Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2238 del 02/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/02/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 02/02/2021), n.2238

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25788/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

L.M., rappresentata e difesa dal Prof. Avv.

Pierfrancesco Zecca e dall’Avv. Eugenia M. Santoro, con domicilio

eletto presso lo studio dell’Avv. Mariafrancesca de Pasqua in Roma,

via Arnobio, 27;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia n. 510/05/2017, depositata il 21 febbraio 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 novembre

2020 dal Consigliere Dott. Michele Cataldi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate ha notificato a L.M. tre avvisi d’accertamento, in materia di Irpef, con i quali, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67, comma 1, lett. l), – ha sottoposto a tassazione la parte, pagata negli anni d’imposta 2009, 2011 e 2012 alla contribuente, dei corrispettivi pattuiti per la costituzione, nel 2009, su terreni agricoli di proprietà di quest’ultima ed a favore di terze società di capitali, di diritti di superficie, di durata venticinquennale, finalizzati all’installazione di impianti fotovoltaici. L’Ufficio ha infatti ritenuto che l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, dilazionata convenzionalmente in rate semestrali, gravante sulle società superficiarie a favore della contribuente, costituisse per quest’ultima la realizzazione di uno dei “redditi diversi” imponibili, trovando titolo nell'”assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” di cui al predetto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l).

2. La contribuente ha impugnato gli accertamenti dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Bari, che ha rigettato il ricorso avverso l’accertamento di cui all’anno 2011; ha accolto parzialmente, limitatamente alle sanzioni, quello avverso l’accertamento di cui all’anno 2012, rigettandolo per il resto; ed ha dichiarato inammissibile, per tardività, quello contro l’accertamento relativo all’anno 2009.

3. Quindi la stessa contribuente ha proposto appello avverso le decisioni di primo grado dinnanzi la Commissione Tributaria Regionale della Puglia che, riuniti i ricorsi, con la sentenza n. 510/05/2017, depositata il 21 febbraio 2017, ha rigettato l’impugnazione avverso la sentenza che aveva dichiarato inammissibile, per tardività, il ricorso della contribuente contro l’accertamento relativo all’anno 2009; ed ha accolto gli appelli avverso le sentenze che avevano rigettato i ricorsi introduttivi della contribuente contro gli avvisi di accertamento di cui agli anni 2011 e 2012, che ha annullato riformando le sentenze di primo grado.

L’Ufficio ha allora proposto ricorso, affidato ad un solo motivo, per la cassazione della sentenza d’appello.

La contribuente si è costituita con controricorso ed ha depositato una memoria ed un atto di costituzione di ulteriore difensore con contestuale memoria.

Diritto

L’Ufficio ha depositato una memoria per l’adunanza del 23 ottobre 2018, poi rinviata a nuovo ruolo, ed una memoria per quella attuale. CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, con riferimento alla memoria della controricorrente, deve rilevarsi che la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., che, in luogo del deposito cartaceo, sia tempestivamente consegnata alla cancelleria della sezione a mezzo di PEC proveniente dall’indirizzo indicato dal difensore in sede di costituzione, è legittimamente esaminata dalla Corte, laddove il relativo file sia munito di certificazioni informatiche, attesa la tendenziale contiguità cronologica tra inoltro del messaggio e consegna telematica e tenuto conto della sostanziale equiparazione della PEC al plico postale raccomandato (già stabilita dall’abrogato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 48, ed ora dal vigente medesimo D.Lgs., art. 6, comma 1,), nonchè dei principi generali di strumentalità delle forme e di raggiungimento dello scopo.

2. Sempre preliminarmente, è infondata l’eccezione di tardività del ricorso sollevata dalla contribuente nel controricorso. Infatti, premessa l’avvenuta notifica, tramite la consegna della sentenza impugnata direttamente alla parte pubblica (sull’idoneità di tale modalità a far decorrere il termine breve per impugnare cfr. Cass. 22/06/2018, n. 16554), la successiva spedizione della notifica a mezzo posta del ricorso per cassazione è intervenuta nel conseguente termine breve di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c., la cui scadenza originaria è maturata nella pendenza della sospensione dei termini per impugnare – dal 24 aprile al 30 settembre 2017- prevista dal D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 11, comma 9, convertito nella L. 21 giugno 2017, n. 96, ed è stata quindi prorogata in applicazione di tale disposizione.

La rilevanza, nel caso di specie, della predetta sospensione legale del termine per proporre il ricorso è infatti allegata dalla stessa controricorrente, che tuttavia ne mette in dubbio, con formula perplessa, l’applicabilità anche alla parte pubblica soccombente, senza tuttavia che tale esclusione trovi alcun conforto nel dettato normativo, che non contempla eccezioni all’automatico (Cass. 07/05/2019, n. 11913) effetto sospensivo legale, purchè la lite rientri tra quelle definibili e il termine sia spirato tra il 24 aprile 2017 e il 30 settembre 2017, condizioni incontestate nel caso di specie.

3. Con l’unico motivo, l’Ufficio ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, lamentando che il giudice a quo “ha omesso di verificare se nella fattispecie fosse o meno applicabile la disposizione richiamata negli avvisi d’accertamento, e precisamente l’art. 67 TUIR, comma 1, in forza del quale (lett. l) “Sono redditi diversi (…) i redditi derivanti (…) dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.

Il motivo è inammissibile, atteso che con esso non si censura in realtà l’omesso esame di un fatto storico, ma si lamenta la pretesa violazione di cui al predetto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l). Il contenuto concreto del mezzo esorbita quindi i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione applicabile ratione temporis in relazione alla data di deposito della decisione impugnata.

L’inammissibilità non è esclusa dalle deduzioni esposte dall’Amministrazione nella memoria, con le quali il motivo viene riferito all’assunto omesso esame, da parte della CTR, di alcune clausole dei contratti costitutivi del diritto di superficie, che avrebbe compromesso l’interpretazione dei relativi negozi come fonti del diritto reale parziario di superficie, piuttosto che come titoli di natura locatizia ed ad effetto puramente obbligatorio.

Invero, anche in questi termini, il motivo prospettato è inammissibile, poichè ” In tema di ricorso per cassazione, l’omesso esame di una questione riguardante l’interpretazione del contratto, non costituendo “fatto decisivo” del giudizio, non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che rientrano in tale nozione gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi.” (Cass. 13/08/2018, n. 20718).

Inoltre, ” In tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali.” (Cass. 15/11/2017, n. 27136); ” non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 28/11/2017, n. 28319).

Nel caso di specie, la formulazione del motivo non è in linea con tali requisiti di ammissibilità.

3.1. Tanto premesso, il motivo, inammissibile, è comunque anche infondato, nei termini che seguono.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, “In materia di imposta sui redditi, la plusvalenza derivante da cessione del diritto di superficie dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dall’acquisto dell’immobile non è soggetta a tassazione come “reddito diverso” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 81 (ora 67), comma 1, lett. b) o l), qualora abbia ad oggetto un terreno agricolo, atteso che, da un lato, la lett. b) è applicabile solo alle aree fabbricabili e, dall’altro, la generale equiparazione del trasferimento di un diritto reale di godimento al trasferimento del diritto di proprietà, prevista dallo stesso decreto, art. 9, comma 5, non consente di ricondurre l’obbligo di concedere a terzi l’utilizzo di un terreno agli obblighi “di permettere”, di cui alla lett. l), che si riferiscono a diritti personali piuttosto che a diritti reali.”(Cass. 04/07/2014, n. 15333; conformi Cass. 07/06/2018, n. 14847; Cass. 18/10/2018, n. 26147).

All’orientamento di questa Corte si è del resto espressamente adeguata la stessa Amministrazione, con la circolare n. 6/E del 20 aprile 2018, secondo cui ” stante la formulazione generica dell’art. 9 TUIR, comma 5, si ritiene che l’equiparazione effettuata dalla norma debba operare indistintamente ogni volta in cui si configuri la costituzione o la cessione, a titolo oneroso, di diritti reali di godimento e, nel caso specifico, del diritto di superficie.

Di conseguenza, in base a quanto sopra esposto, si ritiene che alla costituzione ed alla cessione di diritti reali di superficie deve essere comunque applicata la normativa prevista per le cessioni a titolo oneroso e, in particolare, quella contenuta negli artt. 67 e 68 TUIR.”.

L’argomentazione della ricorrente, secondo la quale i diritti di superficie costituiti hanno durata determinata e non permanente, non appare dirimente al fine di contrastare il descritto orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla stessa prassi amministrativa.

Infatti, l’art. 953 c.c., stabilisce espressamente la possibilità di un diritto di superficie a termine, senza per ciò solo farne derivare un mutamento della natura reale della medesima situazione soggettiva. Tanto meno, poi, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 5, esclude l’estensione, ai fini delle imposte sui redditi, delle disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso, anche agli atti a titolo oneroso che importano costituzione di diritti reali di godimento a tempo determinato.

Non ha quindi errato il giudice a quo laddove ha ritenuto che la quota, oggetto dell’accertamento controverso, dei corrispettivi della costituzione dei diritti di superficie in questione, non fosse imponibile, quale reddito diverso, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l).

Nè, d’altronde, la Corte può, d’ufficio, in sede di legittimità, verificare se la tassazione della somma in questione possa o meno trarre titolo nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. b), quale plusvalenza, ove ne ricorrano i presupposti fattuali e giuridici. A ciò osta infatti “la delimitazione dell’oggetto del giudizio tributario nell’ambito dei motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, che il contribuente deve dedurre specificamente nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Se ciò comporta che il giudice deve necessariamente attenersi all’esame dei motivi di ricorso, senza che possa annullare il provvedimento impositivo per vizi diversi da quelli dedotti (cfr., ex multis, Cass. sez. 5, 22 settembre 2011, n. 19337; Cass. sez. 5, 15 ottobre 2013, n. 22326; Cass. sez. 5, 2 luglio 2014, n. 15051; Cass. sez. 6-5, ord. 13 aprile 2017, n. 9637), a ciò ugualmente consegue che il giudice non possa ritenere la legittimità del provvedimento impositivo sulla base di presupposti di fatto e di diritto diversi da quelli, che hanno delimitato l’ambito della pretesa impositiva, che il contribuente non avrebbe altrimenti potuto contestare con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.” (Cass. 27/03/209, n. 27129, in motivazione, ai punti 5.3 e 5.4).

Nel caso di specie, la pretesa erariale di cui all’atto impositivo, ed al conseguente giudizio di merito, era fondata sulla fattispecie fattuale e giuridica di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l), come risulta, oltre che dal controricorso della contribuente, dalla stessa sentenza d’appello impugnata (senza contestazioni sul punto dell’Ufficio controricorrente).

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2021

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