Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2241 del 02/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/02/2021, (ud. 20/11/2020, dep. 02/02/2021), n.2241

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2528/2012 R.G. proposto da:

S.G., rappresentato e difeso, per procura speciale,

dall’Avv. Isabella de Bari, presso il cui studio, sito in Molfetta,

via Cifanello, n. 3, ha eletto domicilio, domiciliato in Roma,

Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Puglia n. 41/06/11, depositata il 27 maggio 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 novembre

2020 dal Consigliere Michele Cataldi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. In data (OMISSIS), Z.A.C.F., madre dell’odierno ricorrente, con atto notarile ha stipulato, congiuntamente al marito S.M., un contratto di permuta, con il quale ha trasferito ad un terzo imprenditore la proprietà di un terreno edificabile e di alcuni fabbricati, in parte di proprietà comune ai coniugi ed in parte di proprietà esclusiva, su di esso insistenti, verso la cessione di alcuni degli immobili che l’impresa avrebbe costruito sull’area cedutale.

Il contratto di permuta era sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio all’impresa, da parte del Comune di (OMISSIS), della concessione edilizia nel termine perentorio di 9 anni dalla stipula del contratto. L’accordo prevedeva che, a titolo di parziale corrispettivo del trasferimento dei beni in permuta, ed in aggiunta alle unità immobiliari a costruirsi, l’impresa dovesse corrispondere ai cedenti la somma complessiva di Euro 154.937,07 (Euro 51.645,69 alla stipula del contratto preliminare di permuta del 19 novembre 2001 ed Euro 103.291,38 in due rate di pari importo, scadenti rispettivamente entro trenta e sessanta giorni dalla stipula del contratto definitivo del 14 gennaio 2002). Tale importo totale, ai sensi della clausola n. 3 del contratto, sarebbe stato comunque trattenuto dai cedenti anche nel caso di mancato avveramento della condizione di efficacia della permuta, in tal caso venendo imputato nella sua totalità ad indennizzo, a favore di questi ultimi, del mancato utilizzo degli immobili di loro proprietà nella pendenza del termine sospensivo convenuto.

1.1. Tanto premesso, l’Agenzia delle Entrate ha notificato nel 2008 a S.G. ed a S.C.M., eredi di Z.A.C.F., nel frattempo defunta, un avviso di accertamento, avente ad oggetto la rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dalla de cuius per l’anno d’imposta 2002, a seguito dell’imputazione, a titolo di “reddito diverso”, dell’imponibile costituito dalla quota, di Euro 77.468,00, di sua spettanza del corrispettivo incassato dai cedenti in esecuzione del contratto di permuta in questione. La pretesa dell’Ufficio era infatti fondata sul rilievo che la dante causa, in regime di comunione dei beni con il coniuge, nell’anno 2002 avesse percepito la somma corrispondente alla metà del complessivo parziale corrispettivo della permuta, da imputarsi quale reddito derivante dall’assunzione di obblighi di “fare, non fare o permettere”, ai sensi di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81 (ora art. 67), comma 1, lett. l), e da assoggettarsi pertanto a tassazione ordinaria.

1.2. S.G. e S.C.M., in qualità di coeredi di Z.A.C.F., hanno proposto ricorso avverso l’avviso di accertamento dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Bari, che lo ha accolto parzialmente, qualificando i redditi come plusvalenze disciplinate dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81 (ora art. 67), comma 1, lett. b), da sottoporre a tassazione separata ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16 (ora art. 17), comma 1, lett. g-bis).

I contribuenti hanno allora proposto appello innanzi la Commissione tributaria regionale della Puglia che, con la sentenza n. 41/06/11, depositata il 27 maggio 2011, ha ritenuto errata la qualificazione dell’imponibile come reddito da plusvalenza e lo ha ritenuto un reddito diverso, derivante da corrispettivo per l’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere, ai sensi e per gli effetti di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. l), da assoggettare a tassazione ordinaria. La CTR ha inoltre ridotto quantitativamente il reddito da assoggettare a tassazione, ritenendo che parte dello stesso fosse stato percepito nell’anno d’imposta 2001, e non in quello 2002, oggetto dell’accertamento, cosicchè l’imponibile riconducibile alla dante causa è stato limitato alla minor somma di Euro 51.645,65.

Il contribuente S.G. ha dunque proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, nella parte a sè sfavorevole, affidandolo a quattro motivi.

L’Ufficio si è costituito con controricorso.

Il ricorrente ha prodotto memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il contribuente lamenta l’errata e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. l), per avere il giudice a quo sottoposto a tassazione come “reddito diverso” l’importo percepito dalla sua dante causa come corrispettivo per l’assunzione di obblighi di “fare, non fare o permettere”, laddove esso avrebbe costituito piuttosto un acconto sul corrispettivo pattuito a titolo di permuta, che non avrebbe quindi assunto alcuna valenza reddituale e fiscale sino all’eventuale avverarsi della condizione sospensiva entro il termine convenuto.

2. Con il secondo motivo di ricorso il contribuente lamenta l’insufficienza della motivazione della sentenza della CTR, per avere il Collegio giudicante escluso “a priori l’oggetto contrattuale valutato e vagliato dalle parti con più elevato grado di possibilità di perfezionamento rispetto alla previsione risolutiva subordinata”, e non aver considerato che, qualora la condizione sospensiva si fosse avverata prima della scadenza del termine novennale, l’importo avrebbe potuto essere assoggettato a tassazione in quanto base imponibile per la determinazione delle plusvalenze.

3. Con il terzo motivo di ricorso il contribuente lamenta la violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, perchè l’avviso di accertamento era privo di adeguata motivazione, non essendo in esso indicati gli elementi di diritto e le circostanze idonee a giustificare l’assoggettamento ad Irpef della somma percepita dalla dante causa quale reddito diverso ex art. 81, comma 1, lett. l); e perchè ad esso non era stata allegata la nota del Comune di Molfetta, con la quale quest’ultimo informava l’Ufficio del mancato avveramento della condizione sospensiva.

4. Con il quarto motivo il contribuente lamenta la violazione dell’art. 91 c.p.c., per aver la CTR disposto la compensazione delle spese, nonostante la riforma parziale della sentenza di primo grado.

5. Il primo motivo, da ritenersi formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile.

Invero, il ricorrente, sotto la rubricazione della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, non censura in realtà errori di diritto che il giudice a quo abbia commesso nell’interpretare ed applicare tale disposizione, ma lamenta l’interpretazione che la CTR ha dato del contratto tra la dante causa del contribuente ed il terzo costruttore, ed in particolare delle disposizioni negoziali relative alla condizione sospensiva ed all’adempimento del corrispettivo pecuniario dovuto dal terzo.

Infatti, la qualificazione giuridica del presupposto dell’imposizione, adottata dal giudice d’appello ai fini fiscali, deriva direttamente dall’interpretazione complessiva del titolo negoziale de quo, e dalla conseguente attribuzione al pagamento della somma in questione di una funzione concreta (anche se non immediatamente esplicitata: ” (…) a prescindere da come i contraenti l’hanno voluto definire (…)”, pag. 6 della sentenza) corrispettiva dell’obbligazione gravante sui cedenti, che comportava il mancato utilizzo per nove anni del suolo oggetto della permuta. E del resto, nel corpo del motivo, lo stesso ricorrente, piuttosto che dedurre specificamente sulla norma rubricata, lamenta nella sostanza che il contratto in questione non sia stato diversamente interpretato, attribuendo alle medesime disposizioni negoziali ed alla funzione concreta del corrispettivo imponibile una diversa causa contrattuale.

Tuttavia, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, deve proporre ricorso per violazione delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo anche “l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra.” (Cass. 28/11/2017, n. 28319, conformi, ex plurimis, Cass. 15/11/2013, n. 25728 e Cass. 27/06/2018, n. 16987).

6. Il secondo motivo da ritenersi formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile.

Occorre premettere che a questo giudizio si applica ratione temporis (in relazione alla data di deposito della sentenza impugnata) il seguente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: “5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.”. Ebbene, nel corpo del motivo non solo non viene individuato specificamente alcun fatto storico del quale si lamenti l’insufficiente motivazione di cui alla rubrica, ma neppure viene individuata puntualmente la pretesa insufficienza motiva (che peraltro dovrebbe riferirsi agli aspetti fattuali, e non giuridici, della fattispecie controversa), limitandosi il ricorrente, nella sostanza, a riproporre alcune delle proprie argomentazioni, in diritto ed in fatto, dissonanti da quelle della CTR.

Fermo quanto sinora premesso, ulteriore profilo di inammissibilità, peraltro, deriva dalla circostanza che, nel corpo del motivo, il contribuente deduce che, “nelle more, come si evince dalla documentazione allegata al presente ricorso”, il costo d’acquisto dei terreni sarebbe stato rivalutato, con il versamento delle imposte sostitutive, e che tale rivalutazione “potrebbe determinare al perfezionarsi del contratto di permuta la non imponibilità del negozio giuridico posto in essere dalle parti”. L’indicazione del documento (peraltro neppure puntualmente evidenziato come allegato in calce al ricorso) dal quale dovrebbe ricavarsi la predetta circostanza è tuttavia assolutamente generica, in ordine alla sua individuazione, alla data della sua formazione rispetto ai fatti di causa ed allo svolgimento dei vari gradi processuali, ed alla sua eventuale precedente produzione nei giudizi di merito. Pertanto, in parte qua il motivo neppure assolve l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez.U., 03/11/2011, n. 22726).

7. Il terzo motivo, da ritenersi formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile.

Invero, esso prescinde del tutto dalla decisione impugnata, non tenendo affatto conto che la CTR, nella motivazione, ha espressamente valutato la sufficienza e la validità della motivazione dell’atto impositivo controverso, rispondendo alle relative censure riproposte dall’appellante contribuente.

Non formulando specifiche critiche, tramite i motivi tassativamente previsti dall’art. 360 c.p.c., che attingano la ratio decidendi della sentenza impugnata, ma limitandosi a riproporre le proprie difese di merito, da essa già disattese, il ricorrente viola quindi l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), e lo stesso art. 360 c.p.c..

8. Il quarto motivo, da ritenersi formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile.

Invero, deve applicarsi al presente giudizio, introdotto nel merito dopo il 2 gennaio 2006 e prima del 4 luglio 2009, il testo dell’art. 92 c.p.c., come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), secondo il quale ” Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.”. Rispetto alla precedente versione della stessa norma, la facoltà di compensazione, per “altri giusti motivi”, diversi dalla reciproca soccombenza, era rimasta inalterata dopo tale novella, fatta salva la necessità che la motivazione sul punto fosse esplicita, come avvenuto nel caso di specie, nel quale il giudice a quo ha compensato integralmente le spese del secondo grado di giudizio perchè “La sentenza è basata sull’interpretazione di norme di legge.”.

La sindacabilità, in sede di giudizio di legittimità, agi, tale motivazione sulla ricorrenza dei giusti motivi è stata già affermata, con riferimento al predetto parametro normativo applicabile ratione temporis, da questa Corte: ” In tema di regolamento delle spese di lite, nella vigenza del regime giuridico introdotto con la novella dell’art. 92 c.p.c., recata dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), l’espressa motivazione della compensazione delle spese processuali è sottoposta al sindacato di legittimità in ordine alla verifica dell’idoneità in astratto delle ragioni poste a fondamento della pronuncia. Ne consegue che la radicale incoerenza tra la giustificazione esplicita dei “giusti motivi” posti a base della compensazione, nella specie dovuta alla peculiarità e controvertibilità delle questioni oggetto del contendere, e le ragioni del di rigetto della domanda, derivante da accertato difetto di allegazione e prova costituiscono violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.” (Cass. 31/05/2018, n. 13767). Nel motivo in esame, tuttavia, il ricorrente non ha attinto, per censurarne la coerenza con la decisione nel merito, la citata giustificazione esplicita dei “giusti motivi” posti dalla CTR a base della compensazione, non facendo alcun cenno critico ad essa. Piuttosto, nel corpo del motivo, il ricorrente ha lamentato l'”ingiustizia” della compensazione delle spese dell’appello “nonostante la riforma parziale della sentenza di I grado” (pag. 14 del ricorso). Tale censura, pertanto, non attinge la ratio decidendi espressa sul relativo capo dalla decisione qui impugnata, con conseguente inammissibilità del ricorso.

Ferma restando la rilevata inammissibilità, giova peraltro aggiungere che, anche a voler, in mera ipotesi, prendere in considerazione la diversa ratio decidendi supposta e censurata dal ricorrente, il motivo si rileverebbe comunque infondato, posto che l’evidenziato accoglimento solo parziale dell’appello integra, nel caso di specie, quella parziale soccombenza – nel grado e comunque nella decisione complessiva del merito della lite (cfr. Cass. 13/03/2013, n. 6369; Cass. 24/10/2018, n. 26918) – che, in relazione alla norma applicabile ratione temporis, giustifica, anche senza ulteriore espressa motivazione su “altri giusti motivi”, la compensazione.

9. Le spese di questo giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2021

 

 

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