Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22454 del 27/10/2011

Cassazione civile sez. II, 27/10/2011, (ud. 21/09/2011, dep. 27/10/2011), n.22454

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.G., rappresentato e difeso, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avvocato D’AMICO Angelo, elettivamente

domiciliato in Roma, Via dei Gracchi n. 130, presso lo studio

dell’Avvocato Giovanni Zappulla;

– ricorrente –

contro

M.G. (C.F.: (OMISSIS)), M.M. (C.F.:

(OMISSIS)) e M.F. (C.F.: (OMISSIS)),

quali eredi di Me.Ga., rappresentati e difesi, per

procura speciale a margine del controricorso, dall’Avvocato PATANE’

Antonino, elettivamente domiciliati in Roma, Via Orazio n. 12, presso

lo studio dell’Avvocato Giovanni Tortorici;

– controricorrenti –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Catania n.

876 del 2009, depositata in data 23 giugno 2009.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

settembre 2011 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato Angelo D’Amico;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

PATRONE Ignazio, il quale ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che il Tribunale di Caltagirone, con sentenza depositata il 23 maggio 2006, rigettava le domande proposte da R.G. nei confronti di Me.Ga. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale di quest’ultimo, dichiarava che Me.Ga., e per esso gli eredi, aveva acquistato, per intervenuta usucapione ex art. 1158 cod. civ., il diritto a mantenere nello stato attuale la terrazza, l’annesso vano servizio e le tubazioni per la raccolta delle acque soprastanti l’immobile di proprietà dell’attore e prospicienti la via (OMISSIS), e condannava l’attore a rimuovere il serbatoio idrico ancorato all’immobile dei convenuti;

che l’appello proposto dal R. è stato in gran parte respinto dalla Corte d’appello di Catania che, con sentenza depositata il 23 giugno 2009, ha condannato gli appellati M.G., M. M., Me.Ma. e M.F., in solido tra loro, a scollegare il tubo di scarico di acque piovane e luride dal tubo di proprietà della controparte;

che per la cassazione di questa sentenza, R.G. ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo, cui hanno resistito, con controricorso illustrato da memoria, M.G., M. M. e M.F..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione della sentenza in forma semplificata;

che con l’unico motivo di ricorso, rubricato “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ovvero insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in relazione agli artt. 889, 949, 1158, 1056 C.C.”, R.G. si duole del fatto che la Corte d’appello non abbia motivato convenientemente in ordine ai motivi di gravame, affermando in particolare che non sarebbe conforme a diritto sostenere che “la dedotta irregolarità urbanistica dei manufatti degli appellati non assegna rilievo nella materia in esame”;

che, al contrario, sostiene il ricorrente, le opere di soprelevazione realizzate dal M. avrebbero inciso negativamente nel godimento del suo diritto, sicchè il Giudice avrebbe dovuto intervenire per far cessare gli abusi;

che, quanto meno, prosegue il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe dovuto determinare e quantificare gli oneri relativi all’aggravio della manutenzione del tetto della propria abitazione, conseguente alla esecuzione delle opere da parte dei convenuti;

che la Corte d’appello avrebbe poi errato nel non riconoscere nel caso di specie un condominio minimo e conseguentemente nel ritenere applicabile la norma di cui all’art. 889 cod. civ., che subisce invece deroghe laddove sussista un condominio, ancorchè minimo;

che il ricorso è inammissibile.

che, essendo stato il provvedimento impugnato emesso in data 23 giugno 2009, nel presente giudizio trova piena applicazione il disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., il quelle una specifica disciplina circa la formulazione dei motivi di ricorso per cassazione;

che, nella giurisprudenza di questa Corte, si è chiarito che nella norma dell’art. 366 bis cod. proc. civ., “nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5 del precedente art. 360 – cioè la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione” – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione” (Cass., n. 16002 del 2007; Cass., S.U., n. 20603 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008);

che non è sufficiente che il fatto controverso sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata;

che, nel quadro di questi principi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto l’unico motivo nel quale esso si articola difetta del tutto del momento di sintesi che, nella giurisprudenza di questa Corte, si è ritenuto necessario a corredo della denuncia di un vizio di motivazione;

che il motivo, inoltre, presenta evidenti profili di genericità e, con riferimento alle questioni concernenti l’applicabilità o no, nel caso di specie, dell’art. 889 cod. civ., denuncia piuttosto un vizio di violazione di legge, che avrebbe dovuto essere proposto attraverso la formulazione di uno specifico motivo ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3, corredato da apposito quesito di diritto, nella specie del tutto mancante;

che non rileva che il ricorso sia stato notificato quando la L. 18 giugno 2009, n. 69, era già stata pubblicata ed entrata in vigore, in quanto, alla stregua del principio generale di cui all’art. 11 preleggi, comma 1, secondo cui, in mancanza di un’espressa disposizione normativa contraria, la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, nonchè del correlato specifico disposto della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5, in base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della, medesima legge (4 luglio 2009), l’abrogazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ. (intervenuta ai sensi della citata L. n. 69 del 2009, art. 47) è diventata efficace per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, con la conseguenza che per quelli proposti – come nella specie – contro provvedimenti pubblicati antecedentemente (e dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) tale norma è da ritenere ancora applicabile (Cass. n. 22578 del 2009; Cass. n. 7119 del 2010);

che, in conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 1.000,00 per onorario, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2011

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