Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22355 del 06/09/2019

Cassazione civile sez. II, 06/09/2019, (ud. 05/06/2019, dep. 06/09/2019), n.22355

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13950-2015 proposto da:

B.G.M.G., rappresentata e difesa dall’Avvocato

SARAH ALEOTTI ed elettivamente domiciliata presso lo studio

dell’Avv. Ernesto Aliberti in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 29;

– ricorrente –

contro

F.F., D.C.M., F.M.,

F.A. e FI.IR., rappresentati e difesi dagli Avvocati DANIELA

DE PETRIS e MARCO MERLINI ed elettivamente domiciliati presso lo

studio del secondo in ROMA, VIA PASUBIO 2;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2814/2014 della CORTE d’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 15.12.2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

5/06/2019 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 16.1.2002, F.F., D.C.M. e F.M. convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Verona – Sezione Distaccata di Soave GIOVANNA BERTANI affinchè fosse accertato e dichiarato l’acquisto per usucapione ventennale della servitù di passaggio pedonale a carico del fondo di proprietà della convenuta, in favore del fondo attoreo.

Si costituiva in giudizio la convenuta chiedendo il rigetto delle domande attoree, affermando che il passaggio avveniva solo saltuariamente e per mera tolleranza. In via subordinata, chiedeva che, ove accertata la servitù di passaggio, fosse dichiarata la legittimità dei cancelli apposti, con ordine di tenerli chiusi a chiave.

Intervenivano in giudizio F.A. e FI.IR., che a loro volta vantavano l’acquisizione per usucapione del diritto di servitù di passaggio sul fondo della convenuta in favore del loro.

Istruita documentalmente e oralmente la causa ed espletata CTU, con la sentenza n. 78/2008 del 16.4.2008, le domande degli attori erano respinte in assenza di prova di opere visibili e permanenti di esercizio del passaggio per l’intero ventennio di possesso necessario a usucapire. Attori e intervenuti erano condannati alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta.

Contro tale sentenza proponevano appello tutti i soccombenti. Si costituiva l’appellata resistendo al gravame.

Con sentenza n. 2814/2014, depositata in data 15.12.2014, la Corte d’Appello di Venezia accertava e dichiarava l’intervenuto acquisto per usucapione della servitù di passaggio pedonale a carico del fondo di proprietà di B.G. in favore,del fondo di proprietà degli appellanti, condannando la B. al pagamento delle spese di lite dei due gradi di giudizio.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione B.G. sulla base di quattro motivi; cui resistono F., e F.M.A., D.C.M. e Fi.Ir. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione della norma di cui all’art. 1158 c.c., per avere (la Corte d’appello) omesso di verificare in capo ai richiedenti il requisito del ventennale possesso del diritto di passaggio ai fini dell’asserito diritto di usucapione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

1.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente ribadisce la “Violazione o falsa applicazione della norma di cui all’art. 1158 c.c., per avere (la Corte d’appello) omesso di considerare le mancate iniziative giudiziarie in capo ai richiedenti la declaratoria di acquisto diritto di usucapione per le proponibili azioni cautelari di reintegrazione nel possesso (ex art. 1170 c.c. e art. 703 c.p.c.), ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico – giuridica e della analoghe modalità (e vizi) di formulazione, i due motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi non sono ammissibili.

2.2. – Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata (Cass. n. 2051 del 2019). Se è vero, infatti, che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, la necessaria esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

2.3. – I motivi in esame risultano, altresì, privi di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la fondatezza o meno. Le censure, in tale modo articolate, appaiono piuttosto contraddistinte dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo nella sostanza al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possanao essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, attibuendo al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse.

2.4. – Inoltre, va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, il censurato vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, la censura con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotta e formulata, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della singola norme pretesamente violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non equivale, infatti, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 2051 del 2019, cit.; conf. Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche da Cass. n. 25332 del 2014).

3. – Con il terzo motivo, la ricorrente deduce “l’ipotesi di sussistenza, già dall’anno 1997 (epoca di installazione delle recinzioni e dell’apposizione dei cancelletti sulla proprietà B.), di rinuncia tacita, in epoca antecedente al 12/01/2002, dei sigg.ri F.F., D.C.M., F.M. F.A. e Fi.Ir. a far valere l’acquisto per usucapione del passaggio pedonale, posto che la rinuncia tacita a far valere l’acquisto per usucapione di un diritto reale su un bene immobile non richiede la necessità della forma scritta ad substantiam”.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Oltre a quanto rilevato sub 2.2. e 2.3. (con considerazioni valide anche rispetto alla formulazione del presente motivo), questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass. n. 19959 del 2014) che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve, appunto, necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con una articolazione del motivo, correlato ad un non specifico riferimento a profili tra loro confusi o inestricabilmente combinati, e non chiaramente collegabili ad una delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. n. 11603 del 2018). Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. sez. un. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 10862 del 2018).

3.3. – A ciò si aggiunge che la ricorrente deduce altresì, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizi di motivazione della sentenza impugnata (v. in particolare ricorso pagina 9).

E’ principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 15 dicembre 1914) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è idonea e spcifica indicazione.

Laddove, peraltro – anche in disparte il rilievo della genericità delle deduzioni indicate, non meglio specificate, che renderebbe comunque le asserite omissioni, di per sè, prive della necessaria decisività (oltre al non essere dimostrato il “come” e il “quando” tali allegazioni siano state oggetto di discussione processuale tra le parti) -, le censure riguradano, non già l’omesso esame di un “fatto storico”, principale o secondario, qualificabile in quanto tale, bensì la mera valutazione di deduzioni difensive; le quali non risultano riferibili all’ambito di applicazione del riformato paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. sez. un. 8053 del 2014; cfr. Cass. n. 26305 del 2018).

4. – Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la carenza di motivazione della sentenza di appello in ordine alla adottata quantificazione delle competenze professionali riconosciute e liquidate alle parti vittoriose per entrambi i gradi di giudizio, ritenuta erronea ed esorbitante.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – Va, infatti, osservato che, per costante orientamento di questa Corte, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è, pertanto, limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa (fenomeno che non si è verificato nel caso in esame), con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass. 22872 del 2018; Cass. n. 19613 del 2017).

Nel caso di specie, la ricorrente ha contestato l’ammontare delle competenze riconosciute dalla Corte di merito alla controparte, censurando la “carenza assoluta di un minimo di motivazione in ordine alla adottata quantificazione delle competenze professionali riconosciute”, senza tuttavia indicare specificamente ed inequivocabilmente l’an e il quantum del superamento dei limiti massimi della tariffa ritenuta dalla medesima di volta in volta concretamente applicata. Laddove, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1, deve riconoscersi al giudice il potere di scendere anche al di sotto, o di salire anche al di sopra, dei limiti risultanti dall’applicazione delle massime percentuali di scostamento – come fatto palese dall’inciso “di regola” che si legge, ripetutamente, nel suddetto comma 1 ma, proprio per il tenore letterale di detto inciso, tale possibilità può essere esercitata solo sulla scorta di apposita e specifica motivazione (Cass. n. 11601 del 2018; Cass. 3590 del 2018).

5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 1.700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2019

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