 3197/2019);

8. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

8.1. non si ravvisano, infatti, ragioni che possano giustificare una pronuncia di compensazione perché sulle questioni prospettate nel ricorso da tempo si sono pronunciate le Alte Corti, escludendo tutte la conversione invocata dai ricorrenti in questa sede;

9. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2021

 

 

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