Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22396 del 05/08/2021

Cassazione civile sez. I, 05/08/2021, (ud. 18/12/2020, dep. 05/08/2021), n.22396

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

T.M., elettivamente domiciliato in Maglie, Corso Cavour, n.

38, presso lo studio dell’avv. Sergio Santese, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di LECCE, depositato il 10/4/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/12/2020 dal Cons. Dott. PACILLI GIUSEPPINA ANNA ROSARIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 10 aprile 2019 il tribunale di Lecce ha respinto la domanda di T.M., nativo del (OMISSIS), volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria.

In estrema sintesi, il tribunale pugliese ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato in favore del richiedente, non integralmente credibili le sue dichiarazioni e, comunque, i motivi, addotti a sostegno delle sue richieste, inidonei a consentirne l’accoglimento.

Avverso il descritto decreto T.M. ricorre per cassazione affidandosi a tre motivi, mentre il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, , D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e dell’art. 4, comma 3 direttiva 2004/83/CE. Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe violato l’obbligo di attivare i suoi poteri officiosi, che gli imponevano di cooperare nell’accertamento delle condizioni richieste per l’accoglimento della domanda di protezione internazionale;

II) violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. g), nonché art. 14 e vizi della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria. Il tribunale avrebbe erroneamente ritenuto non attendibile il ricorrente e non avrebbe fatto riferimento concreto alla situazione del suo paese di origine;

III) violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e vizi della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della protezione umanitaria. Premesso che il requisito della vulnerabilità può ravvisarsi anche laddove si possa presumere che, se costretto a far rientro nel suo paese, lo straniero vedrebbe compromessi la sua dignità e il suo diritto a un’esistenza libera e dignitosa, il ricorrente ha affermato che il tribunale non avrebbe spiegato le ragioni per cui il richiedente, ove fosse rimpatriato, non correrebbe il rischio di subire torture o altre forme di trattamenti inumani o degradanti ovvero di correre un pericolo di vita o incolumità fisica; il medesimo tribunale, poi, non avrebbe addotto alcuna motivazione sull’integrazione raggiunta in Italia e sulle condizioni in cui verrebbe a trovarsi in caso di rientro.

2. Il primo motivo è inammissibile.

Il tribunale pugliese, dopo aver delineato il quadro legislativo regolante il riconoscimento dello status di rifugiato, correttamente richiamando, in proposito, l’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. e) ed I, ed art. 11 (attuativo della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. n. 722 del 1954) e le direttive comunitarie in materia (tra cui quella n. 2004/83), ed aver specificamente indicato quali sono, alla stregua dell’art. 5 citato D.Lgs., i soggetti (lo Stato, i partiti politici o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, nonché soggetti non statuali ove quelli appena indicati, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, adottando adeguate misure per impedire atti persecutori) da cui dovrebbero provenire le persecuzioni di cui al menzionato art. 2, ha osservato che “i fatti narrati dal richiedente non attengono a persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale o opinione politica e, pertanto, anche ove veritieri, non integrerebbero gli estremi per il riconoscimento dello status di rifugiato”.

Il ricorrente, cittadino del (OMISSIS), ha dichiarato di essere andato a vivere, dopo la morte del padre, presso lo zio e di avere avuto una relazione con la cugina, minorenne, che era rimasta incinta; ha aggiunto di essere stato minacciato dallo zio, venuto a conoscenza del fatto, e di essere fuggito, quindi, dal proprio Paese.

E’ evidente che il timore del ricorrente concretizza una vicenda assolutamente non inquadrabile nel concetto di persecuzione per i motivi di cui si è detto, sicché nessun dovere istruttorio officioso incombeva in capo al giudice di merito.

In base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, infatti, il dovere di cooperazione istruttoria del giudice si concretizza in presenza di allegazioni del richiedente precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili. Compete insomma all’interessato innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria attraverso – in primis l’allegazione di situazioni sussumibili in quelle previste dalla normativa (vedi, per tutte: Cass. 12 giugno 2019, n. 15794).

Nella specie, come si è detto, il tribunale ha affermato che neppure sul piano delle allegazioni il ricorrente aveva indicato di versare in una situazione meritevole dell’invocata protezione, sicché nessun dovere di cooperazione può dirsi innescato.

3. Il secondo motivo è inammissibile.

Il giudice di merito ha ritenuto che il racconto del richiedente non risultava credibile, essendo inverosimile che egli, ospite dello zio e in difficoltà economica, abbia voluto tradire la fiducia dello zio, iniziando una relazione con la cugina all’interno della casa del medesimo, con il rischio di essere scoperto e di sollevare contro di sé una prevedibile reazione violenta del congiunto.

Nella specie, il tribunale pugliese ha espresso un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5. Si tratta di un accertamento di fatto che, come già puntualizzato da questa Corte (cfr. Cass. n. 387 del 2019, in motivazione; Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 4455 del 2018, parag. 7; Cass. n. 27438 del 2016; Cass. n. 21668 del 2015), non può essere messo in discussione con il ricorso per cassazione, se non denunciando, ove ne ricorrano i presupposti, il vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, che, nella specie, non è stato censurato.

Quanto al riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), il menzionato tribunale ha rilevato che nel paese di provenienza del richiedente non vi è un livello di violenza così elevato da comportare per i civili, per la sola presenza nell’area in questione, il concreto rischio della vita o ai sensi del medesimo art. 14, lett. a), b) e c).

Orbene, questa Corte (cfr., amplius, Cass. n. 32064 del 2018, in motivazione) ha chiarito che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), deve essere interpretata in conformità alla fonte Eurocomunitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono, di per sé, una minaccia individuale da definirsi come danno grave (cfr. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), in quanto l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato ed uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15, lett. c) direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (cfr., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakite’, C285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018).

Una specifica situazione di tal fatta, però, è stata, come si è detto, esclusa dal tribunale leccese, e questo accertamento costituisce un’indagine di fatto che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: il che non è stato fatto, sicché l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertirne l’esito.

4. Anche il terzo motivo, relativo al mancato accoglimento dell’istanza di protezione umanitaria, è inammissibile.

Il tribunale leccese, con incensurabile apprezzamento di fatto, ha spiegato le ragioni per le quali non ha riscontrato l’esistenza di condizioni di vulnerabilità idonee a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, avendo rimarcato, conclusivamente, che non risultava un rischio concreto e individuale (motivato da elementi avvalorati da riscontri circostanziati), in caso di rientro, e non risultava, inoltre, uno stabile inserimento sociale (avendo il ricorrente appena sottoscritto un contratto di lavoro a tempo indeterminato ed avendo tuttora in (OMISSIS) legami stretti, madre, sorella e fratello con cui è in contatto).

Al cospetto di siffatte argomentazioni il motivo in scrutinio si sostanzia in una mera prospettazione di merito, come tale inammissibile.

5. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità. Sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo, così come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 18 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2021

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