Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22437 del 27/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 27/10/2011, (ud. 22/09/2011, dep. 27/10/2011), n.22437

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Z.A., N.A., elettivamente domiciliati

in ROMA, CORSO D’ITALIA 102, presso lo studio dell’avvocato MOSCA

GIOVANNI PASQUALE, che li rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende, ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 786/20Q9 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 03/06/2009 R.G.N. 659/07+1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato FERRETTI ANNA MARIA per delega MOSCA GIOVANNI

PASQUALE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 29.5.-3.6.09 la Corte d’Appello di Firenze, previa riunione dei relativi giudizi, rigettava il gravame interposto da Z.A. e N.A. (direttori tributari appartenenti alla 3^ Area fascia retributiva F4, ex 9^ qualifica funzionale, ex area C, posizione economica C3) contro due separate sentenze del Tribunale di Firenze che ne avevano respinto la domanda, avanzata nei confronti della Agenzia delle Entrate, intesa ad ottenere l’equiparazione stipendiale al personale del soppresso ruolo generale ad esaurimento di ispettore generale o, in subordine, di direttore di divisione, con pagamento delle già maturate differenze retributive.

Statuiva la Corte territoriale che il principio di parità di trattamento di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 vietava trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituiva parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede, anche perchè la distinzione in termini stipendiali fra detto personale ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9^ qualifica funzionale, tutti ormai inseriti – come lo Z. e il N. – nell’area contrattuale “C” dai CCNL 12.2.99 e 12.6.03, lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituiva, anzi, attuazione dello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù del quale il personale dei ruoli soppressi conservava ad personam le relative qualifiche.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono lo Z. e il N. affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Lo Z. e il N. hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1.- Con il primo articolato motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 45 e 69 del D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20 nonchè degli artt. 13 CCNL Comparto Ministeri 1998/2001 e 17 CCNL Agenzie Fiscali 2002/2005, laddove l’impugnata sentenza ha escluso che il divieto di trattamenti discriminatori sia rivolto anche alla contrattazione collettiva.

1.2. – il motivo è infondato.

Come esattamente notato dalla gravata pronuncia, la distinzione in termini stipendiali fra il personale appartenente a ruolo ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9^ qualifica funzionale, tutti ormai inseriti – come lo Z. e il N. – nell’area contrattuale “C” dai CCNL 12.2.99 e 12.6.03, lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituisce, anzi, attuazione della norma transitoria contenuta el D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale il personale delle qualifiche ad esaurimento di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, artt. 60 e 61 (e successive modificazioni ed integrazioni) e quello di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15 i cui ruoli sono contestualmente soppressi a far data dal 21.2.93, conserva le qualifiche medesime “ad personam”: ciò significa che tali qualifiche costituiscono una consapevole eccezione legislativa rispetto all’assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso testo (il D.Lgs. n. 165 del 2001) cui appartiene la norma (art. 45) che i ricorrenti assumono essere stata violata o falsamente applicata.

Dunque, la doverosa interpretazione sistematica impedisce l’invocata estensione del trattamento stipendiale corrispondente a tali qualifiche sopravvissute “ad personam”, pena lo svuotamento dello stesso portato precettivo della summenzionata previsione transitoria, in un capovolgimento del normale rapporto tra norme transitorie e disposizioni a regime che comporterebbe un sostanziale (e inedito) allineamento (in termini di conseguenze sul piano retributivo) delle seconde alle prime.

Sotto ulteriore angolazione visuale, va ricordato che questa S.C. ha già avuto modo di statuire più volte (cfr. Cass. Sez. Lav. 18.6.08 n. 16504; Cass. Sez. Lav. 19.6.08 n. 16676; Cass. Sez. Lav. 10.3.09 n. 5726; Cass. Sez. Lav. 12.3.09 n. 6027; Cass. Sez. Lav. 27.5.09 n. 12336), con orientamento cui va data continuità, che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv. non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva.

In altre parole, il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede.

A fortiori non sarebbe ipotizzabile nel caso di specie un contrasto della pattuizione collettiva con il (meno esteso) principio di non discriminazione, inidoneo a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo solo le specifiche previsioni normative contenute nell’ordinamento.

Nel corso degli anni non ne sono mancati esempi, come avvenuto con gli artt. 15 e 16 Stat. Lav., la L. n. 604 del 1966, art. 4 la L. n. 903 del 1977, artt. 1 e 3 la L. n. 125 del 1991, art. 4 (poi modificato dal D.Lgs. n. 196 del 2000, art. 8 ed ora trasfuso negli artt. 36 e ss. del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, vale a dire nel D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198), i D.Lgs. nn. 215 e 216 del 2003 che hanno dato attuazione alle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10.12.48), le Convenzioni O.I.L. nn. 111 e 117 (ratificate, rispettivamente, con L. 6 febbraio 1963, n. 405 e con L. 13 luglio 1966, n. 657), l’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (ratificato con legge 25.10.77 n. 881), il patto di New York 16-19.12.66, l’art. 69 del Trattato istitutivo della CECA, reso esecutivo in Italia con L. 25 giugno 1952, n. 766, l’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE del 25.3.57, reso esecutivo con L. 14 ottobre 1957, n. 1203, la Carta sociale europea, approvata il 18.6.61 e resa esecutiva con L. 3 luglio 1965, n. 929.

Nè il principio di parità nei termini invocati in ricorso potrebbe essere affermato sulla base di Corte cost. n. 103/1989 (mera sentenza interpretativa di rigetto), che all’autonomia organizzativa non illimitata del datore di lavoro contrappone proprio il potere di classificazione professionale dei lavoratori demandato ai contratti collettivi, secondo scelte non sindacabili dal giudice, mancando il parametro di giudizio cui rapportare siffatta verifica.

Alle argomentazioni esposte nei summenzionati arresti di questa S.C. possono aggiungersi – sempre a conferma della insindacabilità, da parte del giudice, di clausole del contratto collettivo cui si imputi una violazione del principio di parità di trattamento contenuto nell’art. 45 cpv. cit. – ulteriori riflessioni sulla scia dell’esperienza maturata a seguito di Cass. S.U. 17.5.96 n. 4570 (e successive conformi) e della stessa cit. Corte cost. n. 103/89 (pur entrambe relative al lavoro alle dipendenze di privati e non di pubbliche amministrazioni).

Orbene, pur a voler leggere nel modo più ampio possibile il principio di parità, se esso deriva (come affermato dalla cit.

sentenza della Corte cost., che – com’è noto, ipotizzava anche interventi demolitori da parte del giudice sui contratti collettivi) dall’applicazione dell’art. 41 cpv. Cost., discende, come corollario, che è pregiudicata la pari dignità lavorativa se un dato trattamento economico deriva da autonome scelte imprenditoriali che siano espressione di quella libertà di iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. vieta possa svolgersi in contrasto con la dignità e la sicurezza umana.

E allora, quando la disparità trova titolo non nelle scelte in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro (sia esso pubblico o privato), ma nelle pattuizioni dell’autonomia collettiva e in queste non si riscontrano finalità illecite, bensì mere valutazioni comparative, non ricorre più il conflitto del lavoratore con l’altrui iniziativa economica (che era alla base della motivazione della cit. sent. n. 103/89 della Corte cost.), ma, semmai, con l’autonomia negoziale delle parti collettive.

Attraverso quest’ultima si esprime un bisogno di solidarietà che impone il ricorso a discipline che coinvolgano vaste categorie cui assicurare più vantaggiose condizioni contrattuali (non solo in campo lavorativo), solidarietà che, in nome del sostegno alle fasce marginali del gruppo rappresentato, ridistribuisce in maniera meno differenziata risorse e/o sacrifici, tenendo conto anche delle compatibilità economico/finanziarie del momento.

Al contrario, la parità di trattamento – al di là delle apparenze – proprio perchè postula uguale trattamento ad uguali fattispecie e, per converso, differente trattamento per fattispecie diverse (unicuique suum), invece di “compattare” gli interessi dei rappresentati (come tende a fare, per lo più ed entro certi limiti, la contrattazione collettiva), finisce con articolarli in una gamma indefinita di distinguo, in proporzione diretta rispetto alla molteplicità delle situazioni.

In altre parole, il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall’esigenza di recuperare uguaglianza (nell’accezione non solidaristica sopra evidenziata) o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l’uso d’un potere privato all’interno d’una comunità organizzata.

Questo bisogno si manifesta – cioè – per colmare il vuoto di “contraddittorio” ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente.

Ma ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato.

Da ultimo, si tenga presente che la sede giurisdizionale non è certo la più adatta ad incidere su discrasie che magari trovano la propria ragion d’essere nella storia delle relazioni sindacali in un dato settore merceologico o in un determinato comparto pubblico: ad es., clausole che prevedano forme di disparità potrebbero essere state convenute per sanare – a loro volta – disparità anteriori, oppure per salvaguardare livelli retributivi di personale assorbito a seguito di operazioni di mobilità interaziendale o, ancora, di lavoratori appartenente a ruoli ad esaurimento, come nel caso in oggetto. In siffatte evenienze il giudice dovrebbe procedere a un’anamnesi delle relazioni sindacali e delle vicende aziendali o di comparto pubblico tanto elaborata e a vasto raggio da essere difficilmente compatibile con i margini dell’accertamento giudiziario, troppo angusti a cagione dei paletti imposti da petitum e causa petendi.

2.1. – Con il secondo motivo di censura i ricorrenti lamentano omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui l’impugnata sentenza asserisce che prima della soppressione del ruolo ad esaurimento il relativo personale era destinatario di una disciplina differenziata e che tale legittima differenziazione è consentita dal D.Lgs. n. 165 de 2001, art. 69 nonchè laddove la Corte territoriale considera che la disparità in questione costituisce il precipitato del potere, demandato proprio alla contrattazione collettiva, di classificare il personale: alla prima affermazione i ricorrenti obiettano che un’eventuale differenziazione retributiva deve basarsi su ragionevoli motivi di tipo professionale e lavorativo; alla seconda replicano che, una volta stabilite classi omogenee di personale, non è più consentito differenziarne il trattamento economico.

2.2. – Il motivo è inammissibile perchè, in sostanza, non fa altro che insistere, sotto altri profili, nelle argomentazioni di diritto poste a base della prima articolata doglianza, non denunciando un reale vizio di motivazione da farsi valere ex art. 360 c.p.c., n. 5, noto essendo che il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata ex art. 384 c.p.c., u.c. senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta e il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

3.1. – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in Euro 30,00 e degli onorari liquidati in Euro 2.000,00 (Euro duemila/00) oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2011

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