Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22382 del 13/09/2018

Cassazione civile sez. lav., 13/09/2018, (ud. 12/04/2018, dep. 13/09/2018), n.22382

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16760-2016 proposto da:

N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHIANA 48,

presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.M. OFFICINE GRAFICHE S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DEL POPOLO, 18, presso lo studio dell’avvocato NUNZIO RIZZO,

che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 460/2016 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 13/04/2016 R.G.N. 9/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONIO PILEGGI;

udito l’Avvocato NUNZIO RIZZO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48, al Tribunale del lavoro di Nocera Inferiore, N.G., dipendente della D.M. Officine Grafiche S.p.A in qualità di addetto al magazzino (OMISSIS), chiedeva accertarsi l’illegittimità del licenziamento in tronco intimatogli con lettera del 14/10/2014 con condanna della convenuta alla reintegra nel posto di lavoro o in subordine all’applicazione delle conseguenze risarcitorie L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, commi 5, 6 e 7.

1.2. Il Tribunale in sede cautelare accoglieva solo in parte il ricorso, escludeva la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento, riteneva il fatto addebitato sussistente ancorchè sanzionato con una sanzione espulsiva sproporzionata, disponendo il pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di 18 mensilità.

1.3. Tale indennità era elevata a 24 mensilità dal Tribunale in sede di opposizione L. n. 52 del 2012, ex art. 1, comma 51, confermandosi, per il resto, la pronuncia di prime cure.

1.4. Decidendo sui reclami proposti in via principale dal N. e in via incidentale dalla società, la Corte d’appello di Salerno, in totale riforma della decisione del Tribunale, respingeva l’azionata domanda.

1.5. L’impugnato licenziamento aveva fatto seguito a separate contestazioni di addebito del 25/8/2014 e del 7/10/2014 relative all’abbandono da parte del N. del proprio posto di lavoro prima della fine del turno in plurime occasioni (e precisamente nei giorni (OMISSIS)) nonchè ed al rifiuto di riprendere il lavoro opposto nonostante l’espresso invito a farlo e alle minacce che, nella prima occasione del (OMISSIS), il N. aveva rivolto al capo reparto, ing. S., di “scatenare una guerra nell’azienda”. Nella lettera di licenziamento del 14/10/2014, si era richiamato anche altro analogo episodio verificatosi appena pochi giorni prima (e cioè il (OMISSIS)), si era sottolineato l’atteggiamento del N. che aveva sempre ammesso di aver terminato il lavoro dieci minuti prima del fine del turno e tuttavia invocato un diritto al tempo tuta e rappresentato che anche nel prosieguo si sarebbe sempre comportato nello stesso modo fino a quando quei dieci minuti, di fatto corrispondenti al tempo impiegato per la vestizione, non fossero stati retribuiti come lavoro straordinario, si era inoltre rammentato che il N. era incorso in una precedente sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per tre giorni in relazione ad un episodio verificatosi in data (OMISSIS) (atteggiamento irriguardoso e minaccioso verso il diretto superiore, sig. M., in presenza di estranei, in occasione del quale il N., lamentatosi del numero di pedane da sistemare e invitato dal M. a svolgere la prestazione, si era rifiutato di farlo ed aveva ribaltato la scrivania facendo cadere a terra vari strumenti di lavoro).

1.6. Escludeva la Corte territoriale ogni violazione del principio dell’immutabilità della contestazione; rilevava che le condotte si fossero ripetute nel tempo anche nel periodo successivo ai primi richiami verbali e anche dopo la ricezione da parte del lavoratore delle lettere di contestazione disciplinare e fossero continuate nei giorni immediatamente precedenti l’audizione del 10/10/2014; riteneva che il reiterato ed intenzionale abbandono anticipato del posto di lavoro, oltre ad essere ingiustificato fosse stato accompagnato da un atteggiamento verso il superiore gerarchico e verso l’azienda nonchè da un elemento psicologico tali da ricondurre l’infrazione alle previsioni contrattuali legittimanti la risoluzione del rapporto per effetto del venir meno del vincolo di fiducia; riteneva che non fosse sussistente alcuna ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla condotta tenuta dall’azienda nei confronti di altri dipendenti incorsi in analoghe mancanze e che rispetto all’abbandono anticipato non potesse configurarsi alcuna prassi aziendale; riteneva che non sussistesse quel quid pluris necessario per riconoscere un licenziamento antisindacale ovvero ritorsivo.

2. Per la cassazione della sentenza ricorre N.G. con quattro motivi.

3. La D.M. Officine Grafiche S.p.A. resiste con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione del L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7,comma 2, nonchè della L. 20 maggio 1970, n. 300,. 18, comma 4 e L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3,. Lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente escluso che la società avesse contestato fatti nuovi e diversi in violazione del principio della immutabilità e specificità della contestazione oltre che delle disposizioni che impongono di individuare il fatto contestato e di tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo previste dalla contrattazione collettiva. Rileva che, mentre le contestazioni ricevute (rispettivamente le prime tre il (OMISSIS), la quarta, la quinta e la sesta, il (OMISSIS), la settima e l’ottava il (OMISSIS)) avevano riguardato pretesi rifiuti di osservare l’orario di lavoro e l’abbandono del posto di lavoro dieci minuti prima della fine del turno (verificatisi nei giorni (OMISSIS)), nella lettera di licenziamento del 14 ottobre 2014, richiamante tutte le indicate otto lettere di contestazione, si erano mossi addebiti del tutto nuovi e giammai contestati. Così era da ritenersi per l’episodio di abbandono anticipato del posto di lavoro verificatosi in data (OMISSIS) e per la grave insubordinazione verso i superiori che avrebbe dovuto formare oggetto di una specifica contestazione e non poteva essere estrapolata dalle otto contestazioni rimaste distinte.

1.2. Il motivo è infondato.

Anche l’estrapolazione dal contesto fattuale di cui alla lettera di licenziamento dell’episodio del (OMISSIS), identico a quelli precedenti e richiamato nella lettere di licenziamento per mera completezza espositiva, al fine di evidenziare la pervicacia nell’atteggiamento di abbandono del posto di lavoro, non toglie agli altri otto episodi, complessivamente considerati, la valenza di una contestata insubordinazione non fosse altro che per il rimarcato rifiuto di ottemperare alle disposizioni datoriali nonostante formali richiami al rispetto dell’orario di lavoro.

In termini generali va osservato, con riferimento alla disubbidienza agli ordini ed alle direttive, che il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti, Cass. 19 gennaio 2016, n. 831 e Cass. 26 settembre 2016, n. 18866).

Peraltro, come da questa Corte più volte affermato, privilegiando una nozione ampia di insubordinazione, quest’ultima, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104 c.c., comma 2), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (così Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635 e già Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 nonchè la più recente 19 aprile 2018, n. 9736 che pur resa con riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico richiama il medesimo principio).

Quello che conta, dunque, ai fini di una corretta individuazione di una condotta di insubordinazione, che mira a contemperare da un lato l’interesse del datore di lavoro al regolare funzionamento dell’organizzazione produttiva, dall’altro la pretesa del lavoratore alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, è l’aggancio al sinallagma contrattuale nel senso che rilevano solo comportamenti suscettibili di incidere sull’esecuzione e sul regolare svolgimento della prestazione, come inserita nell’organizzazione aziendale, e ciò sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento (con riferimento al potere direttivo dell’imprenditore) e nonchè dell’ordine e della disciplina, su cui si basa l’organizzazione complessiva dell’impresa (e dunque con riferimento al potere gerarchico e di disciplina).

L’insubordinazione, poi, può risultare da una somma di diversi comportamenti e non necessariamente da un singolo episodio. Sul punto, questa Corte (Cass. 30 marzo 2012, n. 5112) ha affermato che il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal lavoratore, come l’abbandono per un’ora e mezzo del posto di lavoro, l’uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche, è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell’indispensabile elemento fiduciario. In questo contesto l’insubordinazione si rende evidente dalla somma di tutti i comportamenti che possono essere tali da integrare una giusta causa di licenziamento.

Alla luce degli evidenziati principi può escludersi che la grave insubordinazione verso i superiori di cui alla lettera di licenziamento fosse ultronea rispetto ai fatti di cui alle contestazioni che tale lettera avevano preceduto.

Peraltro, come da questa Corte anche affermato (v. ex multis Cass. 7 febbraio 2013, n. 2935, ai fini del rispetto delle garanzie previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 per la contestazione dell’infrazione in relazione alla quale può essere applicata la sanzione disciplinare, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione stessa, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio ed al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa. Dunque, il principio della immutabilità della contestazione attiene solo alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso; non riguarda, pertanto, la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate (cfr. in tal senso anche Cass. 29 luglio 1994, n. 7105). Nella specie, i fatti contestati sono sempre rimasti immutati essendo stato l’episodio di abbandono anticipato del posto di lavoro verificatosi in data (OMISSIS), come detto, richiamato al mero fine della valutazione della complessiva gravità delle inadempienza del lavoratore e di conferma, sotto il profilo soggettivo, della pervicacia con cui palesemente il N. aveva condotto nel tempo il suo personale modo di intendere gli obblighi inerenti la prestazione lavorativa.

Si aggiunga che la Corte territoriale ha evidenziato che, in occasione della sua audizione con la presenza del rappresentante sindacale in data 10/10/2014, il N. aveva inteso espressamente presentare le giustificazioni in riferimento a tutte le contestazioni di addebito mosse dal datore di lavoro fino al (OMISSIS) compreso, così accettando – formalmente e sostanzialmente l’estensione del procedimento disciplinare a tutte le condotte addebitate fino al giorno prima dell’audizione. Tale passaggio argomentativo non ha formato oggetto di specifico rilievo in sede di ricorso per cassazione.

2.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, e dell’art. 39 del c.c.n.l. (art. 360 c.p.c., n. 3). Lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto legittimo il licenziamento nonostante lo stesso fosse stato intimato per un fatto (abbandono del posto di lavoro) per il quale l’art. 39 del c.c.n.l. prevede solo la sanzione conservativa.

2.2. Il motivo è infondato per quanto già evidenziato al punto che precede.

Oggetto di licenziamento non è stato il semplice abbandono del posto di lavoro ma, nella ricostruzione della Corte territoriale, la grave insubordinazione dimostrata attraverso il comportamento tenace ed ostinato di contrapposizione rispetto ai richiami datoriali.

3.1. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c., degli artt. 2107e 2108 c.c. e del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1 (art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè omesso esame del fatto decisivo per il giudizio relativo alla commissione della medesima fantomatica mancanza nello stesso periodo da parte dei colleghi, non sanzionati (art. 360 c.p.c., n. 3). Lamenta che la Corte territoriale non abbia tenuto conto che la causa sindacale che aveva determinato i comportamenti del N. era giusta, non necessitava di alcuna previa rivendicazione in sede sindacale e che quella del recupero del tempo tuta, da considerarsi a tutti gli effetti lavoro effettivo, più che una prassi ammessa tollerata dalla società, era un vero e proprio uso aziendale. Censura la sentenza impugnata per aver considerato il comportamento del ricorrente solo nella sua portata oggettiva e non anche in quella soggettiva con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui era stato posto in essere.

3.2. Il motivo è infondato.

Valga anche in questo caso sopra evidenziato con riguardo ai limiti dell’inottemperanza alle direttive datoriali.

In ogni caso, i rilievi impingono, in modo inammissibile, nella valutazione di merito.

La Corte territoriale, con motivazione congrua, logica e rigorosa, ancorata a sintomatici rilievi fattuali, ha spiegato perchè il richiamo al tempo tuta, al preteso uso aziendale ed al diritto all’eventuale straordinario non potessero assurgere a valide giustificazioni del comportamento del N..

Ha, così, evidenziato che la questione del tempo tuta non risultasse essere stata sollevata dai sindacati nè tantomeno dal N., nelle sedi a ciò deputate, nè formalmente e ufficialmente sottoposta all’azienda e comunque precisato che anche un eventuale diritto ad includere nell’orario di lavoro il tempo per la vestizione, il lavoratore, avendo solo eventualmente diritto al compenso aggiuntivo, sarebbe stato in ogni caso tenuto a completare il turno. E tale valutazione è conforme ai principi espressa da questa Corte secondo cui laddove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre solo se tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (cfr. da ultimo Cass. 28 marzo 2018, n. 7738 oltre a Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352; Cass. 15 gennaio 2014, n. 692; Cass. 7 giugno 2012, n. 9215).

La Corte territoriale ha, inoltre, sottolineato che le dimensioni del magazzino e l’esiguo numero dei dipendenti ivi addetti non potessero qualificare come uso aziendale la mera prassi di interrompere la prestazione alcuni minuti prima della fine del turno ed ha rimarcato che la società avesse avvisato tutti i lavoratori di rispettare l’orario di lavoro.

Come già osservato da questa Corte – v. Cass. n. 22 giugno 2006, n.14472, Cass. 10 novembre 2000, n. 14606, Cass. 27 novembre 1999, n. 13294 – l’uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, presuppone non già una semplice reiterazione di comportamenti ma uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo. Nell’individuazione di tale intento negoziale non può prescindersi dalla rilevanza dell’assetto normativo positivo in cui esso si è manifestato, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se non per violazione di criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione.

Nella specie, con motivazione congrua e logica (che supera certamente la soglia del minimo costituzionale di cui al nuovo art. 360 c.p.c., n. 5 – v. Cass., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053 -) e sulla base del materiale istruttorio esaminato La Corte salernitana ha spiegato perchè le modalità di interrompere la prestazione alcuni minuti prima della fine del turno da parte di solo quattro lavoratori che, quali addetti al magazzino, si avvicendavano nei due turni di lavoro,non potesse assurgere a prassi condivisa così da scriminare il comportamento addebitato al N., precisando che si era trattato di una modalità concordata autonomamente solo da tali lavoratori, senza alcuna rigidità della determinazione dei minuti o della frequenza settimanale del suo utilizzo e senza alcuna obbligatorietà della sua attuazione nei rapporti tra gli stessi lavoratori, e che, pur essendo stata la stessa per un certo periodo tollerata dall’azienda, quest’ultima già da tempo (e non dunque solo dopo il licenziamento del N.) aveva diramato un comunicato aziendale (del 30/4/2009) con il quale aveva evidenziato che eventuali uscite anticipate dal lavoro sarebbero dovute essere previamente chieste e autorizzate.

A fronte di tale argomentazione il ricorrente propone una diversa lettura, a sè favorevole, degli esiti di causa, ma ciò non è consentito in questa sede di legittimità.

Quanto alla questione dello straordinario, la Corte territoriale ha precisato che era stato già raggiunto un accordo tra il datore di lavoro e le rsu (sottoscritto anche dal N. nella qualità di sindacalista) confermativo del diritto dei dipendenti alla maggiorazione per l’eventuale superamento dell’orario contrattuale settimanale secondo le modalità previste dal c.c.n.l. e significativo del fatto che le rivendicazioni economiche del personale, laddove sottoposte all’attenzione dell’azienda, avevano trovato positivo riscontro in sede di trattative.

Ha, quindi, escluso che l’inadempienza addebitata potesse dirsi marginale o di scarsa rilevanza perchè volta a rivendicare un preteso diritto dei lavoratori, in quanto le modalità fattuali e le circostanze del caso concreto avevano rivelato la piena consapevolezza del N. di compiere un’azione che produceva intralci all’organizzazione dell’attività aziendale e frizioni nell’ambiente di lavoro (frizioni che, anzi, il N., con un chiaro atteggiamento di sfida, aveva inteso espressamente provocare).

Come da questa Corte già precisato con riguardo a vicenda in qualche modo analoga a quella oggetto di causa, non è affetto da vizi logici o giuridici il giudizio del giudice di merito secondo cui è ravvisabile una grave e rilevante insubordinazione nel comportamento del lavoratore che, nonostante i ripetuti richiami e l’adozione di provvedimenti disciplinari conservativi, si rifiuti di ottemperare alla disposizione del contratto collettivo in base alla quale i lavoratori devono indossare la divisa da lavoro appena giunti in azienda, prima di ogni altra operazione e specificamente prima di timbrare il cartellino, nè, in tale quadro, può fondatamente farsi valere in senso contrario la convinzione del lavoratore, rappresentante sindacale, circa l’erroneità della interpretazione del contratto o l’illegittimità della clausola in questione (convinzione che avrebbe potuto giustificare il preventivo ricorso all’autorità giudiziaria), una volta accertato che nessuna discriminazione è stata attuata nei suoi confronti in dipendenza della funzione sindacale esercitata (v. Cass. 18 novembre 1997, n. 11475).

La Corte territoriale ha anche raffrontato la condotta del N. con quella di altri dipendenti che si erano allontanati in qualche occasione prima della fine del turno e, con valutazione non censurabile in questa sede, ha evidenziato le diversità dei comportamenti sottolineando che quello degli altri dipendenti (raggiunti da mere sanzioni conservative), a differenza di quello del N. (che, come riferito dal teste M., ne faceva una vera e propria questione di principio e mi diceva di avvisare il mio superiore che lui se ne andava in anticipo), non era stato reiterato, non era stato altrettanto grave e comunque era stato seguito dalle scuse dei dipendenti medesimi che poi si erano adeguati, osservandole, alle disposizioni aziendali.

Nella valutazione della condotta del lavoratore, in contrasto con gli obblighi che sullo stesso incombevano, è stato anche considerato il particolare disvalore ambientale che tale condotta aveva assunto in quanto, proprio in virtù del ruolo sindacale rivestito dal N., essa poteva assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi (v. Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208; Cass. 6 giugno 2014, n. 12806; Cass. 15 settembre 2017, n. 21506).

4.1. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 15 e 18, L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 108 del 1990, art. 8, art. 2967 c.c. nonchè omesso esame di un fatto decisivo sulla pretesa natura discriminatoria del licenziamento intimato. Rileva che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che il N., esponente di vertice del sindacato CISAL, era stato l’unico operaio addetto al magazzino (OMISSIS) a ricevere otto contestazioni a raffica ed in rapida successione e ad essere stato licenziato per essersi attenuto ad una `mera prassì osservata negli stessi giorni dai suoi stessi colleghi che non avevano ricevuto nemmeno una contestazione disciplinare per essersi egualmente attenuti a quella prassi modificata solo dopo il suo licenziamento.

4.2. Il motivo presenta plurimi profili di inammissibilità.

Innanzitutto è promiscuamente formulato art. 360 c.p.c., ex nn. 3 e 5 con la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge o di codice e del vizio di omesso esame ma tale modalità di formulazione risulta non rispettosa del canone della specificità del motivo allorquando – come nella specie nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità (Cass., Sez. U, 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. U, 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862).

Inoltre il N. pone la questione della violazione delle previsioni della L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300 del 1970, art. 15, della L. n. 108 del 1990, art. 3 assumendo la sussistenza di un licenziamento in sè discriminatorio laddove, per quanto si rileva dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso per cassazione (pag. 5), la deduzione del ricorrente era stata, ad initio, semplicemente (e invero genericamente) quella del licenziamento ritorsivo rispetto all’intensissima attività sindacale dal medesimo svolta e cioè quella del licenziamento quale ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del dipendente – si veda per una differenziazione tra le due ipotesi Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Dunque quella sottoposta al contraddittorio delle parti, ed oggetto del decisum della Corte d’appello, era stata la questione del licenziamento connotato da un motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c. (il riferimento al carattere discriminatorio era stato pur sempre rapportato a tale motivo illecito). Si evince, in realtà, che il N. abbia richiamato le sopra indicate norme in sede di ricorso in opposizione (v. pag. 21 del controricorso della società) tuttavia, a fronte di una motivazione della Corte d’appello tutta incentrata sul motivo illecito, le censure avrebbero dovuto essere dirette a scardinare una non corretta interpretazione della domanda giudiziale. E tanto non è avvenuto. O in ogni caso avrebbero dovuto essere dirette a criticare l’applicazione ad una domanda quale quella in ipotesi ritualmente formulata (v. la già citata Cass. n. 6575/2016) dei principi affermati da questa Corte in materia di licenziamento per motivo illecito (Cass. 26 maggio 2001, n. 7188; Cass. 25 maggio 2004, n. 10047; Cass. 14 luglio 2005, n. 14816; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283; Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986). Ma anche ciò non è avvenuto.

Ad onta delle indicate violazioni di legge, i rilievi si limitano a proporre una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito, rivalutazione certamente preclusa in sede di legittimità alla stregua del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, così come rigorosamente interpretato da citata Cass. Sez. U, n. 8053/2014.

Nella specie la Corte territoriale, sulla base dell’esame degli esiti dell’istruttoria svolta, ha escluso che il licenziamento del N. potesse essere avvenuto a causa della carica sindacale dallo stesso ricoperta e altresì escluso la sussistenza di un trattamento deteriore, riservato al predetto rispetto a quello di altri dipendenti, quale effetto del ruolo di sindacalista dal medesimo rivestito.

Rispetto a tale congruo apprezzamento delle risultanze di causa, il ricorrente sviluppa mere critiche di merito contrapponendo alla valutazione della Corte d’appello una propria diversa interpretazione, ma ciò non è ammissibile in questa sede.

5. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

6. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

7. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2018

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