Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22436 del 27/10/2011

Cassazione civile sez. II, 27/10/2011, (ud. 13/10/2011, dep. 27/10/2011), n.22436

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.I., rappresentata e difesa, in virtù di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Fano Claudio, elettivamente

domiciliata nel suo studio in Roma, piazza San Lorenzo in Lucina, n.

4;

– ricorrente –

contro

C.F., C.C. e C.A., rappresentati e

difesi, in forza di procura speciale a margine del controricorso,

dall’Avv. Liberatore Roberto, elettivamente domiciliati nel suo

studio in Roma, via Muggia, n. 21;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 3078 dell’8

luglio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 13

ottobre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

uditi, gli Avv. Enrico del Prato e Sintona Rendina, entrambi per

delega;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che il Tribunale di Roma, con sentenza in data 18 maggio 2004, dichiarata l’inefficacia dell’ordinanza cautelare ante causasi ex art. 700 cod. proc. civ., in accoglimento della domanda degli attori F., A. e C.C. condannò la convenuta M.I. a rimuovere la siepe di alloro posta a confine degli immobili degli attori senza il rispetto della distanza di un metro indicata dall’art. 892 c.c., comma 2, mentre respinse le domande di risarcimento del danno e condannò la convenuta a rimborsare agli attori le spese di c.t.u. e a pagare le spese di lite;

che con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria l’8 luglio 2005, la Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame principale della M. e quello incidentale dei C., ponendo a carico della prima il 70% delle spese del grado;

che per quanto qui ancora rileva, la Corte territoriale ha escluso il vizio di extrapetizione, rilevando che con la citazione in riassunzione gli attori avevano inteso reiterare le domande avanzate con la prima citazione, nelle cui conclusioni era formulata espressamente la domanda di estirpazione della siepe; ha ritenuto non provata l’invocata usucapione; ha respinto il motivo di impugnazione sulle spese stante la del tutto prevalente soccombenza in primo grado della M. e la marginalità delle domande disattese;

che per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la M. ha proposto ricorso, con atto notificato il 16 giugno 2006, sulla base di sei motivi;

che gli intimati hanno resistito con controricorso;

che in prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Considerato che con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 347 c.p.c., u.c., e art. 123 bis disp. att. cod. proc. civ., lamentando che i giudici dell’appello abbiano deciso la controversia in mancanza del fascicolo d’ufficio del primo grado, non risultato pervenuto alla cancelleria della Corte territoriale;

che il motivo è infondato, giacchè l’acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 cod. proc. civ., è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice dell’impugnazione, sicchè l’omessa acquisizione, cui non consegue un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili allunale e specificamente indicati dalla parte interessata (Cass., Sez. 3, 29 marzo 2006, n. 7237; Cass., Sez. 3, 19 gennaio 2010, n. 688);

che con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e insufficiente motivazione) – premesso che i C. hanno notificato (il 12 maggio 1997) un primo atto di citazione, omettendo di iscriverlo a ruolo, e notificato (in data 2 giugno 1997) un atto di citazione in riassunzione nel quale hanno tuttavia omesso di reiterare la domanda di condanna della M. all’estirpazione della siepe – si sostiene che la citazione in riassunzione sarebbe di per se inidonea alla automatica reiterazione delle domande proposte nell’atto precedentemente notificato, se non espressamente riproposte, e che la riproposizione, nel secondo atto, delle doglianze originariamente proposte, con omissione della domanda di condanna alla estirpazione, integrerebbe una rinuncia tacita alla domanda non espressamente riproposta;

che con il terzo mezzo si lamenta, per la medesima ragione esposta con la prospettazione del secondo motivo, violazione e falsa applicazione dell’art. 101 cod. proc. civ. e art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

che entrambi i motivi – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente -sono privi di fondamento;

che l’atto di riassunzione del processo non introduce un nuovo procedimento, ma esplica esclusivamente la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che detto atto non deve necessariamente riproporre tutte le pretese in precedenza avanzate dalla parte, dovendosi presumere, in difetto di elementi contrari, che le stesse siano mantenute ferme, ancorchè non trascritte (Cass., Sez. Un., 10 ottobre 1992, n. 11065; Cass., Sez. 2, 20 aprile 2001, n. 5892);

che poichè nella specie l’atto di riassunzione, avvenuto nel caso dell’art. 307 c.p.c., comma 1, richiama l’atto di citazione introdottivo ed indica la data della notificazione della citazione stessa non seguita dalla costituzione delle parti, correttamente la Corte d’appello ha ritenuto che la domanda di estirpazione della siepe, ancorchè non trascritta nell’atto di riassunzione, dovesse ritenersi mantenuta ferma, tanto più alla luce dell’espresso riferimento, nel corpo del medesimo atto di ripresa del processo, alla denuncia della violazione delle distanze legali dal confine fissate dall’art. 892 cod. civ., in considerazione della conformazione e dell’altezza della siepe;

che con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nonchè degli artt. 1062, 1146 e 1158 cod. civ., oltre che dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5) ci si duole che la Corte d’appello, pur avendo accertato che le testimonianze esperite in primo grado avevano dimostrato che la siepe si trovava in loco sin dall’acquisto dell’abitazione da parte della ricorrente, abbia completamente omesso di prendere in considerazione quanto dedotto dalla M. in ordine all’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia;

che il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza;

che infatti la sentenza impugnata da conto che con il secondo motivo di gravame le deposizioni testimoniali sono state invocate “per accreditare la tesi dell’usucapione della servitù di posizionamento della siepe”;

che poichè dal testo della sentenza impugnata non risulta che 1’appello della M. vertesse anche sull’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia, era onere della ricorrente trascrivere il tenore del pertinente motivo dell’atto di gravame, per dar modo a questa Corte di verificare, dal tenore stesso dell’atto di ricorso, la sussistenza del lamentato vizio di omessa pronuncia e di insufficiente e contraddittoria motivazione;

che il quinto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) lamenta che la sentenza impugnata abbia giudicato tardiva, ex art. 345 cod. proc. civ., l’eccezione relativa all’esistenza, lungo la linea di confine, di un muro divisorio, perchè sollevata per la prima volta in grado di appello, laddove la relativa circostanza era già emersa nel corso dell’istruttoria svolta in primo grado;

che il motivo è inammissibile, perchè non muove alcuna censura in ordine alla seconda ed automa ratio decidendi che sorregge, sul punto, la decisione impugnata, vale a dire il fatto che “la siepe eccede di gran lunga la altezza del muro cosi come indicata dalla stessa appellante”;

che con il sesto motivo (violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) si censura che siano state poste a carico della M. anche le spese di c.t.u., quando questa fu esperita soltanto nel giudizio ex art. 1172 cod. civ. e art. 688 cod. proc. civ., definito con il rigetto del ricorso avversario e la condanna dei ricorrenti al rimborso delle spese della consulenza;

che il motivo è infondato;

che con riguardo al procedimento per denunzia di danno temuto, ancorchè ai fini dell’attribuzione delle spese di consulenza sostenute nella fase cautelare possa venire in rilievo la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per la proponibilità della denuncia, rientra tuttavia nel potere discrezionale del giudice del successivo giudizio di merito, in considerazione dell’esito finale della lite favorevole al denunciante, porre le spese del giudizio, comprese quelle di c.t.u. affrontate della fase cautelare, a carico del convenuto (Cass., Sez. 2, 6 dicembre 1988, n. 6627);

che questo è quanto è avvenuto nel caso di specie, in cui il Tribunale, nel corso del giudizio di merito, ha condannato la convenuta a rimborsare alle controparti le spese della c.t.u.

esperita nel giudizio cautelare;

che non rileva che il giudizio di merito sia stato preceduto, oltre che dal procedimento nunciatorio nel quale fu esperita la consulenza, anche da un successivo procedimento ex art. 700 cod. proc. civ.;

che pertanto, il ricorso deve essere rigettato;

che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 1.200, di cui Euro 1.000 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 13 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2011

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