Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22440 del 24/09/2018

Cassazione civile sez. un., 24/09/2018, (ud. 11/09/2018, dep. 24/09/2018), n.22440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Primo presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di sezione –

Dott. DI VIRGILIO Maria Rosa – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12222-2017 proposto da:

Avvocato S.A., difeso da se medesimo nonchè

rappresentato e difeso dall’Avvocato Pellegrino Cavuoto, con

domicilio eletto in Roma, via Andrea Bafile, n. 5, presso lo studio

dell’Avvocato Simona Martinelli;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, e MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, con

domicilio presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi,

n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 4421/2016 in data 24

ottobre 2016;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11

settembre 2018 dal Consigliere Alberto Giusti;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

Matera Marcello, che ha concluso per l’inammissibilità e, in

subordine, per il rigetto del ricorso;

uditi l’Avvocato S.A. e l’Avvocato dello Stato Roberta

Guizzi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – La controversia rinviene il suo antecedente nella delibera del 7 giugno 2006 (recepita con decreto ministeriale 28 giugno 2006), con cui il Consiglio superiore della magistratura respinse l’istanza dell’Avvocato S.A., giudice di pace in Salerno, volta alla conferma nel medesimo incarico per il secondo quadriennio, e nella sentenza n. 4992 dell’8 maggio 2009, con cui il Tribunale amministrativo regionale del Lazio annullò il predetto provvedimento di diniego, sotto l’assorbente profilo che esso non era stato preceduto dall’avviso L. 7 agosto 1990, n. 241, ex art. 10-bis recante i motivi ostativi all’accoglimento della domanda di conferma.

A seguito della pubblicazione della detta sentenza, lo S. intraprese numerose iniziative giurisdizionali: (a) propose ricorso avverso il silenzio serbato dal CSM, accolto con la sentenza del TAR del Lazio n. 30423 del 9 agosto 2010, successivamente riformata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 8024 dell’11 ottobre 2010, in quanto al momento della proposizione del ricorso avverso il silenzio non era configurabile alcuna inerzia dell’amministrazione che aveva seriamente avviato la rinnovazione del procedimento; (b) depositò ricorso per l’esecuzione della sentenza n. 4992 del 2009, dichiarato inammissibile con sentenza del TAR n. 8723 dell’11 novembre 2011 (confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4129 del 6 agosto 2013), sul rilievo che l’amministrazione aveva nuovamente provveduto sull’istanza di conferma, utilizzando la residua discrezionalità non elisa dal giudicato che aveva avuto ad oggetto un mero vizio di forma.

2. – La presente controversia si riferisce all’impugnativa della successiva delibera del Consiglio superiore della magistratura del 22 settembre 2010, recepita dal D.M. 18 maggio 2011, di mancata conferma dello S. nell’incarico di giudice di pace di Salerno.

Il TAR del Lazio, con sentenza n. 4443 del 23 aprile 2014, ha respinto il ricorso, affermando la legittimità della delibera di non conferma. In particolare, il Tribunale amministrativo ha evidenziato che il Consiglio superiore aveva fondato il proprio convincimento anche sui pareri negativi espressi dai Consigli giudiziari di Firenze e di Salerno e dai Presidenti dei rispettivi Tribunali, a propria volta basati non solo sugli esposti degli avvocati o dei loro Ordini e su procedimenti disciplinari, bensì anche sull’oggettivo apprezzamento di un complessivo comportamento consistente nel ripetuto ricorso a consulenze tecniche d’ufficio non indispensabili, o eccessivamente onerose, o non attinenti alla causa o affidate a soggetti non idonei. Secondo la motivazione della delibera adottata dal CSM, tale condotta incideva non soltanto sui rapporti con il Tribunale e con il Foro, ma anche sui rapporti con i cittadini, risolvendosi in un aggravamento ed in una dilazione (e quindi in un almeno parziale diniego) del servizio giustizia assicurato dalla magistratura onoraria.

3. – Con sentenza n. 4421, resa pubblica mediante deposito in segreteria il 24 ottobre 2016, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello dello S..

3.1. – Nel disattendere la doglianza di nullità della delibera impugnata per elusione del giudicato, il Consiglio di Stato ha rilevato che la sentenza del TAR n. 4992 dell’8 maggio 2009 ebbe a riscontrare, con portata assorbente, un vizio infraprocedimentale motivazionale, sicchè tale pronuncia restituì pressochè integro al CSM il potere di deliberare, nella specie esercitato con una nuova ponderazione e correlativa esternazione motivazionale.

Quanto alla censura secondo cui l’Organo di governo autonomo della magistratura avrebbe posto a fondamento della (nuova) delibera di rigetto dell’istanza di conferma fatti e documenti “nuovi” rispetto alla prima delibera annullata per il vizio infraprocedimentale, il Consiglio di Stato ha sottolineato che, poichè in sede di rieffusione del potere l’amministrazione non solo può, ma deve indagare l’esistenza di “elementi di fatto, documentali, etc. relativi al medesimo affare e valutabili”, il Consiglio superiore aveva l’obbligo di rivalutare tutto il materiale cognitivo, ed anche quello non valutato in precedenza.

Su questa base, il Consiglio di Stato ha evidenziato che il Consiglio superiore ha: (a) rivalutato i pareri negativi espressi dai Consigli giudiziari di Firenze e di Salerno e dai Presidenti dei rispettivi Tribunali; (b) dato atto che lo S. fu sottoposto a ben tre procedimenti disciplinari seppure conclusi con tre archiviazioni; (c) valutato in chiave di non conferma fattispecie che erano rimaste, in passato, prive di sanzione disciplinare.

Secondo il giudice amministrato d’appello, non era precluso al Consiglio superiore rivalutare – in chiave diversa da quella disciplinare – le risultanze dei procedimenti disciplinari nei confronti dello S. pendenti al momento dello spirare del primo quadriennio dell’incarico dal medesimo ricoperto ed estinti per improcedibilità.

Il Consiglio di Stato ha quindi rilevato che l’idoneità allo svolgimento delle funzioni di giudice di pace è frutto di un composito quadro di requisiti che devono tutti coesistere, specificamente volti a garantire che l’incarico sia assolto degnamente sotto i profili dell’indipendenza, dell’equilibrio e del prestigio acquisito, nonchè per esperienza giuridica e culturale. Il disegno del legislatore è stato quello di imporre che il procedimento di conferma accerti la presenza dei medesimi requisiti richiesti per la nomina, atteso che la L. 21 novembre 1991, n. 374, art. 17, comma 1-bis, esclude, ai fini della conferma, solo il requisito del limite di età, mentre l’art. 7, comma 2-bis, nel fare riferimento alla valutazione di idoneità del giudice di pace a svolgere le funzioni per il successivo quadriennio sulla base della verifica della sussistenza dei predetti requisiti, presuppone necessariamente una valutazione qualitativa del lavoro svolto. Secondo il Consiglio di Stato, la valutazione demandata in materia al Consiglio superiore configura un giudizio di merito connotato da ampia discrezionalità amministrativa, al pari di quella relativa alla prima nomina, e come tale appare sindacabile sotto il solo profilo della congruità e ragionevolezza della motivazione, spettando esclusivamente all’Organo di governo autonomo valutare nel caso concreto se determinati fatti o accadimenti incidano o meno sulle capacità del giudice onorario.

Muovendo da tale premessa, il Consiglio di Stato per un verso ha ritenuto che non fosse precluso al CSM prendere in esame taluno dei provvedimenti redatti dallo S. e, per l’altro verso, ha considerato non abnorme o irragionevole il giudizio incentrato anche sulla “eccentricità” di talune decisioni giudiziali rese dall’appellante (avuto riguardo, in particolare, a quella con la quale venne istituita una specie di “camera arbitrale” per una causa condominiale).

Del pari non abnorme o irragionevole è apparsa al Consiglio di Stato la circostanza che il Consiglio superiore abbia tratto un elemento di valutazione in chiave negativa dal fatto che più volte, in passato, in sedi giudiziarie differenti ove si era trovato ad operare, lo S. fosse entrato in urto con gli avvocati del Foro, essendo rimaste prive di conferma le congetture dell’appellante secondo cui tale stato di conflittualità (insorto in più sedi giudiziarie, tra esse lontane) sarebbe stato ascrivibile unicamente alla propria condotta, rispettosa delle regole e rigida.

4. – Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato lo S. ha proposto ricorso, con atto notificato il 24 aprile 2017, sulla base di due motivi.

Il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia hanno resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato due memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (sulla violazione dell’art. 362 c.p.c.; sullo stravolgimento degli artt. 111 Cost., art. 101 cod. proc. amm. e artt. 6 e 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; sull’omesso esame dell’appello per ritenuta estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali del giudice amministrativo) il ricorrente si duole che la sentenza del Consiglio di Stato sia stata emessa stravolgendo le norme di rito e incorrendo in denegata giustizia. Sarebbe mancato da parte del giudice amministrativo di secondo grado ogni sindacato relativo alla Delib. impugnata in relazione al vizio denunciato di eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti. Si sottolinea che la sentenza di primo grado era stata impugnata là dove la stessa aveva ritenuto che la delibera del CSM non incorresse nell’eccesso di potere e che comunque fosse logica e motivata in relazione all’eccessivo ricorso a consulenze tecniche d’ufficio nei giudizi a tal punto da aggravare il servizio giustizia e il rapporto di questa con i cittadini, e che l’appellante aveva riportato per intero le attività di indagine svolte dalla polizia giudiziaria, da cui si desumeva, oggettivamente, che il ricorrente non aveva aggravato in nessun modo il servizio giustizia. Di fronte a tale censura – sostiene il ricorrente – il Consiglio di Stato non avrebbe svolto alcun riesame, limitandosi a valutazioni generiche che non riscontravano in nessun punto della sentenza le censure sollevate e soffermandosi unicamente sulla ragionevolezza della delibera impugnata e sull’asserito potere dell’organismo deliberante di assumere la decisione sulla base delle informazioni assunte. Il Consiglio di Stato avrebbe dovuto invece valutare se la motivazione della sentenza del TAR fosse corretta alla luce dei motivi di gravame proposti, giacchè compito del giudice di appello è quello di valutare i motivi di gravame e non certo di rivisitare l’atto impugnato nella parte in cui, tra l’altro, nessuna delle parti ha proposto censure. Nel caso di specie non ci si troverebbe di fronte ad un mero errore in procedendo o in iudicando, in quanto il Consiglio di Stato non ha esaminato l’appello, non ha rivisitato la sentenza di primo grado e non ha sindacato la delibera attraverso il parametro dell’eccesso di potere, ritenendola apoditticamente ragionevole e congrua sul rilievo che spetterebbe esclusivamente all’Organo di governo autonomo valutare nel caso concreto se determinati fatti o accadimenti incidano o meno sulle capacità del giudice onorario. Il giudice amministrativo d’appello non avrebbe esercitato la sua funzione giurisdizionale sull’erroneo presupposto che le censure sollevate dall’appellante fossero estranee alle attribuzioni giurisdizionali del giudice amministrativo.

Il secondo mezzo (sulla violazione dell’art. 362 c.p.c. per avere la sentenza impugnata operato una valutazione di merito e non di legittimità) lamenta che il Consiglio di Stato sia nella sostanza entrato nel merito dell’atto amministrativo, sia pure solo per confermarne il deliberato, violando la discrezionalità che appartiene all’amministrazione. Il giudice che esercita il sindacato di legittimità sostiene il ricorrente – avrebbe dovuto esaminare se la documentazione acquisita potesse essere ritenuta idonea a giustificare un determinato convincimento oppure se la stessa fosse stata interpretata in maniera illogica, con insufficiente motivazione o addirittura attraverso un travisamento dei fatti. Tale indagine sarebbe mancata, avendo il giudice di appello ritenuto congrua e ragionevole la delibera impugnata senza esercitare il sindacato di legittimità.

2. – I motivi – che possono essere esaminati congiuntamente, stante la stretta connessione – sono inammissibili.

2.1. – In base a quanto disposto dall’art. 362 c.p.c. e dall’art. 110cod. proc. amm. nonchè dall’art. 111 Cost., comma 8, avverso le decisioni del Consiglio di Stato il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

Nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite si è chiarito che il previsto rimedio è esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale – ad esempio esercitando la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negando la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale -, ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione. Il giudice amministrativo incorre in tale ultima violazione allorchè si pronunci su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, oppure qualora neghi la propria giurisdizione nell’erroneo convincimento che essa appartenga ad altro giudice, ovvero ancora quando, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato di legittimità degli atti amministrativi, compia un sindacato di merito invadendo arbitrariamente, tramite l’esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, il campo dell’attività riservato alla P.A. (Cass., Sez. U., 23 luglio 2015, n. 15476; Cass., Sez. U., 29 dicembre 2017, n. 31226; Cass., Sez. U., 30 marzo 2018, n. 8047).

2.2. – Ora, il ricorrente lamenta, in primo luogo, un omesso esame dell’appello, sul rilievo che il Consiglio di Stato avrebbe mancato di esercitare il richiesto sindacato sulla delibera impugnata in relazione all’eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti, limitandosi ad una valutazione apodittica di ragionevolezza e congruità della delibera medesima.

Il ricorrente non denuncia nella sua stessa prospettazione un vizio relativo al riparto della giurisdizione. La pretesa violazione della giurisdizione viene argomentata con l’assunto che il giudice amministrativo non avrebbe “esaminato la sentenza di primo grado e le censure sollevate avverso la stessa, pur avendo il ricorrente proposto appello documentalmente fondato”.

Va rilevato che il giudice amministrativo d’appello non ha affermato l’estraneità alla propria giurisdizione del sindacato di legittimità sulla delibera del Consiglio superiore della magistratura di diniego al rinnovo dell’incarico di giudice di pace, ma ha escluso, nello specifico e in concreto, la sussistenza dei denunciati vizi di eccesso di potere: rilevando, in particolare, che non è abnorme o irragionevole che elementi di valutazione in chiave negativa siano stati tratti dall’Organo di governo autonomo dalla “eccentricità” di talune decisioni giudiziali rese dallo S. (come avvenuto in un caso nel quale lo stesso aveva istituito una specie di “camera arbitrale” per una causa condominiale) nonchè dal clima di conflittualità instaurato con il Foro nelle diverse sedi (Firenze e Salerno) in cui il giudice onorario si è trovato ad operare.

L’errore in cui sia eventualmente incorso il Consiglio di Stato nel rigettare l’appello e nel valutare l’infondatezza della richiesta di tutela non si lascia inquadrare in una questione di giurisdizione. Il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice amministrativo d’appello, che provveda perchè investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, non riscontri, per supposta “grave omissione”, le doglianze formulate, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un error in procedendo o in iudicando (Cass., Sez. U., 6 febbraio 2018, n. 2802).

Infatti, in materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice speciale, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta falere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorchè essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice, atteso che, ove tale affermazione fosse, invece, accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorrerebbe un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111 Cost., u.c., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata (Cass., Sez. U., 6 giugno 2017, n. 13976; Cass., Sez. U., 27 giugno 2018, n. 16973; Cass., Sez. U., 30 luglio 2018, n. 20168).

2.3. – Quanto al lamentato eccesso di potere giurisdizionale per usurpazione della funzione amministrativa, esso si realizza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Cass., Sez. U., 22 dicembre 2003, n. 19664; Cass., Sez. U., 21 dicembre 2005, n. 28263; Cass., Sez. U., 28 aprile 2011, n. 9443; Cass., Sez. U., 6 giugno 2018, n. 14648; Cass., Sez. U., 11 luglio 2018, n. 18240), quando il giudice amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, riservata alla pubblica amministrazione, compia una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione, così esercitando una giurisdizione di merito in situazioni che avrebbe potuto dare ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità.

Nulla di tutto questo è avvenuto nella specie. Il Consiglio di Stato si è ben guardato dall’operare direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera impugnata o dal sovrapporsi all’esercizio della discrezionalità del Consiglio superiore della magistratura, affermando, anzi, espressamente, la non ammissibilità nella sede giurisdizionale di legittimità di “valutazioni che si spingano sino a penetranti giudizi di merito” o che “vaglino profili quali l’opportunità o la convenienza delle deliberazioni del CSM”. Lungi dal sostituire la propria valutazione a quella dell’amministrazione, il giudice amministrativo si è mantenuto entro una valutazione di congruità e logicità del modo in cui l’Organo di governo autonomo della magistratura, in sede di riedizione del potere, è pervenuto all’adozione della delibera impugnata dal ricorrente.

3. – Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

4. – Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 5.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2018

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