Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22366 del 26/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 26/09/2017, (ud. 24/11/2016, dep.26/09/2017),  n. 22366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13692/2015 proposto da:

P.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ELEONORA DUSE 53,

presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO TRAVAGLINI, rappresentato

e difeso dagli avvocati SERGIO GENTILE, GIANFRANCO TARANTINO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BISCEGLIE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PORTUENSE

104, presso lo studio dell’avvocato ANTONIA DE ANGELIS,

rappresentato difeso dall’avvocato BRUNO PIETRO LOGOLUSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 165/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 11/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/11/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato PETRAROTA Vito, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato GENTILE Sergio, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) Nel 1976 il Comune di Bisceglie ha adito il tribunale di Trani esponendo che su istanza del convenuto P.V. aveva disposto la sdemanializzazione di due vicoli che il privato intendeva utilizzare per la costruzione di un fabbricato; che il convenuto non aveva pagato il corrispettivo fissato dal Comune, ma si era impossessato delle aree.

Il Comune ha chiesto pertanto l’adempimento delle obbligazioni previste in delibera o il risarcimento del danno.

Nel 2001 il tribunale ha accolto la domanda condannando P. al pagamento di Lire 65.400.000 oltre rivalutazione dal 1980 alla data della sentenza.

La Corte di appello di Bari con sentenza n. 289 del 2006 ha rigettato la domanda del Comune.

Tale sentenza è stata cassata dalla sentenza n. 21128 del 2012 della Suprema Corte.

In sede di rinvio la Corte di appello ha ritenuto che in forza della presunzione di demanialità le aree occupate dovevano essere considerate tali. Ha però accolto il motivo di appello relativo all’ammontare del danno risarcibile; ha quindi ridotto del 30% la somma dovuta all’ente territoriale.

P.V. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi; il Comune ha resistito con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 2248 del 1865, art. 22, all. F, vizi di motivazione e violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c.. Secondo il ricorrente la Corte di appello in sede di rinvio ha applicato la presunzione di demanialità senza valutare la sussistenza o meno dei presupposti necessari di applicabilità della presunzione. Egli sostiene che nel proprio secondo motivo di appello aveva contestato la sussistenza di tali presupposti e in particolare la loro insufficienza “mancando lo stabile inserimento nel tessuto viario cittadino”, la utilizzazione da parte della generalità dei cittadini.

La censura è per ogni aspetto infondata.

Sotto il profilo della violazione di legge lo è perchè la Corte di appello si è allineata espressamente alle valutazioni del tribunale prima, e della Corte di Cassazione poi, circa la operatività dell’art. 22 in ordine alla presunzione di demanialità.

Il giudizio della Corte di Cassazione si è basato proprio sul fatto che la presunzione era stata ignorata, pur trovandocisi in presenza di un caso in cui appariva la sussistenza dei presupposti per farne applicazione. In caso contrario avrebbe dovuto rigettare il ricorso.

Dunque la riconducibilità del caso all’art. 22, era già stata sancita dalla Corte Suprema, nei limiti della sua cognizione, con la cassazione della prima sentenza di appello.

La Corte di appello ha infatti riassunto l’esito del giudizio di legittimità precisando (al punto numerato come 5 di pagina 4) che era tra i presupposti stabiliti dalla Corte di Cassazione, nel 2012, sia “la presunzione di demanialità del bene”, sia “lo stabile inserimento nell’ambito del tessuto viario cittadino dei vicoli in contestazione”.

Sotto il profilo motivazionale non è vero che la Corte di appello non abbia considerato la problematica.

In ordine alla presunzione di demanialità e al mancato superamento di essa ha fatto espresso rinvio (cfr. pag. 5) alla sentenza di primo grado, che già si era pronunciata in tal senso. E’ quindi da escludere che si verta in caso di assenza di motivazione ex artt. 112 e 132 c.p.c..

Le censure motivazionali nel regime applicabile ratione temporis (Cass. 26654/14 e 10693/16) sono limitate all’omesso esame di fatti controversi, fatti che non sono stati identificati dal ricorso.

Esso non indica infatti specifiche circostanze provate in causa, cioè inconfutabili risultanze degli atti, dalle quali possa emergere l’omesso esame. Si duole, sia pur abilmente, che non sarebbe stato studiato il presupposto remoto della vicenda, cioè l’appartenenza alla rete viaria, ma sulla demanialità e quindi sui suoi presupposti – la valutazione del tribunale, recepita dalla seconda sentenza d’appello, è presente.

Il tribunale addirittura ha parlato chiaramente di demanialità dei vicoli come fatto “altrettanto incontrastato tra le parti” e provato attraverso certificazioni ufficiali (terza pagina). Ha aggiunto che i due vicoli sono posti nell’area urbana, contigui alla centralissima (OMISSIS) e in diretta comunicazione con il suolo pubblico (quarta pagina). Ha specificato che sono inclusi nell’elenco pubblico. Se ne desume quindi che il tribunale ha svolto le valutazioni del caso sulle questioni che vengono sollevate nel motivo, valutazioni espressamente condivise in appello e incensurabili da questa Corte, che non può ingerirsi negli apprezzamenti di fatto del giudice di merito.

E dubitare, come fa il ricorso a pag. 10, che questi obbiettivi riscontri abbiano una fortissima portata probante in ordine all’uso da parte della collettività e al conseguente inserimento viario si risolve in una affermazione apodittica, non valorizzabile sotto il profilo della omessa motivazione.

Nè si possono considerare le circostanze nuove, comunque non decisive, dedotte in memoria dal ricorrente.

D’altra parte, si deve qui osservare, la stessa istanza di sdemanializzazione, premessa di tutta la vicenda, legittimava il rilievo, non affrontato dal ricorso, secondo cui era “incontestata” la demanialità come punto di partenza dell’applicazione della presunzione di cui l’art. 22, rilievo inequivocabilmente raccolto dal giudice del rinvio (dopo la cassazione della prima discordante sentenza della Corte di secondo grado) con l’espresso richiamo alla sentenza del tribunale, che aveva percorso questo iter logico.

3) Il secondo motivo denuncia i medesimi vizi del primo motivo, sotto altro profilo.

Parte ricorrente sostiene che era in atti la prova della proprietà privata dei due vicoletti, che sarebbe costituita da una relazione di un Dirigente comunale dell’UTC, in cui questi, sulla base di una nota del P. e rivedendo un precedente proprio parere, aveva espresso l’avviso che si sarebbe trattato di area privata gravata da servitù uso pubblico.

La tesi è priva di pregio. Il parere espresso dal tecnico comunale era fondato su aleatorie e remote circostanze di fatto quali la presenza di un restringimento con blocchi di pietra, il tipo di pavimentazione e la presenza di una cisterna piovana. Costituiva pertanto una mera opinione ricostruttiva sull’originaria conformazione della area. Un siffatto parere non costituisce documento probatorio della proprietà, che va documentata con i titoli di acquisto o con argomenti probatori attuali e muniti dei caratteri di legge per essere idonei ex art. 22, a superare la presunzione di demanialità.

Esclusa quindi la portata vincolante di una simile documentazione, l’apprezzamento di fatto svolto dall’autorità giudiziaria di merito, alla quale è demandato il compito di valutare le circostanze del caso singolo, è insindacabile da parte del giudice di legittimità. Il giudice di merito non è tenuto a dar conto di ogni singola circostanza documentale o testimoniale raccolta in istruttoria (Cass. 11910/15; 701/15). Inoltre nel nuovo regime normativo il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. civ. (ord.),28-09-2016, n. 19150Cass. 05-12-2014, n. 25756).

Nella specie non può certo dirsi che i riscontri del parere tecnico abbiano questa caratura, giacchè la valutazione giuridica è stata doverosamente condotta dai giudici di merito sulla base della complessiva valutazione degli elementi disponibili alla luce della normativa vigente e non di soggettive deduzioni di uno dei professionisti, non giurista, occupatisi della vicenda.

3) Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3; omesso esame di un fatto decisivo.

Il ricorrente richiama, senza riportarlo, il quarto motivo di appello e sostiene che in quella sede aveva segnalato che egli aveva utilizzato il suolo di uno soltanto dei vicoletti e non l’altro e che ciò sarebbe stato attestato dal ctu. Si duole quindi di essere stato condannato a indennizzare il comune per entrambi i vicoletti e del fatto che la Corte di appello non si sia pronunciata sul punto.

La censura è inammissibilmente formulata e comunque infondata.

La Corte di appello non si è soffermata specificamente, come già la Cassazione, sulla forma di utilizzo dei due vicoletti, ma ha considerato complessivamente che la causa si incentrava sulla questione della demanialità di entrambi i vincoli, ampiamente trattata.

La distinzione fatta nel quarto motivo di appello era invero inidonea a scindere la sorte dell’uno da quello dell’altro, posto che il tribunale aveva rilevato che erano “fatti incontestati tra le parti ed accertati dalla puntuale indagine svolta dal c.t.u. che la superficie complessiva dei due vicoli pari a mq 109 è stata inglobata nel fabbricato realizzato dal costruttore P. e successivamente da questi utilizzati per fini privati”.

A fronte di tale risultanza il motivo di appello non risulta aver censurato la ratio della non contestazione, da sola sufficiente a reggere la decisione.

E anche le risultanze della c.t.u. non sono state trattate nelle 9 righe del motivo di appello numerato sub 4.

Inoltre esso è da considerare un motivo perplesso, che ambiguamente contestava la sentenza di primo grado dicendo di non aver beneficiato del suolo “quanto meno ai fini edificatori”.

La questione da porre era però l’inglobamento e l’appropriazione del beni, eseguita dal ricorrente secondo il progetto che lo aveva indotto a chiederne la proprietà previa sdemanializzazione. L’aver rifiutato la richiesta di prezzo formulata dal Comune, nel contempo realizzando ugualmente il progetto, costituiva già comportamento appropriativo che è stato valutato dal tribunale e che ha indotto la Corte di appello a considerare irrilevante la censura incompleta e inconsistente che era mossa sub 4.

Va aggiunto che in questa sede il motivo di ricorso non riporta in dettaglio i passaggi della vicenda, che per chiarezza espositiva sono stati qui ricostruiti con accesso agli atti in relazione alla natura processuale del vizio di omessa pronuncia. Tuttavia, per essere ammissibile, il motivo di ricorso avrebbe dovuto dettagliatamente esporre (cfr. Cass. SU 8077/12) i passaggi della questione e documentare la ammissibilità e decisività del motivo di appello.

5) L’ultimo motivo si incentra sugli artt. 1223 e 2056 c.c. e concerne l’ammontare del risarcimento.

Il ricorrente sostiene che l’importo liquidato dal tribunale fosse sproporzionato, avendo valutato in 600.000 Lire al metro quadro non il valore del suolo ma il valore dei locali terranei costruiti demolendo le vecchie fabbriche. Sostiene che i vani furono venduti a prezzo di soli 120.000 Lire al mq e che il tecnico comunale dell’UTC aveva valutato il suolo in 50.000 Lire al mq. Lamenta che anche la riduzione del 30% accordata dalla Corte di appello non sia sufficiente. La censura è per alcuni aspetti inammissibile, per altri infondata. L’ambito del controllo in cassazione degli apprezzamenti di fatto è stato limitato dal ricordato nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. SU 8053/14): nel caso di specie la valutazione del tribunale è stata basata su consulenza tecnica e le critiche rivolte a questa valutazione sono state considerate e in parte accolte. Non vi è stata omissione di esame di fatti rilevanti.

Il risarcimento del valore del suolo di cui un soggetto si sia impossessato va ancorato al valore concreto, quale si sarebbe potuto ricavare in quella peculiare situazione negoziale; in quella peculiare situazione il Comune, verosimilmente tenendo conto dell’interesse della controparte e dell’utilità che ne avrebbe tratto ad edificare, aveva fissato la sua pretesa nel valore del costruito di un piano di quell’erigendo fabbricato, che si sarebbe valso dell’area occupata dei vicoli.

Questo è stato considerato dal primo giudice il valore di mercato di quel bene, con valutazione che è stata rimodulata dalla Corte di appello.

L’aspirante acquirente avrebbe dovuto avviare e concludere una trattativa con l’ente: ha invece deciso di procedere con il suo progetto, evidentemente confidando di potere acquisire i beni al prezzo di mercato di una qualunque area edificabile. Questa condotta è lecita, previa la doverosa attività amministrativa, per gli enti pubblici muniti di potere espropriativo, non per i privati, sicchè ineccepibilmente e senza violazione di legge alcuna il controvalore è stato stabilito avendo riguardo al valore di mercato che in concreto la vendita di quella specifica area avrebbe potuto avere.

Questa stima è, come detto, insindacabile in questa sede.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

Va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna alla refusione delle spese di lite liquidate in euro 2.500 per compenso, Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge, rimborso delle spese generali (15%).

Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione seconda Civile, il 24 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2017

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