Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22391 del 22/10/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 22391 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA

sul ricorso 29661-2010 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente

2014
2466

contro

LEGINI GIOVANNI C.F. LGNGNN72L29B519V, elettivamente
omiciliato in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio
_ dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che 1o rappresenta e

Data pubblicazione: 22/10/2014

-

difende, giusta delega in atti;

controricorrente

avverso la sentenza n. 5453/2009 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/12/2009 R.G.N.
6108/2008;

udienza del 10/07/2014 dal Consigliere Dott. PIETRO
VENUTI;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA

per delega verbale

FIORILLO LUIGI;
udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MAURIZIO VELARDI che ha concluso per:
in via principale

inammissibilità, in subordine

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

R.G. n. 29661/11
Ud. 10.7.2014

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
premesso che aveva stipulato con Poste Italiane S.p.A. un
contratto a termine dal 1 dicembre 1999 al 29 febbraio 2000,
chiedeva che, accertata la nullità del termine apposto al
contratto, fosse dichiarata la sussistenza di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, la sua riammissione in servizio e
la condanna della società al pagamento delle retribuzioni
maturate.
Il Tribunale adito accoglieva integralmente il ricorso e
condannava la società a ripristinare il rapporto ed al pagamento
delle retribuzioni a decorrere dalla data di messa in mora (27
luglio 2000).
Proponeva impugnazione l’azienda e la Corte d’appello di
Roma, con sentenza n. 3298/03, in accoglimento del gravame,
rigettava le domande del lavoratore.
Tale sentenza, su impugnazione del lavoratore, veniva
annullata con rinvio da questa Corte con sentenza n. 5750/08,
con la quale veniva esclusa la legittimità del contratto.
Il processo veniva riassunto davanti alla Corte d’appello di
Roma, la quale, in diversa composizione, con sentenza
depositata in data 7 dicembre 2009, rigettava l’appello
dell’azienda avverso la sentenza di primo grado che aveva
integralmente accolto le domande del lavoratore e la condannava
a risarcire al lavoratore gli ulteriori danni in misura pari alle
retribuzioni spettanteg,li a decorrere dal 1 dicembre 2003, nuova
data di messa in mora, sino alla data della sentenza, oltre
accessori cli legge, rilevando che dopo la sentenza sfavorevole di

Con ricorso al Tribunale di Roma Giovanni Legini,

2

appello, il Legini era stato nuovamente estromesso dal lavoro a
decorrere dal 14 novembre 2003.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione Poste
Italiane sulla base di tre motivi. Il lavoratore resiste con
controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
violazione e falsa applicazione degli artt. 23 della legge n. 56/87
e 8 CCNL dei dipendenti postali del 26 novembre 1994, rileva
che, in virtù della delega conferita dal legislatore con la legge
anzidetta, l’autonomia sindacale non incontra limiti ed ostacoli
di sorta nella tipologia dei contratti a termine in relazione alle
ipotesi che ne legittimano la conclusione. Alla data della stipula
del contratto per -,cui è controversia, permanevano le esigenze
legittimanti la stipula dei contratti a termine ai sensi dell’accordo
del 25 settembre 1997 e non era scaduto il termine finale di
efficacia dell’accordo medesimo, come era dimostrato dai
successivi accordi, aventi natura ricognitiva del processo di
ristrutturazione- di Poste ancora in corso. Non ricorreva quindi il
limite temporale del 30 aprile 1998 ravvisato dalla sentenza
impugnata. 2. Con -il secondo motivo la ricorrente, denunziando
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, rileva che la sentenza
impugnata non ha sufficientemente esposto le ragioni per le
quali ha ritenuto illegittimo il contratto. In particolare non ha
spiegato i motivi secondo cui_ l’accordo del 25 settembre 1997
avesse una efficacia temporale limitata sino alla data 30 aprile
1998.
3. Con il terzo motivo la ricorrente, denunziando plurime
violazioni di -legge, sostiene che la sentenza impugnata è errata
nella parte in – cui ha condannato la società al pagamento delle
retribuzioni a decorrere dalla data di messa in mora, non

1. Con il primo motivo, la ricorrente, denunziando

considerando che il diritto alla retribuzione postula l’effettivo
svolgimento della prestazione lavorativa.
In ogni caso, aggiunge, nel corso del giudizio è
sopravvenuta la legge 4 novembre 2010 n. 183, art. 32, che, in
caso di conversione del rapporto prevede la condanna del datore
di lavoro al pagamento di una indennità onnicomprensiva,
di fatto, secondo i criteri indicati dall’art. 9 della legge n. 604/66,
disposizione questa che trova applicazione per tutti i giudizi, ivi
compresi quelli pendenti alla data di entrata-in vigore della legge.
4. I primi due motivi sono inammissibili.

Questa Corte, con la citata sentenza n. 5750/08,
nell’accogliere il ricorso del Legini, ha annullato la sentenza di
appello che aveva dichiarato legittimo il termine apposto al
contratto.
La Corte, in sintesi, nel rilevare, in relazione alla L. n. 56
del 1987, art. 23, la configurabilità di una vera e propria delega
in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove
ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di
lavoro, ha osservato che, in forza di tale delega, le parti sindacali
avevano individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine,
quella di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997, in
base al quale era stato stipulato il contratto a termine (esigenze

eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti
occupazionali in corso).
Ed ha ritenuto errata l’interpretazione del giudice di
merito, rilevando che doveva escludersi la legittimità dei contratti
a termine stipulati – come nella specie – dopo il 30 aprile 1998 in
quanto privi di presupposto normativo.
In particolare, secondo la Corte, non poteva attribuirsi
rilevanza all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato
dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè
quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti,
ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare

compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale

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autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di
sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la
copertura dell’accordo del 25 settembre 1997, doveva escludersi
che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo
strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo
speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel
stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto
della durata in precedenza stabilita.
Il giudice di rinvio, sulla ,scorta di tali principi, ha ritenuto
inammissibili.:: tutte le contrarie argomentazioni formulate da
Poste, essendo – stata sul punto la questione definitivamente
decisa dalla Corte di Cassazione, ed ha rigettato l’appello
dell’azienda avverso la sentenza di primo grado, confermandola
integralmente e condannando la società a risarcire al lavoratore
gli ulteriori danni in misura pari alle retribuzioni percepite, a
decorrere dali l dicembre 2003, nuova data di messa in mora,
sino alla data della sentenza, oltre accessori di legge, rilevando
che dopo- la sentenza sfavorevole di appello, il lavoratore era
stato nuovamente estromesso dall’azienda a decorrere dal 14
novembre 2003.
La – -ricorrente, dolendosi di tale pronuncia, tende a
rimettere in discussione,i principi affermati dalla Cassazione con
riguardo alla, legittimità del termine apposto al contratto, ma i
motivi in esame sono inammissibili atteso che il riesame delle
questioni decise dalla Cassazione verrebbe a porre nel nulla o
limitare gli effetti della stessa, in contrasto con il principio di
intangibilità delle pronunce di illegittimità (cfn, in questi termini,
Cass. n. 8889/03; Cass. .11939/06; Cass. 26241/09).
5. Il terzo motivo è fondato con riguardo allo

ius

superveniens, costituito dall’art, 32 della legge n. 183/10.
Non può infatti condividersi l’assunto del lavoratore,
secondo cui-non avendo la società, nel proporre appello avverso
la sentenza di– primo grado, mosso alcuna censura in merito alla

D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la

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spettanza e all’ammontare delle retribuzioni riconosciute dal
primo giudice, sul punto si era formato definitivamente

il

giudicato, con la conseguenza che la disposizione sopravvenuta
di cui all’art. 32 L. 183/10 non potrebbe trovare applicazione.
Ed infatti, la sentenza di primo grado, compresa la
statuizione relativa alle conseguenze economiche, è stata travolta
società, che ha ritenuto legittima l’apposizione del termine, e ciò
sino a quando il giudice di rinvio, a. seguito dell’annullamento di
tale decisione,- non ha nuovamente riconosciuto, con la sentenza
qui impugnata, le retribuzioni a favore del lavoratore.
La questione relativa alle conseguenze economiche non è
quindi mai passata in giudicato.
Al riguardo deve rilevarsi che, a norma dell’art. 336 cod.
proc. civ., la sentenza di riforma resa in grado d’appello pone nel
nulla la sentenza di primo grado, che perde efficacia in quanto
caducata e sostituita immediatamente – in tutto o nei limiti dei
capi riformati – dalla pronuncia di secondo grado (Cass. 8
ottobre 2008 n. 24821), atteso che la predetta disposizione, nella
nuova formulazione introdotta dalla legge 26 novembre 1990 n.
353, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza
di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando
perciò l’immediata propagazione delle conseguenze della
sentenza di riforma agli atti dipendenti della sentenza impugnata
(Cass. 5 marzo 2009 n. 5323).
Inoltre, la formazione della cosa giudicata per mancata
impugnazione su un determinato capo della sentenza investita
dall’impugnazione, può verificarsi soltanto con riferimento ai
capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto
concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai
motivi di gravame, perché fondate su autonomi presupposti di
fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi
efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno (cfr. Cass. 29
aprile 2006 n. 10043; Cass. 3° ottobre 2007 n. 22863).

dalla sentenza di accoglimento del gravame proposto dalla

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Non è questo il caso di specie, in cui la statuizione relativa
alle conseguenze economiche presuppone l’illegittimità del
contratto a termine ed è a questa strettamente collegata.
Deve quindi ritenersi che la richiesta di applicazione dello

ius superveniens, non ha riaperto una questione ormai preclusa
dal giudicato interno, posto che tale questione non era stata
Ne consegue che il motivo in esame deve essere accolto in

parte qua, restando assorbita la censura relativa alla messa in
mora.
La sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al
giudice indicato in dispositivo, il quale provvederà anche sulle
spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso per quanto di ragione
e dichiara inammissibili gli altri due motivi. Cassa la sentenza
impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le
spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma in data 10 luglio 2014.

definitivamente accertata.

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