Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22366 del 06/09/2019

Cassazione civile sez. lav., 06/09/2019, (ud. 21/05/2019, dep. 06/09/2019), n.22366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28238-2017 proposto da:

LA GARDENIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore

domiciliata ope legis presso la Cancelleria della Corte di

Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato CLAUDIO LANZOTTI;

– ricorrente –

contro

D.L.V., domiciliato ope legis presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato GAETANO

MAIURI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7189/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 27/11/2017 R.G.N. 741/2017;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

La Corte d’appello di Napoli con sentenza resa pubblica il 27/11/2017, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato in data (OMISSIS) ex L. n. 223 del 1991, dalla s.r.l. La Gardenia nei confronti di D.L.V. e condannava la società alla reintegra del lavoratore nonchè al pagamento della indennità sancita dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione di fatto.

Nel proprio iter motivazionale la Corte distrettuale – dopo aver respinto l’eccezione di litispendenza sollevata dalla appellata con riferimento al pregresso giudizio instaurato inter partes innanzi al Tribunale di Napoli, successivamente dichiaratosi incompetente, ed in seguito riassunto presso il Tribunale di Torre Annunziata – rilevava la violazione, nella specie, dei dettami di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, non avendo la società – nel contesto delle comunicazioni inviate ai lavoratori ed alle organizzazioni sindacali – in alcun modo indicato i criteri di scelta del personale licenziato, escludendo altresì che tale violazione di legge integrasse i requisiti del mero vizio della procedura, cui il novellato L. n. 223 del 1991, art. 5, connette esclusivamente una tutela di tipo indennitario.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.r.l. La Gardenia affidato a due motivi, cui oppone difese la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Con il primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 39 c.p.c., dell’art. 2909 c.c., nonchè dell’art. 324 c.p.c..

Si deduce in via di premessa che il D.L. era stato dipendente della società presso il cantiere di Quarto con mansioni impiegatizie sino al 12/12/2013, e poi, a seguito di impugnativa del licenziamento (intimato il (OMISSIS)) e successiva transazione, aveva ripreso la propria attività alle dipendenze de La Gardenia, sino al giorno (OMISSIS), allorchè era stato nuovamente licenziato per “giustificato motivo/oggetto passaggio di cantiere”, essendo subentrata nel cantiere la s.r.l. G.P.N. nuova affidataria del servizio rifiuti.

Ci si duole che la Corte di merito abbia escluso la configurabilità di una situazione di litispendenza rispetto al pregresso giudizio instaurato innanzi al Tribunale di Torre Annunziata, concernente “il diritto alla assunzione del sig. D.L. a seguito della cessazione dell’appalto presso il Comune di Quarto e del licenziamento dell'(OMISSIS) comminato da La Gardenia s.r.l.”.

Viene prospettata, in sintesi, una duplicazione di attività processuale originata da una medesima domanda che, “benchè proposta a due giudici competenti, appare chiaramente preordinata allo scopo illegittimo di aumentare le probabilità di accoglimento, se non addirittura di conseguire una doppia utilità”, con conseguente configurazione di una situazione di litispendenza, oltre che di violazione del ne bis in idem e di abuso dello strumento processuale.

2. Il motivo è infondato.

Con il primo giudizio infatti – per quanto desumibile dal tenore del ricorso instaurato innanzi al Tribunale di Napoli, riportato nell’atto introduttivo del presente giudizio – il lavoratore chiedeva, accertata la nullità dei contratti a termine apposti mensilmente dall’ottobre 2013 al marzo 2014, dichiararsi l’intercorrenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed in subordine, accertare il diritto alla assunzione alle dipendenze della G.P.N. s.r.l. società subentrante a La Gardenia s.r.l. nella gestione dell’appalto di servizi di igiene urbana presso il Comune di Quarto dal 18/3/2015 o dal 8/5/2015, ferma l’ulteriore domanda nei confronti della Melito Multiservizi s.p.a. per il periodo 13/8/2014-16/10/2014, di attivare la concreta funzionalità del rapporto per il periodo in questione.

E’ noto, invero, che l’istituto della litispendenza presuppone identità dei soggetti, del “petitum” – inteso quale bene della vita del quale si chiede la tutela – e della “causa petendi” – ossia del fatto costitutivo della domanda la quale non viene meno per il fatto che in una delle cause vi sia la presenza anche di altre parti (vedi ex plurimis, Cass. 12/02/2018 n. 3306, Cass. S.U. 31/7/2014 n. 17443).

Nello specifico, tuttavia, la condizione dell’azione che connota i diversi giudizi non può ritenersi sovrapponibile, ove solo si consideri che il petitum mediato è diverso, concernendo il primo giudizio, fra l’altro, anche l’accertamento della nullità dei contratti a termine intercorsi fra le parti, oltre alla riassunzione presso un diverso datore di lavoro, la società GPN, elementi sufficienti ad escludere la ricorrenza della identità degli elementi identificativi delle azioni, che bene ha posto in evidenza il giudice del gravame.

Non essendovi i presupposti per la definizione di una situazione di litispendenza, non sussiste neanche violazione del principio del ne bis in idem affermato dall’art. 39 c.p.c. e rispondente a irrinunciabili esigenze di ordine pubblico processuale, il quale non consente che il medesimo giudice o giudici diversi statuiscano due volte su identica domanda, in coerenza con la funzione primaria del processo consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche.

A fortiori, neanche è prospettabile nella specie, una situazione di abuso del diritto, non versandosi in alcuna ipotesi di contrasto con i principi del giusto processo sicchè, sotto tutti i profili delineati, la censura va disattesa.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, nonchè erronea, contraddittoria e carente motivazione. Si lamenta che la Corte di merito non abbia tenuto conto della circostanza, rimasta incontestata fra le parti, dell’intervenuto licenziamento di tutto il personale occupato presso il cantiere di Quarto. Nell’ottica descritta nessuna violazione dei criteri sanciti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, poteva, quindi, ragionevolmente prospettarsi.

Neanche dalla Corte di merito, era stato conferito adeguato rilievo alla circostanza che, perso l’appalto di Quarto, la società aveva dovuto far fronte ad un esubero strutturale, non essendovi “state acquisizioni di commesse nuove tale da giustificare la presenza del ricorrente presso gli uffici di Napoli”. Inoltre la società non aveva assunto alcun dipendente, “se non quelli già impiegati dalla impresa uscente presso il Comune di S. Anastasia” dove era “subentrata in un appalto in virtù dell’art. 6 del c.c.n.l. applicato al caso di specie”.

Si deduce quindi che l’obbligo della applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 e art. 5, comma 1, – funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo, la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui e non su altri – viene meno laddove a causa della soppressione della singola unità produttiva il lavoratore non possa essere reimpiegato.

4. Il motivo non è fondato.

In proposito non può mancarsi di considerare come gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame, si pongano sulla scia delle linee tracciate dalla. giurisprudenza della Corte di Giustizia, che, sul diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali consacrato dall’art. 27 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea approvata il 7 dicembre 2000 a Nizza – ha avuto modo di rilevare come tali obblighi sorgano anteriormente ad una decisione del datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro (Corte giustizia CEE 23 settembre 2017, C-149/16, essendo finalizzati a rafforzare la tutela dei lavoratori e ad uniformare la normativa degli Stati membri (Corte giustizia CEE 30 aprile 2015, C-80/14).

Il ruolo fondamentale che riveste il diritto all’informazione ed alla consultazione di cui sono destinatari i rappresentanti sindacali – i quali esclusivamente lo possono esercitare – nel contesto delle procedure di licenziamento collettivo, sottolineando in particolare (vedi sentenza 16/7/09 C-12/08) che l’art. 2 della direttiva 98/59 deve essere interpretato nel senso di impedire ad una normativa nazionale di ridurre gli obblighi del datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento collettivo rispetto a quanto statuito dallo stesso art. 2 della direttiva (punto 3 del dispositivo della suddetta sentenza); principi confermati successivamente dalla sentenza 13/2/14 C-596/12 secondo cui, armonizzando le norme applicabili ai licenziamenti collettivi, il legislatore comunitario ha inteso, nel medesimo tempo, garantire una protezione di livello comparabile dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e uniformare gli oneri che tali norme di tutela comportano per le imprese della Comunità (v. sentenze dell’8 giugno 1994, Commissione/Regno Unito, C-383/92, Racc. pag. 1-2479, punto 16, e del 12 ottobre 2004, Commissione/Portogallo, C-55/02, Racc. pag. 1-9387, punto 48).

Come osservato in dottrina, la procedura di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori è “evento strutturale e fisiologico nella gestione dell’impresa”, che pone a carico della parte datoriale un vincolo procedurale, elevato al rango di diritto fondamentale dell’Unione e che si pone quale contrappeso rispetto alla libertà di iniziativa economica.

La articolata procedura che scandisce i licenziamenti collettivi assicura, quindi, una tutela a tutti i lavoratori nella fase di risoluzione del rapporto, che risulta garantita dalla completezza del sistema informativo, e da tutti gli ulteriori adempimenti prescritti, assumendo l’obbligo di consultazione sindacale, valenza di elemento identificativo della procedura di licenziamento collettivo.

In siffatto contesto normativo, l’omessa indicazione dei criteri di scelta del personale in eccedenza da parte datoriale nella fase di consultazione, si è tradotto in evidente vulnus agli obblighi su tale parte gravanti, riverberando i propri riflessi sulla legittimità del provvedimento espulsivo irrogato.

Non. appare quindi configurabile alcun error in judicando nella pronuncia impugnata, perchè lo stigma del giudice del gravame concerne pr:oprio la violazione dell’obbligo da parte datoriale, di comunicazione dei criteri di scelta, che hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui, ad esempio, la cessazione dell’attività dissimuli la ripresa della attività produttiva (vedi Cass. 9/4/2003 n. 5516, Cass. 22/3/2004 n. 5700); obbligo cui la parte datoriale sarebbe stata astretta anche ove avesse inteso cessare l’attività e licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, dovendo egualmente effettuare, secondo i dicta di questa Corte – la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, con la precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito (Cass. 28/10/2010 n. 22033).

5. Nello specifico, peraltro, era dato incontroverso che gli unici dipendenti – licenziati erano stati i sei lavoratori non riassorbiti nel passaggio di cantiere dalla società GPN subentrata nel contratto di appalto e che la società ricorrente non aveva cessato la propria attività, avendo continuato a gestire il ciclo raccolta rifiuti presso il cantiere di Somma Vesuviana ove aveva assunto, per passaggio di cantiere, i dipendenti della precedente società aggiudicataria.

Nell’ottica descritta si impone l’evidenza della illegittimità della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, in quanto limitata ai soli (sei) dipendenti impiegati presso il cantiere di Quarto non assunti dalla subentrata società G.P.N. in assenza di alcuna individuazione dei criteri in base ai quali quei lavoratori fossero stati destinatari del provvedimento espulsivo e non anche agli altri lavoratori. addetti anche ad altri cantieri dello stesso settore della raccolta rifiuti (vedi Cass. 1/8/2017 n. 19105).

La Corte territoriale si è, quindi, attenuta al consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la riduzione del personale deve investire l’intero ambito aziendale a meno che gli specifici rami di azienda interessati siano caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre (Cass. 3/5/2011 n. 9711; Cass. 12/1/2015 n. 203).

La vicenda scrutinata è stata, dunque, correttamente sussunta nell’ambito dell’archetipo normativo di riferimento, in quanto ricondotta nell’alveo della violazione delle disposizioni che disciplinano il controllo devoluto dal legislatore “ex ante” alle organizzazioni sindacali, sul ridimensionamento dell’impresa.

6. L’omessa individuazione ed applicazione dei criteri di selezione previsti dalla procedura (L. n. 223 del 1991, ex artt. 4 e 5), si sostanziava, quindi, in una violazione della scansione procedimentale predisposta dalla legge; e questa violazione era così grave ed assoluta, da giustificare l’applicazione della – tutela reintegratoria ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, secondo cui in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, medesimo art. 18, comma 4, quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al comma 1 e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici mensilità.

Trascurando l’ipotesi, che qui non interessa, del licenziamento “intimato senza l’osservanza della forma scritta” di cui alla L. n. 92 del 2012, citato art. 1, comma 46, va infatti distinto il “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12” dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”.

La differenza è resa apprezzabile dal rilievo che, nel caso di violazione dell’obbligo procedurale, il lavoratore può essere comunque destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di criteri di scelta in concreto correttamente applicati, mentre, nel caso di violazione di criteri di scelta, il lavoratore non può essere in alcun modo incluso nel novero dei lavoratori licenziati (vedi in motivazione Cass. 2/2/2018 n. 2587, cui adde Cass. 17/7/2018 n. 19010).

Nello specifico, la assoluta omessa enunciazione nella fase di informazione e consultazione sindacale, di alcun criterio di scelta del personale da licenziare in seguito al subentro di altra società nella gestione dèi rifiuti presso il cantiere di Quarto, radica un difetto (per così dire) ontologico del recesso, che rinviene appropriata tutela mediante lo strumento reintegratorio approntato dal legislatore del 2012.

In tal senso, la pronuncia della Corte distrettuale si sottrae alle critiche formulate.

7. In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso va rigettato.

Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della. soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012,l art. 17, (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 21 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2019

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