Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2240 del 30/01/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 30/01/2018, (ud. 08/11/2017, dep.30/01/2018),  n. 2240

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La C.O.I.M. S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione (iscritto al n. 24326/2010 R.G.), con dodici mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate (che ha depositato controricorso), avverso la sentenza n. 122/44/09, depositata il 14 luglio 2009, con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello da essa proposto, ritenendo legittimi gli avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio, sulla base di p.v.c. redatto in data 21/12/2004 dal Nucleo regionale di polizia tributaria della Lombardia, aveva recuperato a tassazione, a fini Irpeg e Irap per gli anni d’imposta 2002 e 2003, componenti negativi e positivi di reddito.

Tra i primi il recupero aveva riguardato in particolare la minusvalenza per ciascuno dei detti anni dedotta in conseguenza della svalutazione della partecipazione nella società estera controllata Coim Deutschland Gmbh, a sua volta discendente dalla fusione per incorporazione in quest’ultima della Novacote International Gmbh, la cui acquisizione costituiva il vero obiettivo strategico della Coim S.p.A.: tale fusione era stata infatti ritenuta dall’Ufficio frutto di operazione elusiva inopponibile ai fini fiscali ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, dal momento che lo stesso obiettivo era perseguibile altrimenti (con la partecipazione diretta in Novacote da parte di Coim o per il tramite di altra società collegata), mentre la fusione non consentiva in concreto alcun vantaggio extrafiscale. L’Ufficio aveva con lo stesso avviso recuperato inoltre le royalties corrisposte da Coim ad altre società del gruppo, ritenendole indeducibili; i rimborsi chilometrici corrisposti dalla medesima ai propri dipendenti per trasferte di lavoro ed altri costi dedotti a titolo di sopravvenienze passive e consulenze rese a suo favore: tutte voci di spesa ritenute dall’Ufficio non inerenti o non documentate.

Tra i secondi (componenti positivi di reddito) l’Ufficio aveva recuperato altresì la differenza tra i prezzi di trasferimento applicati dalla società nei confronti di alcune società controllate e il maggior prezzo calcolato applicando ai beni o servizi trasferiti il valore normale nel mercato di riferimento (transfer pricing).

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

2. La C.O.I.M. S.p.A. ha proposto altro ricorso (iscritto al n. 21001/2011 R.G.), con quattro mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate (che ha depositato controricorso) avverso la sentenza n. 60/44/10, depositata l’8 giugno 2010 con la quale la C.T.R. della Lombardia ha accolto l’appello dell’Ufficio ritenendo legittimo l’avviso di irrogazione sanzioni Iva ad essa notificato per omessa fatturazione e registrazione delle operazioni attive già oggetto di rettifica quanto al prezzo di trasferimento (transfer price) con l’avviso di accertamento di cui sopra.

Anche in tale procedimento la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va disposta, per ragioni di connessione ai sensi dell’art. 274 cod. proc. civ., la riunione al ricorso n. 24326 del 2010 del ricorso n. 21001 del 2011.

Per motivi di priorità logico-giuridica va esaminato per primo il ricorso n. 24326/2010 R.G..

2. Con il primo motivo di ricorso la società deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, commi 4 e 5, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la C.T.R. respinto l’eccezione, proposta nel ricorso introduttivo e reiterata nelle controdeduzioni in appello, di nullità degli avvisi di accertamento per mancata specifica motivazione in ordine alle giustificazioni da essa fornite a confutazione del contestato carattere elusivo dell’operazione, ai sensi del comma 5 della citata disposizione.

Premesso che negli atti impositivi si dà atto che tali chiarimenti sono stati esaminati dall’Ufficio e tuttavia disattesi per non aver essi “portato… a conclusioni differenti da quelle contenute nel p.v.c.”, al quale quindi gli avvisi medesimi fanno integrale rimando, la ricorrente censura la valutazione dei giudici a quibus secondo cui gli avvisi rimangono sotto tale profilo esenti da critica.

Sotto un primo profilo deduce error in iudicando sostenendo che l’obbligo imposto all’Ufficio di fornire una specifica motivazione in merito alle giustificazioni fornite dal contribuente non può risolversi nel mero richiamo alle risultanze della verifica fiscale da cui trae origine la contestazione.

Sotto altro profilo lamenta che “la sentenza impugnata è anche carente di motivazione laddove afferma che ben avrebbe fatto dell’Ufficio a richiamare le conclusioni del p.v.c. in quanto le osservazioni prodotte dalla società nulla avrebbero raggiunto in tema di non elusività dell’operazione”, e ciò in quanto “la sentenza non spiega perchè le numerose osservazioni contenute nella memoria siano state ritenute meramente ripetitive di quelle sollevate durante la verifica e riportate dalla Guardia di Finanza del PVC”.

La prima censura (error in iudicando) è inammissibile.

Essa invero postula un accertamento in fatto (secondo cui l’avviso si è limitato a fare rimando alle risultanze della verifica fiscale senza fornire una specifica motivazione in relazione alle giustificazioni fornite dalla contribuente) diverso da quello ricavabile dalla sentenza impugnata, pure testualmente trascritta, in parte qua, in seno al motivo. I giudici d’appello hanno invero ben diversamente affermato che l’avviso di accertamento “ha sinteticamente riportato i dati” (della memoria difensiva presentata dalla contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale) “e, soprattutto, ha fatto esplicito riferimento alla stessa per contestare gli allora espressi assunti”. L’affermazione dunque, contenuta in sentenza, della legittimità dell’avviso di accertamento sotto tale profilo, non viola la norma richiamata, dal momento che detto accertamento ne dimostra anzi il rispetto, da esso emergendo che l’atto impugnato contiene una specifica motivazione sulle giustificazioni rese dalla contribuente in risposta ai chiarimenti richiesti D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis, comma 4.

La seconda censura (vizio di motivazione) è a sua volta inammissibile o, comunque, infondata.

Essa a ben vedere investe non già l’accertamento in fatto secondo cui l’avviso impugnato conteneva una specifica motivazione sulle giustificazioni offerte dalla contribuente in risposta alla richiesta di chiarimenti, ma piuttosto la valutazione di inidoneità di tali giustificazioni a confutare l’assunto dell’ufficio circa il carattere elusivo dell’operazione, ossia la fondatezza stessa dell’accertamento, che è tema diverso da quello circoscritto e di carattere formale che qui viene in considerazione, rappresentato dal rispetto delle norme procedimentali dettate dalla disposizione citata.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia sul motivo di gravame con il quale essa aveva riproposto le contestazioni svolte in merito all’asserito carattere elusivo dell’operazione.

Tale censura è infondata, mentre è fondato il terzo motivo con il quale la ricorrente, in subordine, deduce l’erroneità in diritto ovvero l’insufficiente motivazione del rigetto di detto motivo di gravame.

La C.T.R. si pronuncia espressamente sulla questione in più passaggi, ma lo fa con motivazione apodittica e per alcuni aspetti incoerente rispetto alla regola di giudizio ricavabile dalla norma. Si leggono infatti in sentenza, al riguardo, le seguenti affermazioni: “si è concordi con la decisione espressa dai giudici di prime cure nel ritenere legittimo l’accertamento…”, pag. 11; “l’attività dell’Agenzia delle entrate… è aderente alle norme tributarie… anche al disposto dell’art. 37-bis”, pag. 12; “nel caso di specie le operazioni poste in essere dalla società contribuente rientrano in quelle previste dalla norma succitata”, “l’accertamento… ha trovato ampiamente motivo inopinabile di legittimità in detta prodromica attività”, pagg. 12-13; “il contribuente, pur fornendo le motivazioni sulle operazioni contabili ed amministrative fatte, non ha chiaramente dimostrato l’assenza di qualsivoglia elemento di natura elusiva e fornito indicazioni di precise finalità economiche non altrimenti perseguibili ma anzi ha lasciato intendere il contrario…”, pag. 13; “non trova ragione di accoglimento… la contestazione ripresa e ripetuta più volte dall’appellante sulla illegittimità dell’accertamento e così pure riguardo alla normativa espressa dall’art. 37-bis”, pag. 14.

Come accennato, dette affermazioni si rivelano frutto di una interpretazione non corretta della disciplina applicabile laddove postulano che, a fronte della contestazione da parte dell’Ufficio di condotta elusiva, incomba al contribuente l’onere di dimostrare “l’assenza di qualsivoglia elemento di natura elusiva” ovvero la sussistenza di “precise finalità economiche non altrimenti perseguibili”.

In realtà, come può ricavarsi dalla formulazione letterale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 1 (“sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”), in particolare argomentando a contrario dall’inciso “privi di valide ragioni economiche”, al fine di escludere il carattere elusivo dell’operazione, è sufficiente al contribuente dimostrare che la stessa sia giustificata da “valide ragioni economiche”, sia pure in via concorrente al perseguito risparmio fiscale. Occorre però che tali ragioni economiche siano “valide”, ossia di carattere “non meramente marginale o teorico” perchè in tal caso risulterebbero “inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale, e tali quindi da potersi considerare manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità” (v. Cass. 29/09/2006, n. 21221; Cass. 21/4/2008, n. 10257).

In tal senso possono dunque definirsi elusive le operazioni compiute “essenzialmente” (anche se non esclusivamente) per il conseguimento di un vantaggio fiscale, con ciò intendendosi rimarcare che, al fine di negare il carattere elusivo dell’operazione, non può attribuirsi rilievo alla compresenza purchessia di ragioni extrafiscali indipendentemente dalla loro effettiva rilevanza.

Per converso non è però richiesto, diversamente da quanto sembrano postulare i giudici a quibus, che tali ragioni extrafiscali oltre ad essere “valide” abbiano anche in concreto una rilevanza predominante ed assorbente ai fini del compimento dell’operazione e neppure che tale loro rilevanza sia almeno pari a quella del risparmio d’imposta, essendo solo necessario che non si tratti di scopi di rilevanza talmente ridotta da non potersi considerare quale attendibile (ossia, “valida”) giustificazione concorrente. Nè tale prova deve ritenersi necessariamente passare attraverso la dimostrazione che l’obiettivo non sia altrimenti perseguibile, trattandosi ben diversamente di dimostrare che la strada prescelta sia comunque più conveniente rispetto ad altre soluzioni e sia in tal senso sorretta da una “valida” ragione economica.

In ogni caso la motivazione sul punto offerta dai giudici di merito si appalesa anche apodittica, risolvendosi in considerazioni generiche e meramente assertive, senza alcun concreto riferimento agli elementi considerati che consenta di apprezzare la congruenza delle valutazioni espresse e il percorso logico seguito per giungere ad esse.

E’ costante giurisprudenza di questa Corte che ricorre il vizio di insufficiente motivazione ove il giudice non indichi gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento ovvero il criterio logico e la ratio decidendi che lo ha guidato. Il giudice deve delineare il percorso logico seguito, descrivendo il legame tra gli elementi interni determinanti che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata; mentre deve escludere, attraverso adeguata critica, la rilevanza di ogni elemento esterno al percorso logico seguito, di natura materiale, logica o processuale, ed astrattamente idoneo a delineare conseguenze divergenti dall’adottata decisione (v. ex multis, Cass. 12/11/1997, n. 11198 Rv. 509810).

Tale onere non risulta nella specie in alcuna misura assolto, avendo la C.T.R. omesso di indicare gli elementi posti a base delle esposte conclusioni.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. confermato anche la ripresa relativa alle royalties pagate, in entrambi gli anni considerati, a società controllate, per difetto di inerenza.

I giudici d’appello hanno al riguardo rilevato che la contribuente “non ha fornito spiegazioni circa il margine di utile lordo derivante dalla vendita di prodotti, oggetto delle licenze, al fine di calcolare l’incidenza del costo per il pagamento delle royalties alle stesse società fornitrice”; hanno inoltre respinto l’assunto difensivo circa la mancata prova dei fatti posti a fondamento della ripresa, in particolare della assunta mancanza di esclusiva territoriale derivante dalle licenze; hanno infine ritenuto corretto il rilievo dell’Ufficio circa la mancanza di giustificazione del pagamento di royalties “alle licenziatarie” (sic) su beni rivenduti alle medesime.

Con la censura in esame la ricorrente rileva che il diritto di esclusiva non è una condizione richiesta dalla prassi ministeriale per ritenere i canoni congrui a priori, ma è solo uno degli elementi caratterizzanti del contratto, con la conseguenza che la sua mancanza non può condurre a ritenere incongrua la misura delle royalties applicata nel caso concreto. Rileva inoltre che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, la società ha provato nel corso del giudizio di primo e di secondo grado l’utilità conseguite a seguito della corresponsione dei canoni.

5. Con il quinto motivo la società contribuente denuncia poi violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto assolto l’onere incombente sull’Ufficio impositore di dimostrare il valore normale che, in tesi, legittimerebbe la rettifica delle royalties pattuite tra le parti.

6. Entrambe le censure si appalesano inammissibili e, comunque, infondate.

La prima di esse, invero, lungi dall’evidenziare l’applicazione di una regula iuris difforme da quelle desumibili dalla norme richiamate, in punto di presupposti di deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi di reddito, postula un accertamento in fatto diverso da quello contenuto in sentenza (secondo il quale, in buona sostanza, la contribuente non ha assolto l’onere, su di essa certamente incombente, di dar prova dell’inerenza e congruità delle spese in questione: royalties), ovvero di fatto sollecita sul punto una mera diversa valutazione di merito, ben al di là del tema devolvibile in cassazione, attraverso il dedotto vizio di violazione di legge.

La seconda poi postula al riguardo un criterio di riparto dell’onere probatorio (secondo cui cioè spetterebbe all’Ufficio dar prova della non inerenza e/o non congruità dei costi) opposto a quello che, per pacifica interpretazione, deve ritenersi valere in materia, e ciò fa peraltro richiamando la disciplina in tema di transfer pricing che risulta estranea alla ripresa in questione, fondata invece, per espressa indicazione della stessa ricorrente, sull’assenza dei requisiti di inerenza e congruità dettati dall’art. 75, comma 5, t.u.i.r. (nel testo applicabile ratione temporis).

Al riguardo varrà rammentare che, secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimità, correttamente applicato nella fattispecie dai giudici di merito, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R.n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente; inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).

7. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittimo il recupero del maggior prezzo calcolato, in base al presunto valore normale, sui trasferimenti operati da essa contribuente nei confronti di alcune società controllate. Lamenta che i giudici d’appello hanno erroneamente ritenuto che l’Ufficio abbia fatto corretta applicazione, ai fini della determinazione del valore normale, del c.d. metodo CUP (comparable uncontrolled price method) di confronto del prezzo, segnatamente per quel che riguarda l’individuazione del mercato rilevante, il differente stadio di commercializzazione dei beni verificati rispetto ai beni comparati e le differenti funzioni commerciali svolte dalle società controllate rispetto ai soggetti comparati.

8. Con il settimo motivo, con riferimento alla medesima ripresa, la ricorrente deduce inoltre omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la C.T.R. omesso di pronunciare in ordine alla eccepita violazione del principio dell’onere della prova da parte dell’Ufficio: violazione dedotta per avere i verificatori preso in considerazione cessioni in numero insufficiente.

9. Le testè esposte censure sono entrambi inammissibili.

La prima pone questioni di merito non suscettibili di sindacato nella presente sede di legittimità, tantomeno attraverso la denuncia di error in iudicando.

Non si ricava invero dalla motivazione la sentenza impugnata l’applicazione di parametri diversi, ai fini del calcolo del valore normale dei beni o servizi trasferiti, da quelli dettati dalle direttive OCSE richiamate in ricorso. Con la censura si intende dunque, piuttosto, contestare il risultato della valutazione al riguardo operata sulla base dell’asserito utilizzo di dati di riferimento diversi da quelli prescritti o comunque inadeguati, con ciò dunque appuntandosi la critica non sulla regola di giudizio applicata quanto piuttosto sulla ricognizione del fatto, censurabile, se del caso, soltanto sul piano della motivazione, ai sensi e nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La seconda poi erroneamente riconduce a vizio di omessa pronuncia il mancato specifico esame di un mero argomento difensivo, da ritenersi peraltro implicitamente disatteso attraverso il rigetto del motivo di gravame al quale esso afferiva.

E’ utile rammentare al riguardo che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancanza di espressa statuizione sul punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (v. in particolare, Cass. n. 5351 del 2007, che ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame), ed inoltre che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. Cass. n. 10636 del 2007). E’ vero che, sempre secondo la citata giurisprudenza, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado che deve essere fatto valere dal ricorrente attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” per violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass. n. 11844 del 2006; n. 24856 del 2006 e n. 12952 del 2007), tuttavia nella specie la ricorrente non ha dedotto che sul punto fosse stato proposto uno specifico motivo d’appello.

10. Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 48 e 62, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla confermata indeducibilità dei rimborsi chilometrici corrisposti per le trasferte di lavoro, sia ai dipendenti che utilizzano l’auto propria, sia a quelli che utilizzano l’auto aziendale.

Con riferimento ai primi, posto che la deducibilità dell’indennità chilometrica è stata negata dall’Ufficio poichè nella nota spese redatta dal dipendente non era stato indicato il tipo di autovettura utilizzata, la ricorrente rileva che erroneamente i giudici d’appello non hanno rilevato l’illegittimità di tale recupero dal momento che l’art. 62 t.u.i.r. non richiede a tali fini la compilazione di alcun prospetto sintetico dal quale si evinca il modello di auto mezzo utilizzato. Soggiunge che peraltro, una volta negata la rimborsabilità dei detti indennizzi, questi avrebbero dovuto essere compresi, ai sensi dell’art. 48 t.u.i.r., tra i redditi di lavoro dipendente, con il conseguente obbligo in capo al datore di lavoro di operare la corrispondente ritenuta d’imposta a titolo d’acconto, violazione che nella specie non è stata contestata. Rileva in ulteriore subordine che la maggiore imposta avrebbe dovuto comunque essere rideterminata in misura pari alla differenza tra il rimborso chilometrico riconosciuto al dipendente sulla base degli accordi aziendali (Euro 0,33 per km) e il costo minimo chilometrico di una autovettura nell’esercizio 2002 (Fiat, modello 126 berlina, Euro 0,184886 per km).

Con riferimento ai secondi (dipendenti che utilizzano l’auto aziendale), posto che l’Ufficio ha negato la deducibilità della relativa spesa asserendo che l’entità e la congruità dell’indennità chilometrica erogata a titolo di rimborso delle spese per il carburante non erano verificabili a causa della omessa istruzione delle schede carburante, la ricorrente rileva che erroneamente i giudici d’appello non hanno di tale ripresa rilevato l’illegittimità dal momento che, anche accogliendo tale tesi, gli esborsi avrebbero dovuto considerarsi quale compenso erogato ai dipendenti, da ammettere comunque in deduzione.

Entrambe le censure in cui si articola il motivo si appalesano inammissibili in quanto incongruenti rispetto alla ratio decidendi.

La sentenza impugnata fa invero esclusivo riferimento, in parte qua, “agli oneri dedotti per acquisto di carburante” ed afferma la legittimità del relativo recupero in ragione del rilievo che trattavasì di rimborsi “per importi eccedenti i limiti giornalieri” fissati dall’art. 48 t.u.i.r.. Le censure mosse non focalizzano tale questione ma fanno piuttosto riferimento a un diverso e più articolato contenuto dell’accertamento ed a questioni di fatto che non risultano trattati nel giudizio di appello nè comunque posti ad oggetto della sentenza impugnata.

11. Con il nono motivo la società contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 52 e 75, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittimo il recupero di altri costi non riconosciuti, per l’asserita violazione del criterio di imputazione per competenza.

Anche tale motivo deve ritenersi inammissibile.

La ricorrente omette di specificare le ragioni per cui nel caso concreto dovrebbe ritenersi sia stata fatta non corretta applicazione di detto criterio di imputazione, risolvendosi la censura nella mera astratta spiegazione dei concetti di certezza e obiettiva determinabilità del costo ai fini della sua imputazione all’anno in cui gli stessi si verificano, senza spiegare perchè tali presupposti avrebbero dovuto nel caso concreto giustificare l’imputazione dei costi così come operata dalla contribuente e per converso indurre a ritenere illegittima la diversa valutazione operata dall’Ufficio e, di conseguenza, dai giudici d’appello.

12. Con il decimo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia in ordine al motivo di gravame con il quale, iterandosi contestazione già proposta con il ricorso introduttivo e rigettata dal giudice di primo grado, si era dedotta l’illegittimità del recupero delle spese di consulenza, per Euro 9.365,64 (relative all’operazione di acquisizione del “business Novacote”), in quanto non documentate. Rileva che, al riguardo, nell’atto d’appello essa aveva eccepito che, contrariamente a quanto affermato dalla C.T.P., dette spese dovevano ritenersi adeguatamente documentate dalla fattura.

Tale censura è fondata e merita accoglimento.

Benchè in premessa nella sentenza impugnata si dia atto di tale contestazione e della sua riproposizione in grado d’appello, dalla motivazione tuttavia non si trae alcuna specifica trattazione della questione da essa posta.

13. Con il dodicesimo motivo, la ricorrente infine denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 8; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, in relazione al rigetto della subordinata richiesta di esclusione delle sanzioni per la presenza di obiettive condizioni di incertezza circa la portata e l’ambito di applicazione della norma tributaria.

La censura si appalesa inammissibile non essendo specificata la norma tributaria in relazione alla quale sarebbero apprezzabili obiettive condizioni di incertezza tali da giustificare la non applicazione delle sanzioni.

Ove il riferimento debba intendersi fatto alla norma in tema di divieto di condotte elusive (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis) la censura deve in tal caso ritenersi assorbita dall’accoglimento del terzo motivo.

14. Si può, quindi, passare all’esame del ricorso n. 21001 del 2011.

Con il primo motivo di ricorso la società contribuente denuncia omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sulla eccezione, proposta nel ricorso introduttivo e reiterata nelle controdeduzioni in appello, di nullità dell’avviso di irrogazione sanzioni per mancata specifica motivazione in ordine alle deduzioni difensive presentate dalla società ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 16, comma 6. Rileva che la sentenza impugnata si pronuncia non su tale motivo di ricorso ma su questioni estranee al tema devoluto, avendo infatti affermato la validità dell’atto in quanto motivato per relationem al p.v.c. conosciuto dalla parte e perchè notificato entro il termine annuale dalla presentazione delle deduzioni difensive.

15. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la C.T.R. omesso di rilevare la nullità dell’avviso di irrogazione di sanzioni derivante dalla mancanza in esso di alcuna specifica argomentazione in merito alle deduzioni difensive presentate a seguito della contestazione (al di là della mera asserzione tautologica, integrante motivazione di stile o apparente, secondo cui “i motivi addotti da codesta società non sono condivisibili per la motivazioni espresse nel su citato processo verbale di constatazione, fatte proprie da quest’Ufficio”).

Sul punto la società deduce anche vizio di motivazione per essersi la C.T.R. limitata ad affermare la validità del richiamo generico per relationem al p.v.c. senza esprimere alcuna valutazione circa la sufficienza di tale richiamo a fronte delle deduzioni difensive presentate dalla parte.

16. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 9 t.u.i.r., dell’art. 11 della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. omesso di rilevare l’illegittimità dell’atto di irrogazione sanzioni in quanto erroneamente postulante la rilevanza del valore normale dei prezzi di cessione di beni fra società infragruppo anche per la determinazione della base imponibile Iva e per avere comunque determinato tale valore sulla base di criteri difformi da quelli dettati dalle direttive OCSE.

Anche al riguardo la ricorrente lamenta, contestualmente, vizio di motivazione, per avere la C.T.R. svolto considerazioni inconferenti e del tutto carenti.

17. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia infine, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia sulla richiesta subordinata di non applicazione delle sanzioni per la sussistenza dell’esimente della obiettiva incertezza intorno all’applicabilità delle norme sanzionatorie anche in materia di Iva.

18. E’ fondato il terzo motivo di ricorso nella parte in cui denuncia, con rilievo assorbente rispetto ad ogni altra censura, violazione di legge per la ritenuta applicabilità della disciplina in materia di transfer pricing anche ai fini della determinazione della base imponibile Iva.

Il transfer pricing si basa sul concetto di valore normale di mercato di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9 e art. 76, comma 5 (ora 110, comma 7) (v. anche art. 9 del modello di convenzione Ocse) e risponde ad esigenze di equa suddivisione dei profitti nei vari Stati in cui operano i gruppi multinazionali.

Per l’Iva, invece, il corrispettivo effettivamente ricevuto è un elemento cardine del meccanismo di applicazione dell’imposta, fondato sul principio di neutralità dell’imposta (che sarebbe violato ove la base imponibile fosse calcolata come un importo per ipotesi superiore al corrispettivo ricevuto): principio da sempre ricavato dalle direttive comunitarie (da ultimo esplicitato nell’art. 73 della direttiva 112/2006/Cee) e recepito in Italia dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 13.

In particolare l’art. 17 della Sesta Direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, riconduce il diritto alla detrazione all’esigibilità ed inerenza dell’acquisto del bene o servizio, senza contemplare alcun riferimento, e comunque non in modo diretto, al valore del bene o servizio.

Anche per la Corte Europea, la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato deve ritenersi irrilevante (Corte giust. 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gasabach, p. 22). Nè vi è elusione od evasione fiscale se i beni o i servizi sono forniti a prezzi artificialmente bassi o elevati fra le parti, che godano entrambe del diritto a detrazione IVA, essendo solo a livello del consumatore finale che può ricorrere perdita di gettito fiscale (Corte giust. 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan, p.47). La base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio effettuate a titolo oneroso è costituita così dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo ed esso rappresenta il valore soggettivo, realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi (Corte giust. 19 dicembre 2012, causa C549/11, p. 48-49; Corte giust. 26 aprile 2012, cit., p.43; Corte giust. 5 febbraio 1981, Cooperatieve Aardappelenbewaarplaats, 154/80, p.13; indirizzo ribadito anche per operazioni di gruppo: Corte giust. 9 giugno 2011, causa C-285/10, Campsa Estaciones de Servicio SA, p.27).

Esplicite conferme al riguardo si ricavano anche dal recente intervento della Commissione Europea, riassunti nel working paper 923 del 28 febbraio 2017.

Va dunque ribadito che “in condizioni normali non è consentito all’Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione se il valore sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da reputare normale o comunque tale da produrre un risultato economico” (Cass. 04/06/2014, n. 12502, cui si rimanda anche per altri riferimenti giurisprudenziali).

Il calcolo dell’Iva sul corrispettivo può essere disatteso allorquando l’Amministrazione finanziaria dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura e, dunque, di non verità dell’operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA; in tal caso spetterà all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all’attività svolta (Cass. 27/09/2013, nn. 22130 e 22132).

Si tratta tuttavia di ipotesi diversa da quella qui in esame, non emergendo dalla sentenza nè dall’atto impositivo, per quanto di esso richiamato in atti, alcun riferimento a siffatti presupposti.

19. In ragione dell’accoglimento del terzo e del decimo motivo del ricorso iscritto al n. 24326/2010 R.G. e dell’accoglimento del terzo motivo del ricorso iscritto al n. 21001/2011 R.G., le sentenze impugnate vanno cassate con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

riunisce al ricorso n. 24326/2010 R.G. quello iscritto al n. 21001/2011 R.G..

Accoglie il terzo e il decimo motivo del ricorso n. 24326/2010 ed il terzo motivo del ricorso n. 21001/2011, nei termini di cui in motivazione; dichiara assorbiti l’undicesimo motivo del ricorso n. 24326/2010 ed i rimanenti motivi del ricorso n. 21001/2011; rigetta i rimanenti motivi del ricorso n. 24326/2010; cassa le sentenze in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2018

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