Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22435 del 16/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 16/10/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 16/10/2020), n.22435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18330-2019 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

LUIGI NATALE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS) COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO, in persona

del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 27/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. UMBERTO

LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA e RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte:

rilevato che:

con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, depositato il 3/9/2018, C.L., cittadino del Gambia, ha adito il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria;

il ricorrente, proveniente da Brikama in Gambia, di etnia mandinga e religione musulmana, aveva riferito di aver lavorato come carpentiere e agricoltore per otto anni; di aver perso i fratelli e di avere ancora i genitori; di essere stato costretto a lasciare il proprio Paese in seguito ad un incendio da lui provocato, dando fuoco alle erbacce in presenza di un forte vento, in cui una bambina era rimasta gravemente ustionata e varie case nei dintorni avevano preso fuoco; che era stato incarcerato per quattro giorni e la sua casa era stata presa in cauzione per liberarlo; di essere quindi scappato in Senegal il 19/4/2014, raggiungendo infine l’Italia, dopo varie peregrinazioni, il 31/7/2016; di temere, in caso di rimpatrio, le leggi e il sistema giudiziario gambiano;

con decreto del 27/4/2019, comunicato il 9/5/2019, il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria;

avverso il predetto decreto ha proposto ricorso C.L., con atto notificato il 7/6/2019, svolgendo tre motivi e l’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita tardivamente con memoria il 31/7/2019 al solo fine di partecipare ad eventuale discussione orale;

è stata proposta di trattazione in camera di consiglio non partecipata, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

ritenuto che:

con il primo motivo, proposto e x art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 27, comma 1 bis, nonchè motivazione apparente e perplessa, in ordine alla valutazione negativa espressa dal Tribunale circa la credibilità del racconto, non formulata nel rispetto della procedimentalizzazione prevista dalla legge, sulla base di soggettivistiche opinioni del giudice di merito senza rispetto del principio di onere probatorio attenuato e del dovere di cooperazione istruttoria, non escluso neppure in caso di non credibilità soggettiva del richiedente asilo e ritenendo erroneamente non credibili i documenti prodotti dal ricorrente;

il motivo appare del tutto generico e riversato nel merito;

certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez.6, 25/07/2018, n. 19716);

il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n. 5224);

il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati;

il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202);

beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007; invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016);

inoltre questa Corte ha ritenuto che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01).

al riguardo il Tribunale, alla pagina 4 del provvedimento impugnato con motivazione che soddisfa ampiamente lo standard del c.d. “minimo costituzionale” ha chiarito le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente erano state ritenute inattendibili (specifiche incoerenze interne e contraddizioni del racconto del richiedente; versioni diverse circa il salvataggio o la morte della bambina coinvolta nell’incendio; incongruenze temporali; mancanza di genuinità del documento prodotto attribuito alla polizia gambiana; ulteriori contraddizioni fra i fatti riferiti nei documenti prodotti e la versione del richiedente asilo, con particolare riferimento alla famiglia e alla bambina coinvolti nell’incendio; carenze e incongruenze del racconto circa la vita nei campi; contraddizioni circa l’esistenza o meno di un processo in corso);

con il secondo motivo, inerente la protezione sussidiaria, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), e art. 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per aver il Tribunale omesso di procedere alla debita indagine istruttoria officiosa circa la situazione socio politica del Paese di origine, con riferimento alla violazione dei diritti umani e al conflitto armato interno ivi sussistente;

il motivo è totalmente riversato nel merito e richiede alla Corte una valutazione della situazione difforme da quella ricostruita dal Tribunale, che ha debitamente adempiuto al proprio dovere di cooperazione istruttoria sotto tutti i profili rilevanti, citando le fonti internazionali consultate e utilizzate;

con il terzo motivo, attinente la protezione umanitaria, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, perchè il Tribunale non aveva indicato in maniera specifica ed esaustiva le ragioni del rigetto della richiesta protezione umanitaria, facendo discendere il rigetto e dalla mancanza dei presupposti della protezione internazionale, mentre sussistevano sotto vari profili condizioni di particolare vulnerabilità del richiedente asilo;

anche il terzo motivo appare inammissibile perchè esprime una mera critica di merito rispetto alla motivata valutazione del Tribunale, condotta secondo i parametri fissati dalla giurisprudenza di legittimità;

secondo la sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, adesiva al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, al fine di valutare la sussistenza di situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili;

il livello di integrazione dello straniero in Italia e il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo non integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza;

il Tribunale, puntualmente allineato a tale orientamento giurisprudenziale avallato dalle Sezioni Unite, ha escluso sia la sussistenza di una condizione di specifica e personale vulnerabilità soggettiva del richiedente, anche in considerazione dei suoi legami familiari in patria e della dimostrata capacità di svolgimento in passato di attività lavorative, sia la dimostrazione da parte sua di un significativo percorso di integrazione sociale e lavorativa in Italia, diverso dal mero e irrilevante svolgimento di attività formative in regime di accoglienza;

ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile;

non vi è da provvedere sulle spese in difetto di rituale e tempestiva costituzione dell’Amministrazione, limitatasi al deposito di una memoria al solo fine di prender eventualmente parte alla discussione orale.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020

 

 

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