Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22341 del 26/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 26/09/2017, (ud. 16/05/2017, dep.26/09/2017),  n. 22341

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26547-2013 proposto da:

BANCO NAPOLI SPA, in persona dell’avvocato V.G. nella sua

qualità di Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore,

INTESA SAN PAOLO SPA (OMISSIS), in persona del Dott. P.P.

nella sua qualità di Consigliere Delegato CEO e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA,

PIAZZA GIUSEPPE MAZZINI, 15 SC. B INT. 2, presso lo studio

dell’avvocato ENRICO GABRIELLI, che le rappresenta e difende giusta

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

AGEA AGENZIA PER LE EROGAZIONI AGRICOLTURA, in persona del suo legale

rappresentante pro tempore, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è

difesa per legge;

– controricorrente –

e contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1098/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/05/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato ERRICO GABRIELLI;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Intesa Sanpaolo S.p.A. e Banco di Napoli S.p.A. hanno proposto ricorso per cassazione contro l’AG.E.A. – Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, nonchè nei confronti del Fallimento della (OMISSIS) S.p.A. e del Fallimento della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione, avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1098 del 2013, depositata il 25 febbraio 2013, che ha riformato la sentenza del Tribunale di Roma del novembre 2002.

2. La vicenda traeva origine dal ricorso proposto nel 1997 dalla (OMISSIS) e dalla (OMISSIS) S.p.A. ai sensi degli artt. 669-sexies e 700 cod. proc. civ., volto ad impedire all’A.I.M.A. (Azienda di Stato per gli Interventi sul Mercato Agricolo) l’escussione della fideiussione emessa dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino. All’esito del successivo giudizio di merito, il Tribunale di Roma dichiarava la non escutibilità della fideiussione per cause di forza maggiore, in ragione delle quali la (OMISSIS) era incorsa nell’impossibilità di adempiere agli obblighi assunti.

La Corte d’Appello di Roma accoglieva l’appello proposto dall’A.G.E.A. e, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava l’escutibilità della fideiussione da parte dell’A.G.E.A. stessa.

3. Al ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, ha resistito con controricorso l’AGEA – Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “nullità della sentenza e del procedimento, per violazione degli artt. 291,324,330,331 e 358 c.p.c.”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4″.

Il motivo si duole che l’ordine di integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., adottato dalla Corte capitolina con l’ordinanza di rimessione sul ruolo del 29 maggio 2008, sarebbe stato eseguito dall’A.G.E.A. con una notificazione che sarebbe stata inesistente nei confronti dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a., che era stato parte del giudizio in primo grado ma nei cui confronti l’appello non era stato proposto.

L’inesistenza, come emergerebbe dalla copia autentica della relata di notificazione, che si dice depositata in originale nel fascicolo di appello dell’A.G.E.A. e che viene depositata in copia autentica in questa sede, si sarebbe configurata perchè la notificazione sarebbe stata fatta presso il difensore domiciliatario in primo grado, Avvocato Giancarlo Ferri in Roma, alla “via Puccini Giacomo, 20” “a mani di una tale, e non conosciuta, ” G.B.””, mentre il medesimo aveva eletto il domicilio in quella via non al n. 20, ma al civico n. 10, come emergeva dalla sentenza del Tribunale, che pure si produce, nonchè dalla procura alle liti per atto notar B. di Torino del 22 maggio 1992, a suo tempo depositata in primo grado, unitamente alla comparsa di risposta depositata nel giudizio di merito successivo alla fase cautelare. L’elezione di domicilio era stata enunciata sia nell’epigrafe della comparsa di risposta della fase cautelare, sia in quella depositata nel giudizio di merito, sia nell’intestazione del fascicolo depositato davanti al Tribunale.

A sostegno della dedotta inesistenza della notificazione si evoca giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la notificazione sarebbe inesistente quando la notifica è eseguita in luoghi o nei confronti di persone non aventi relazione con il destinatario perchè a lui totalmente estranei.

Si deduce, quindi, che la Corte territoriale, non avvedendosi del contenuto della notificazione, sarebbe incorsa in un errore di fatto, che si dice nel ricorso oggetto anche di giudizio di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, ma che, per il caso che tale errore non sussista, si prospetta come vizio della sentenza, assumendo che in presenza del vizio della notificazione la Corte romana non avrebbe potuto dichiarare la contumacia dell’Istituto, ma avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’appello, tenuto conto che Essa aveva ritenuto l’Istituto litisconsorte necessario processuale.

Su queste basi si chiede la cassazione senza rinvio della sentenza con declaratoria di inammissibilità dell’appello.

1.1. Il motivo è privo di fondamento.

Lo è innanzitutto là dove evoca la categoria della inesistenza, atteso che recentemente le Sezioni Unite:

1) dopo avere in linea generale affermato che “l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.”;

2) hanno statuito che “il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicchè i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.” (Cass., Sez. Un., n. 14916 del 2016).

L’applicazione di tale principio esclude in radice che nella specie si sia potuta avere una notificazione inesistente.

1.2. La circostanza che la notificazione sia stata eseguita al civico n. 20 anzichè al civico n. 10, peraltro, all’esito dell’esame, ancorchè non sia questa la prospettazione del motivo e pur ipotizzando che il motivo possa comunque essere riqualificato, non risulta evidenziare come tale nemmeno una nullità della notificazione sotto quel profilo.

L’apprezzamento dell’esistenza di una nullità deve condursi, com’è noto, alla stregua dell’art. 160 c.p.c..

Nella specie, l’esame della relata di notificazione di cui trattasi, che le ricorrenti hanno prodotto in copia autentica ed il cui originale si rinviene nel fascicolo di appello dell’A.G.E.A., presente nel fascicolo d’ufficio, evidenzia questi dati: aa) l’atto consta della citazione in appello, seguita dalla copia autentica dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio e, quindi, dall’indicazione a stampa, sotto la dicitura “relata di notificazione”, di una relata, evidentemente predisposta dal difensore richiedente la notifica, nel quale la notificazione risultava indirizzata all’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a. “rappresentato e difeso dall’avv. Giancarlo Ferri, nel domicilio elettivo presso il suddetto procuratore costituito i Roma, alla via Puccini n. 10”;

bb) questa relata non risulta però completata dall’attestazione di esecuzione da parte dell’Ufficiale Giudiziario, che risulta invece eseguita sull’apposito modello UNEP- Corte di Appello di Roma dall’Ufficiale Giudiziario, all’Istituto presso il suo procuratore, alla via Puccini Giacomo, 20, indirizzo indicato a stampa, “con consegna di copia conforme all’originale a mani di persona qualificatasi, con indicazione a penna, per G.B., recante sottostante indicazione con timbro “Segretaria dello Studio”, seguita dal timbro dell’ufficiale giudiziario e dalla sua firma;

cc) il timbro indicante la qualità della consegnataria ha lo stesso colore di quello che indica le generalità dell’ufficiale giudiziario e la sua qualifica.

1.2.1. Quanto attestato dall’ufficiale giudiziario, se ricollegato alla relata non completa estesa in precedenza, che è riferibile alla difesa erariale che predispose l’atto, induce innanzitutto il rilievo che, dovendosi tale relata intendere come espressiva di una richiesta di notificazione indirizzata all’ufficiale giudiziaria con indicazione del numero civico corretto, palesa in primo luogo che l’indicazione erronea del numero civico presente nella relata predisposta dall’ufficiale giudiziario, non è frutto di un errore della difesa erariale, bensì dell’ufficiale giudiziario, a meno di ritenere che nell’attività orale di richiesta al medesimo non sia stato indicato il numero civico sbagliato. Peraltro, la relata non riempita non risulta sottoscritta e, dunque, potrebbe essere accaduto che nella richiesta orale si sia indicato il civico n. 20 come indirizzo non per errore, bensì perchè risultava un trasferimento dal n. 10 al n. 20. Anche se la difesa erariale non l’ha sostenuto in questa sede, avendo addotto un error calami dell’ufficiale giudiziario.

La relata, peraltro, attesta che l’atto venne consegnato a Beatrice Geni nella qualità di segretaria di studio e, dunque, di segretaria dello studio del difensore presso il quale la notifica doveva eseguirsi.

Tale attestazione implica che l’ufficiale giudiziario ha ricevuto da quella persona la dichiarazione di ricezione in consegna come segretaria dello studio del difensore cui l’atto venne indirizzato. L’avere la persona fatto questa dichiarazione all’ufficiale giudiziario è coperto dall’efficacia fino a querela di falso.

E’ vero che non meno coperta da tale efficacia è l’attestazione che la notificazione venne eseguita al civico n. 20, salva la dimostrazione che quel numero venne scritto per errore.

1.2.2. Ora nella descritta situazione risulta coperta dall’efficacia propria dell’atto pubblico l’attestazione che l’ufficiale giudiziario eseguì la notificazione dell’atto al civico n. 20 e che ivi la persona che ricevette la consegna dichiarò di essere segretaria di studio del difensore presso cui la notificazione era stata indirizzata.

La copertura propria dell’atto pubblico non riguarda certamente nè che in quel luogo vi fosse lo studio del detto difensore nè che la persona ricevente fosse la sua segretaria.

L’inesistenza dello studio al civico n. 20, peraltro, ai fini della censura di cui al motivo, bene avrebbe potuto e dovuto farsi constare dalle ricorrenti, che avrebbero potuto farlo depositando certificazione relativa all’iscrizione del difensore all’albo di pertinenza con indicazione del civico al n. 10 anzichè al n. 20 al momento della notificazione: infatti, al di là della indicazione nell’elezione di domicilio in primo grado al civico n. 10 nulla può escludere che quel difensore si fosse trasferito al civico n. 20 e nemmeno – tenuto conto che la relata non riempita di cui si è detto non è sottoscritta dal difensore che redasse l’atto – che quando l’atto venne consegnato si sia chiesto all’ufficiale giudiziario di notificare al civico n. 20. Sebbene ciò, come pure s’è detto, non sia stato allegato dalla difesa erariale, circostanza che, peraltro, nell’apprezzamento del motivo in esame, che deve avvenire per come proposto, non è decisiva.

La falsità della dichiarazione della ricevente di essere segretaria dello studio del difensore destinatario avrebbe potuto, invece, in quanto non coperta quanto al c.d. intrinseco, cioè non alla dichiarazione, ma alla sua verità, dimostrarsi con la semplice indicazione di elementi idonei ad evidenziarlo, come il fatto che segretario o segretaria di studio era al momento della notifica un’altra persona.

Gli elementi nell’uno e nell’altro senso, in quanto funzionali ad evidenziare la dedotta nullità della notificazione e, quindi, la conseguente nullità della sentenza impugnata, siccome pronunciata per effetto della pretesa nullità e della mancata rilevazione da parte del giudice d’appello, bene avrebbero potuto dedursi ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 1.

Le ricorrenti, invece, hanno fondato la loro doglianza sulla mera evidenziazione del dato relativo al numero civico, che di per sè, come s’è visto, si presta alle considerazioni che precedono.

Si ricorda, in proposito, che è stato statuito che: “Poichè la relata di notifica costituisce un atto pubblico, in quanto proviene da un pubblico ufficiale nell’Esercizio delle sue funzioni, le attestazioni di essa, inerenti alle attività direttamente svolte dall’ufficiale giudiziario, e al contenuto estrinseco delle dichiarazioni da lui ricevute, fanno piena prova fino a querela di falso, mentre le altre attestazioni, relative a circostanze non direttamente percepite da lui ma venute a sua conoscenza attraverso dichiarazioni di terzi, quali, ad esempio, la sede della società destinataria della notificazione e la qualità della persona consegnataria dell’atto, fanno fede fino a prova contraria, sicchè, in relazione a queste ultime, la parte interessata può fornire la prova della loro intrinseca inesattezza con tutti i mezzi consentiti, senza dover ricorrere alla querela di falso” (Cass. n. 5040 del 1987).

1.3. Il primo motivo è, per le gradate ragioni esposte, disatteso.

2. Il secondo motivo deduce nuovamente “nullità della sentenza e del procedimento, per violazione degli artt. 291,324,330,3313358 c.p.c.”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4″, ma lo fa sostenendo che parimenti viziato sarebbe stato il procedimento notificatorio effettuato questa volta, sempre a seguito dell’ordinanza di integrazione del contradditorio, al Fallimento della (OMISSIS).

Si sostiene, in particolare: a1) che all’udienza del 28 novembre 2008, per la quale era stato il rinvio in funzione dell’esecuzione della disposta integrazione del contraddittorio, il difensore dell’appellante aveva allegato che la notificazione non era andata a buon fine e chiesto, depositando la relativa relata, un nuovo termine, che gli era stato concesso fino al 31 marzo 2009 per l’udienza del 17 luglio 2009; b1) che in tal udienza il detto difensore aveva chiesto il rinvio per precisazione delle conclusioni, che era stato disposto per l’udienza del 1 aprile 2011, nella quale invece il medesimo difensore aveva chiesto ed ottenuto nuovo termine, con rinvio all’udienza del 7 ottobre 2011; c1) che in tale udienza il difensore aveva depositato atto notificato, adducendo che la notifica non era andata a buon fine e, nuovamente aveva ottenuto altro termine per l’udienza del 4 maggio 2012, nella quale erano state precisate nuovamente le conclusioni.

Si deduce, quindi, che l’ordine di integrazione del contraddittorio non sarebbe stato correttamente eseguito, perchè (l’ennesima) richiesta di un nuovo termine per procedere alla rinnovazione della notifica sarebbe stata avanzata dall’AGEA solo all’udienza del 1 aprile 2011 successiva a quella del 17 luglio 2009, in cui invece aveva direttamente chiesto la precisazione delle conclusioni. Non essendo stato osservato il termine concesso all’udienza del 28 novembre 2008 ed essendo stato chiesto un rinvio per la precisazione delle conclusioni all’udienza del 17 luglio 2009, in tale udienza la Corte romana avrebbe dovuto rilevare che non vi era stata ottemperanza al nuovo ordine di integrazione ed in considerazione di ciò dichiarare inammissibile l’appello, onde erroneamente all’udienza del 1 aprile 2011 aveva concesso un nuovo termine.

Anche in questo caso si fa riserva di dedurre il vizio ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, ma lo si prospetta in questa sede come vizio della sentenza nei termini dell’intestazione.

2.1. La prospettazione di cui al secondo motivo è relativa ad un vizio della sentenza impugnata, che, per un verso concerne il rapporto processuale in quanto coinvolgente il Fallimento della (OMISSIS), per altro verso, all’interno di esso afferisce ad una nullità relativa solo a detta curatela.

2.2. Il motivo pone questa Corte nella condizione di dover rilevare che la domanda della (OMISSIS) allora in bonis, dapprima prospettata con il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e, quindi, fatta valere con l’atto introduttivo del giudizio di merito, a seguito della concessione del provvedimento in sede di reclamo, non avrebbe potuto proporsi, a differenza di quella introdotta in sede cautelare e poi in sede di merito dall’allora (OMISSIS) s.p.a..

Queste le ragioni.

2.2.1. Dall’esame del fascicolo d’ufficio del giudizio presso la Corte d’Appello e particolarmente dal fascicolo relativo al giudizio svoltosi davanti al Tribunale di Roma in primo grado (cui la Corte procede scrutinando una questione di violazione di norme del procedimento), emerge che in esso è contenuto il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., con cui la vicenda processuale ebbe inizio.

Tale ricorso venne proposto nell’interesse della Distillerie (OMISSIS) s.p.a. e della s.p.a. (OMISSIS) e contro il “Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali – A.I.M.A. Azienda di Stato per gli Interventi nel Mercato Agricolo, nonchè “nei confronti” dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a., con la richiesta in via principale di inibire all’A.I.M.A. l’incameramento sulla base della fideiussione n. (OMISSIS) del (OMISSIS), emessa dal detto istituto, il pagamento della somma di allora L. 9.052.761.780, richiesta dall’A.I.M.A. in forza della stessa fideiussione e ciò per svariate ragioni, inerenti alla invalidità della fideiussione e/o all’estinzione della stessa e comunque al difetto dei presupposti per la sua escussione.

Dalla lettura del ricorso emerge che la (OMISSIS) giustificò la sua legittimazione individuando il diritto cautelando: 1a) con la deduzione della stipulazione di un contratto di garanzia in relazione alla vendita comunitaria fra essa deducente, il detto Istituto e l’A.I.M.A.; 1b) e con quella della illegittimità della richiesta dell’A.I.M.A. di escussione della garanzia.

In tal modo, la causa petendi individuatrice del diritto cautelando venne indicata nell’esistenza del rapporto trilatero di costituzione della garanzia e nell’illegittimità della pretesa dell’A.I.M.A. di valersi della garanzia. Riguardo a tale domanda il fatto stesso che l’accertamento del diritto cautelando venne richiesto nei confronti delle tre parti del rapporto rendeva la domanda oggetto di una situazione di litisconsorzio iniziale necessariamente unitario, essendo richiesto l’accertamento nel contraddittorio di tutte e tre le parti del rapporto.

Tale caratteristica si perpetuò per tutto il successivo svolgimento processuale, assegnando in sede di impugnazione al rapporto processuale natura inscindibile, correttamente poi rilevata dalla Corte territoriale.

Sempre dalla lettura del ricorso d’urgenza emerge che la legittimazione in senso sostanziale, cioè il diritto cautelando, venne indicata dalla (OMISSIS), nell’intestazione del ricorso, esclusivamente nella situazione di “azionista unica e di società madre e capogruppo della (OMISSIS) s.p.a” e, quindi, motivata – pag. 45 – nella ripercussione su di essa, in ragione di quella qualità, del pregiudizio lamentato dalla (OMISSIS) per effetto dell’esclusione della garanzia.

2.2.2. Rileva il Collegio che la legittimazione sostanziale della (OMISSIS) non risultava motivata dall’individuazione dell’esistenza di un diritto della medesima originante dal rapporto trilatero dedotto dall’altra ricorrente. La (OMISSIS) fece valere soltanto un pregiudizio ad un interesse di mero fatto, discendente dall’essere essa azionista unico e capogruppo della (OMISSIS). Tale interesse, certamente aveva come presupposto sia la partecipazione azionaria sia la conseguente situazione di controllo sulla (OMISSIS), ma i comportamenti oggetto dell’inibitoria non risultavano in alcun modo incidente sulle situazioni giuridiche in cui la partecipazione ed il controllo si esprimeva. Risultavano solo, per il tramite dell’incidenza sulla situazione patrimoniale della (OMISSIS), suscettibili di arrecare – in via però di mero fatto – nocumento al valore della partecipazione del controllo.

D’altro canto, nel ricorso non veniva descritta una fattispecie di agire dell’A.I.M.A. riconducibile alla lex aquila: sotto tale profilo nel ricorso non vi era alcuna enunciazione di un preteso fatto ingiusto come tale rilevante rispetto alla situazione giuridica di controllo della (OMISSIS) ed idoneo a recare danno alla stessa, per intendersi sotto la specie della c.d. lesione del credito espresso nella situazione di controllo da parte della terza A.I.M.A.

La (OMISSIS), dunque, fece valere un diritto del quale non allegò in alcun modo i fatti costitutivi, tanto che esso nemmeno risultava identificato e configurato anche in astratto esistente, e tanto avrebbe dovuto rilevarsi dai giudici della fase cautelare.

2.2.3. Sia il giudice monocratico, che negò il provvedimento d’urgenza, sia il giudice collegiale che lo concesse, in alcun modo si posero il problema della legittimazione sostanziale della (OMISSIS), della quale si disinteressarono.

Lo si rileva dai due provvedimenti, che si rinvengono il primo nel fascicolo di parte della difesa erariale, il secondo in quello dell’allora Istituto San Paolo, presenti nel fascicolo d’ufficio del giudizio di appello.

2.2.4. Si rileva ancora che nella citazione introduttiva del giudizio di merito, successiva al provvedimento emesso in sede di reclamo e presente nel fascicolo della difesa erariale sempre rinvenuto nel fascicolo d’ufficio del giudizio di appello, viene nuovamente indicata nell’intestazione la qualità in cui agisce la (OMISSIS), ma nella lunga esposizione non si spende nemmeno una parla per giustificare in iure la legittimazione, se si eccettua un generico rinvio (al paragrafo finale, il 5) alle azioni di merito individuate nel ricorso ai sensi dell’art. 700.

2.2.5. Si evidenzia, poi, che nemmeno la sentenza di primo grado, presente nel fascicolo d’ufficio della Corte capitolina, risulta aver dedicato alcuna considerazione alla legittimazione della (OMISSIS), pur avendo poi dichiarato la contumacia della relativa curatela fallimentare a seguito dell’interruzione del processo e della riassunzione.

2.3. Si palesa a questo punto che nel giudizi di primo grado si trovarono incardinate due domande, l’una, trilatera, introdotta dalla (OMISSIS) contro l’A.I.M.A. e l’Istituto San Paolo, l’altra, quadrilatera, introdotta dalla (OMISSIS) riguardo al rapporto oggetto della domanda della (OMISSIS), nei confronti di essa e delle altre due parti.

Ognuna delle due domande realizzava un litisconsorzio unitario e, dunque, per come incardinato, necessario, ma i relativi litisconsorzi, posti in relazione tra loro diedero luogo ad un cumulo di domande collegate da mera connessione per il titolo e proposte congiuntamente da due distinte parti, la (OMISSIS) e la (OMISSIS).

2.4. In sede di impugnazione le due domande diedero origine ad un cumulo di due cause fra loro scindibili e, quando, la Corte rilevò che non era stata assicurata la partecipazione al giudizio nè dell’Istituto San Paolo di Torino nè del Fallimento (OMISSIS) evocando giurisprudenza sul litisconsorzio necessario processuale concernente le obbligazioni solidali, comunque, al di là dell’assenza di qualsiasi vincolo dell’ordinanza, in quanto la sua ritualità non ha dato luogo a controversia e, quindi, a decisione nella sentenza qui impugnata, ove avesse inteso qualificare il detto cumulo fra due distinte azioni, reputando – parrebbe: l’ordinanza non reca alcuna spiegazione – in sostanza che le due società avessero chiesto l’adempimento di un obbligo di non escutere la polizza assumendone la contitolarità attiva, sebbene per causae obligandi distinte, e dunque, reputando una solidarietà attiva, la Corte avrebbe errato.

Ciò, per la ragione che il diritto di ognuna delle due società originava da pretesi fatti costitutivi distinti e solo, come si è detto, all’interno di ognuna delle due domande, sussisteva litisconsorzio unitario, a tre fra (OMISSIS), Istituto San Paolo e A.I.M.A., a quattro fra tali soggetti e la (OMISSIS).

L’inscindibilità, indipendentemente da cosa e da come l’abbia supposta la Corte capitolina, concerneva in realtà da un lato e separatamente la domanda proposta dalla (OMISSIS) e dall’altro quella Proposta dalla (OMISSIS). Contraddittore necessario della prima era l’Istituto e nei suoi confronti bene venne ordinata l’integrazione. Contraddittori necessari della seconda erano sia l’Istituto sia la (OMISSIS) ed altrettanto bene venne ordinata l’integrazione del contraddittorio.

A questo punto si rileva che la sentenza impugnata non ha in alcun modo svolto anch’essa affermazione alcuna, che possa aver dato luogo a giudicato interno, sull’esistenza della legittimazione sostanziale della (OMISSIS), ora Curatela fallimentare, quanto alla domanda per come spiegata.

2.5. In tale situazione, viene in rilievo, il principio di diritto secondo cui, “A norma dell’art. 382 c.p.c., u.c., va disposta la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata ove si accerti il difetto di legittimazione dell’attore, che toglie in radice ogni possibilità di prosecuzione dell’azione” (Cass. sez. un. n. 1912 del 2012).

L’applicazione di tale principio impone a questa Corte di rilevare che fin dall’inizio del giudizio la (OMISSIS) aveva proposto una domanda con una prospettazione che, secondo l’ordinamento, cioè le norme astratte, non la legittimava a chiedere, nella qualità di azionista unico e di controllante, come capogruppo, la (OMISSIS), l’accertamento dell’inesistenza del diritto dell’A.I.M.A. di escutere la polizza fideiussoria.

Quella qualità si sostanziava, infatti, al livello stesso dell’allegazione, in una situazione di mero fatto, priva di collegamenti giuridici con le situazioni giuridiche insorte per effetto della stipulazione da parte della (OMISSIS) della fideiussione e del relativo svolgimento di quella vicenda contrattale.

Poichè quella situazione meramente fattuale non individuava alcun diritto astrattamente configurabile per giustificare anche in thesi l’azione esercitata, la domanda della (OMISSIS) risultava, in quanto basata su un pregiudizio di mero fatto, non proponibile.

Ciò è tanto vero, che la (OMISSIS) nemmeno avrebbe potuto eventualmente ingerirsi, facendo valere il pregiudizio di fatto, nel processo intentato dalla (OMISSIS) per il tramite di un intervento c.d. adesivo dipendente ai sensi dell’art. 105 c.p.c., atteso che quel tipo di intervento suppone appunto che il terzo sia titolare di una situazione soggettiva giuridicamente dipendente da quella dedotta nella causa principale, cosa che non era ravvisabile nella specie sulla base del pregiudizio meramente fattuale. Tanto consente di escludere anche che il congiunto agire della (OMISSIS) e della (OMISSIS) si potesse connotare come litisconsorzio iniziale creato dal titolare del rapporto pregiudicante e dal terzo titolare del rapporto pregiudicato.

Ne consegue che, nella descritta situazione processuale, la Corte deve in questa sede ravvisare, riguardo al rapporto processuale quadrilatero originato dalla domanda della (OMISSIS), l’esistenza della situazione supposta dall’art. 382 c.p.c., comma 3, là dove fa riferimento alla circostanza che la domanda non poteva essere proposta.

Infatti, in quanto esercitata solo sulla base della scarna deduzione della situazione fattuale di controllo e, dunque, di un mero pregiudizio ad essa e non ad una situazione giuridica, la domanda della (OMISSIS) non faceva valere un “diritto” ai sensi dell’art. 99 c.p.c..

Ne consegue che la sentenza impugnata dev’essere cassata senza rinvio quanto al rapporto processuale in questione.

Ciò, sulla base del seguente principio di diritto: “qualora una società, di cui altra società sia unico azionista e società capogruppo, abbia stipulato una polizza fideiussoria ed insorga controversia sulla sua validità e azionabilità fra le parti del rapporto fideiussorio, la società unica azionista e capogruppo non è titolare in astratto di alcun diritto per pretendere che venga inibito al creditore di escutere la fideiussione, in quanto la situazione di controllo azionario non dà luogo ad un rapporto di dipendenza giuridica rispetto alla vicenda del rapporto fideiussorio e, quindi, ad un diritto azionabile rispetto ad esso, ma solo ad un interesse di fatto, che, come tale non evidenzia un diritto azionabile e nemmeno la titolarità di un rapporto giuridico dipendente (che, in un giudizio fra le parti della fideiussione, legittimerebbe un intervento adesivo dipendente ai sensi dell’art. 105 c.p.c., comma 2) oppure una congiunta azione della società partecipata e della controllante, con spendita da parte di quest’ultima della sua posizione ad instar di quella supposta da detta norma. Ne consegue che, in mancanza di contraria cosa giudicata interna, la Corte di cassazione, investita di un ricorso che riguardi una vicenda insorta con quella congiunta azione, deve rilevare che l’azione della società unica azionista e controllante non poteva essere proposta e cassare senza rinvio quanto al relativo rapporto processuale la sentenza impugnata, a norma dell’art. 382 c.p.c., comma 3”.

2.5.1. Il Collegio rileva che nella relazione d’udienza il relatore ha rilevato la sussistenza della questione, ma comunque lo ha fatto ad abundantiam, tenuto conto che “anche in ordine ai ricorsi per cassazione, proposti dopo l’entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 che ha modificato l’art. 101 c.p.c., l’esercizio del potere d’ufficio di correzione della motivazione della sentenza, previsto dall’art. 384 c.p.c., comma 4, non è soggetto alla regola di cui al comma 3 del medesimo articolo che impone alla Corte il dovere di stimolare il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevabili d’ufficio da porre a fondamento della decisione.” (si veda già Cass. n. 17779 del 2011, ex multis).

2.6. Peraltro, per mera completezza, mette conto di rilevare che, ove pure non si fosse fatto luogo alla disposta cassazione senza rinvio riguardo al rapporto processuale originato dalla domanda dalla (OMISSIS) e si fosse supposta l’esistenza di un litisconsorzio necessario processuale anche nel cumulo fra detta domanda e quella della (OMISSIS), il motivo si sarebbe dovuto ritenere infondato.

Per darne conto, è opportuno partire dal seguente principio di diritto: “La violazione delle norme sulla notificazione della citazione e la inosservanza delle disposizioni sulla regolare costituzione del contraddittorio nei confronti di un convenuto costituiscono eccezioni de iure tertii, che non possono essere sollevate da altro convenuto, potendo essere fatte valere soltanto dalla parte direttamente interessata. (Nella specie, il ricorrente lamentava che l’atto di appello fosse stato notificato in modo nullo senza che se ne fosse ordinata la rinnovazione ad altra parte, rimasta contumace nel giudizio di appello e regolarmente intimata in quello di cassazione, nel quale non aveva resistito) (Cass. n. 20637 del 2006).

Successivamente, il principio è stato seguito da altra decisione, che risulta così massimata: “La violazione delle norme sulla notificazione della citazione e la inosservanza delle disposizioni sulla regolare costituzione del contraddittorio nei confronti di un convenuto costituiscono eccezioni “de iure tertii”, che non possono essere sollevate da altro convenuto, potendo essere fatte valere soltanto dalla parte direttamente interessata. (Nella specie, i ricorrenti incidentali lamentavano che l’atto di appello non fosse stato notificato personalmente a talune delle parti, minorenni all’atto dell’instaurazione del giudizio di primo grado, ma divenute maggiorenni nel corso del suo svolgimento; la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio, ha escluso che i suddetti ricorrenti fossero legittimati a far valere tale vizio non vertendosi in ipotesi di litisconsorzio necessario)”. (Cass. 28464 del 2013).

Come si vede la seconda decisione sembrerebbe suggerire che la regola affermata, sulla falsariga della prima decisione, non abbia valore per il litisconsorzio necessario, anche se, per la verità nella motivazione vi è solo l’accenno all’inesistenza di siffatto litisconsorzio nel caso di specie.

2.6.1. Il Collegio ritiene che il principio, in realtà valga anche per il caso di litisconsorzio necessario, ma, naturalmente, quando viene in rilievo la nullità di una notificazione ad un litisconsorte.

In caso di litisconsorzio necessario, iniziale o processuale, è vero che la conseguenza è che, dovendo la decisione essere unica nei confronti di tutti i litisconsorti, ognuno di essi è legittimato all’esercizio dei poteri processuali rispetto al giudizio nel suo complesso, ma ciò se ed in quanto essi concernano una nullità che incida sull’assicurazione di una decisione unica e unitaria della controversia. Se, dunque, si verifichi una nullità, occorre valutare se essa sia capace di incidere su questo valore.

Tale incidenza concerne sicuramente, secondo la migliore dottrina, le nullità concernenti i presupposti processuali comuni a tutte le parti.

Nel processo litisconsortile necessario possono però verificarsi nullità che riguardano la posizione di uno solo dei consorti necessari di lite, come quella che riguardi la notificazione nei suoi confronti.

Ma non è questo che è accaduto con la situazione che si denuncia nel motivo, ancorchè il motivo evochi una nullità del procedimento notificatorio.

Occorre considerare che, a seguito dell’ordine di integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’esecuzione di tale ordine con una notificazione che non risultava andata in porto, riconduceva la situazione nell’ambito dell’art. 291 c.p.c. con riguardo alla concessione di un secondo termine.

Infatti, quando il giudice ordina l’integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’esecuzione di un tentativo di notifica che non va a buon fine, integrando attività diretta ad ottemperare all’ordine che non appare perfezionata con una valida notificazione, giustifica l’esercizio del potere giudiciale di cui all’art. 291 c.p.c., perchè si sta procedendo ormai in una situazione in cui la regola di litisconsorzio è stata assicurata in thesi dal tentativo di notifica. Poichè la concessione di un secondo termine risultava riconducibile all’art. 291 c.p.c., il suo mancato rispetto diede allora luogo alla situazione di cui all’ultimo comma di quella stessa norma, e, dunque, ad un fenomeno di estinzione per inattività delle parti e non al fenomeno della inosservanza dell’ordine ai sensi dell’art. 331 c.p.c..

Ebbene, nel litisconsorzio necessario l’estinzione del processo per inattività delle parti, non essendo concepibile che il processo muoia solo per alcuni e non per tutti, comporta, secondo la dottrina preferibile (e come ritenne un lontano precedente di merito: App. Palermo, 2 dicembre 1960, in Giur. it., 1962, I, 2, 44 e ss.), che l’eccezione di estinzione possa dedursi anche da uno solo dei litisconsorti.

Nel caso di specie, però, le ricorrenti non hanno fatto valere con il motivo la verificazione dell’estinzione (cosa che potevano fare, essendo rimaste contumaci nel grado appello), che, nel regime applicabile al giudizio, anteriore alla novella della L. n. 69 del 2009 concerneva un’eccezione rilevabile non d’ufficio, ma ad istanza di parte (art. 307 c.p.c., u.c.; L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1).

2.6.2. Le ricorrenti hanno invece dedotto che l’ordine di integrazione non risultava osservato, il che non è, perchè si era tentato di osservarlo con una prima notifica e ciò determinò l’attrazione della fattispecie all’art. 291 c.p.c., atteso che è giurisprudenza pacifica che, quando l’ordine ai sensi dell’art. 331 c.p.c. viene eseguito, ma la notificazione non va in porto, per nullità o mancato perfezionamento, il contraddittorio in astratto è oramai instaurato e sussiste il potere del giudice di ordinare il rinnovo della notificazione si sensi dell’art. 291 c.p.c..

Non avendo le ricorrenti dedotto quello che avrebbero dovuto, cioè l’estinzione per inattività del giudizio di appello in quanto il secondo termine concesso dopo il tentativo di notificazione non perfezionatosi e diretto ad ottemperare l’ordine ai sensi dell’art. 331 c.p.c., non era stato osservato, il motivo si sarebbe palesato comunque infondato.

E’ sufficiente osservare che nel regime di rilevazione ad istanza di parte dell’eccezione di estinzione non sarebbe stato possibile a questa Corte riqualificare il motivo denunciante la violazione dell’art. 331 c.p.c., comma 2 in motivo di deduzione della estinzione del processo ai sensi dell’art. 291 c.p.c., comma 3.

3. Il terzo motivo di ricorso censura la nullità della sentenza e del procedimento sotto l’altro profilo della notifica erroneamente richiesta da parte dell’AGEA nel domicilio eletto dall’Istituto San Paolo nel primo grado di giudizio anzichè presso la sua sede, in spregio del dettato dell’art. 330 c.p.c., comma 3.

3.1. Il motivo non può giustificare la cassazione della sentenza, per come la si è richiesta.

Certamente la notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio in cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 c.p.c., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, deve essere effettuata alla parte personalmente e non già al procuratore costituito davanti al giudice che ha emesso la sentenza impugnata (Infatti: “Nei giudizi di impugnazione, la notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio in cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 c.p.c., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, deve essere effettuata alla parte personalmente e non già al procuratore costituito davanti al giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Tuttavia la notificazione fatta al procuratore, integrando una mera violazione della prescrizione in tema di forma, e non già l’impossibilità di riconoscere nell’atto la rispondenza al modello legale della sua categoria, dà luogo a una nullità sanabile, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., con conseguente operatività dei rimedi della rinnovazione (artt. 162 e 291 c.p.c.) o della sanatoria (art. 156 c.p.c., comma 3, artt. 157 e 164 c.p.c.): così Cass. sez. un., n. 2197 del 2006; e si veda, prima, Cass. sez. un. n. 1018 del 1997: “Nel giudizio di impugnazione l’atto di integrazione del contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c.dev’essere notificato, dopo il decorso di un anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, alla parte personalmente, e non già nel domicilio eletto nel precedente grado di giudizio. La nullità della notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio, per essere stata la stessa eseguita al domicilio eletto nel precedente grado, è sanata, dalla costituzione del destinatario ovvero dalla rinnovazione della notificazione che il giudice abbia disposto a norma dell’art. 291 c.p.c.” (Cass. sez. un. n. 1018 del 1997).

Ciò premesso, non è corretto inferire che la Corte d’Appello, preso atto che si era notificato in violazione dell’art. 330 c.p.c., u.c., avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 331 c.p.c., comma 2 e non, invece come ha fatto, dichiarare la contumacia dei “litisconsorti processuali” pretermessi.

Il principio di diritto richiamato esclude innanzitutto la logica dell’inesistenza e confina la fattispecie nell’ambito della nullità, ma coerentemente dice che la nullità si sana per comportamento del destinatario o che altrimenti deve farsi luogo ad un ordine di rinnovazione.

Il giudice d’appello doveva ordinare il rinnovo della notificazione e non l’ha fatto.

3.2. Senonchè, il motivo non si duole della mancata disposizione della rinnovazione, ma limita la doglianza all’infondata prospettazione che l’ordine di integrazione doveva ritenersi ineseguito e che, dunque, l’appello si doveva dichiarare inammissibile.

In tal modo conclude espressamente per la cassazione senza rinvio, con decisione nel merito di inammissibilità dell’appello.

Ne consegue che, non chiedendosi la cassazione con rinvio e nemmeno postulandosi un danno derivante dalla mancata partecipazione al giudizio di appello, con conseguente rimessione ai sensi dell’art. 383 c.p.c. (in relazione all’art. 354), non è possibile cassare la sentenza, quand’anche si riqualificasse il motivo nei termini indicati. Cosa che, peraltro, non sembra nemmeno possibile, dato che si tratterebbe non già di rilevare una fondatezza per una ragione in iure nell’ambito dello scrutinio cui il motivo sollecita, dando rilievo ad una quaestio iuris preliminare rispetto a quella posta dal motivo e rilevata dalla Corte ex officio nell’espressione del principio iura novit curia, bensì di rilevare un vizio di minore portata che non è stato dedotto e non lo è stato anche nella espressa formulazione del petitum.

Nè sull’espressa richiesta di cassazione senza rinvio motivata come sopra fa aggio la generica richiesta subordinata di secondo grado di una cassazione con rinvio, presente nelle conclusioni del ricorso al punto c), attesa la sua assoluta genericità.

4. Con il quarto motivo si prospetta “nullità della sentenza e del procedimento, per violazione, sotto altri profili, degli artt. 291,330 e 331 c.p.c., nonchè per violazione degli artt. 163,164 e 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

4.1. Con una prima censura ci si duole che l’atto di integrazione del contraddittorio notificato all’Istituto Bancario San Paolo di Torino sarebbe stato irrituale, in quanto sarebbe stato notificato l’atto di appello introdotto contro il Fallimento della (OMISSIS) con l’ordinanza della Corte d’Appello, mentre si sarebbe dovuto provvedere alla notificazione di una citazione per l’udienza indicata da quella corte “con tutte le indicazioni imposte dal combinato disposto degli artt. 342 e 163 c.p.c.”.

4.1.1. La censura è inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2 e comunque priva dei caratteri necessari per enunciare i vizi di violazione delle norme del procedimento che evoca, nonchè aspecifica.

Sotto il primo aspetto, si rileva che, per evidenziare la violazione di una norma del procedimento agli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è necessario rispettare il requisito di ammissibilità di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 2. E’ necessario cioè che la censura di violazione della norma del procedimento inerente al potere di disporre la consulenza tecnica sollecitata dall’istanza di parte venga evidenziata con caratteri tali da palesare che sono stati violati “i principi regolatori del giusto processo”.

Tale formulazione, sebbene evocativa dei contenuti dell’art. 111 Cost., comma 1, siccome poi specificati dal comma 2 e dagli altri commi della norma, secondo la ricostruzione preferibile si presta a sottendere, piuttosto che la necessità che l’inosservanza della norma del procedimento abbia violato il principio secondo qualcuna di quelle specificazioni (posto che ogni violazione di norma del procedimento si concreta almeno in una lesione del contraddittorio e/o del diritto di difesa come regolato dalle forme previste e, dunque, risulterebbe lesiva delle regole del giusto processo, con conseguente inutilità dell’art. 360-bis, n. 2), in realtà il carattere che la violazione della norma del procedimento deve avere, perchè possa denunciarsi in Cassazione. Carattere che, anche prima dell’introduzione dell’art. 360-bis, n. 2 si esprimeva nell’essere stata la violazione denunciata decisiva, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denunciava.

Ebbene la censura non enuncia in alcun modo quale pregiudizio avrebbe arrecato la forma dell’atto di integrazione e, dunque, è prospettata i modo irrispettoso dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2.

Sotto il secondo aspetto, si rileva che l’inosservanza delle forme processuali dà luogo a nullità solo se la forma non rispettosa di quella prevista da una norma regolatrice del processo sia inidonea al raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 3). Nella specie nulla si è allegato sul perchè la forma usata per l’integrazione sarebbe stata inidonea allo scopo che avrebbe raggiunto l’atto redatto secondo la forma indicata dalla postulazione del motivo.

Sotto il terzo aspetto, le segnalate carenze rendono la censura priva del carattere della specificità e come tale inammissibile (l’esigenza di specificità del motivo di ricorso per cassazione, già sostenta da Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi, è ora affermata dalle sezioni Unite: si veda Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017).

4.1.2. La censura sarebbe stata comunque anche priva di fondamento: la giurisprudenza della Corte è ferma nel ritenere che:

“In tema di litisconsorzio necessario nel giudizio d’appello, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. l’atto d’integrazione del contraddittorio non deve contenere formule predeterminate essendo sufficiente ai fini della sua validità, l’esposizione dei fatti di causa e delle doglianze mosse con l’atto di impugnazione, cioè atti che siano idonei al raggiungimento dello scopo di porre il destinatario al corrente dei termini dell’impugnazione e di difendersi costituendosi per l’udienza stabilita. Ne consegue la validità della notifica di fotocopia dell’atto di citazione in appello al destinatario precedentemente omesso, accompagnata dall’ordinanza del giudice che dispone l’integrazione del contraddittorio e fissa la nuova udienza.” (Cass. n. 13233 del 2011, citata dalla resistente; in precedenza Cass. 908 del 1966 e 2103 del 1993).

4.2. Con una seconda censura si lamenta che l’atto di integrazione avrebbe dovuto essere eseguito nei confronti della Intesa San Paolo s.p.a., in quanto, con atti del giugno del 1998, l’Istituto Mobiliare Italiano s.p.a. era stato fuso per incorporazione nell’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a., che aveva assunto la denominazione di Sanpaolo IMI s.p.a., che a sua volta era stato incorporato da Banca Intesa s.p.a., assumendo poi la nuova denominazione di Intesa San Paolo s.p.a. e ciò con atto del 28 dicembre 2008. In tal modo l’AGEA avrebbe eseguito la notifica con un atto nullo “ai sensi dell’art. 164 c.p.c., per violazione dell’art. 163 c.p.c., richiamato dall’art. 342 c.p.c. e tale nullità avrebbe dovuto essere rilevata dalla Corte d’Appello”, in mancanza della costituzione della destinataria della notificazione, con conseguente nullità della sentenza.

4.2.1. La censura appare inammissibile, perchè è del tutto generica, (Cass., sez. Un. n. 7074 del 2017) in quanto non reca alcuna argomentazione sulle ragioni per le quali si sarebbe verificata quella che, a stare all’evocazione dell’art. 164 cod. proc. civ., sarebbe stata una nullità non della notificazione ma dello stesso atto di integrazione.

4.2.2. Gradatamente sarebbe infondata, tanto se la fattispecie relativa alle descritte vicende societarie la si collocasse sotto il vigore della disciplina anteriore all’art. 2504-bis c.c., quanto se la si collocasse – come dovrebbe per il fatto che l’ultima vicenda risaliva al 2008 – sotto il suo vigore.

Nella prima prospettiva verrebbe in rilievo il principio di diritto secondo cui: “In tema di fusione, l’art. 2504-bis c.c. introdotto dalla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali tuttavia pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione “mortis causa” perchè la modificazione dell’organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la incorporante (o risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole. Ad esse, di conseguenza non si applica la disciplina dell’interruzione di cui agli artt. 299 c.p.c. e segg. ” (Cass., Sez. Un., n. 19698 del 2010).

L’applicazione di tale principio di diritto, oltre a comportare che nessuna vicenda interruttiva si era comunque verificata nè nel 1998 è nel 2006, palesa che l’indicazione erronea della destinataria dell’atto di integrazione non poteva integrare una nullità dello stesso per assoluta incertezza del requisito dell’art. 163, n. 2 dell’art. 163 c.p.c. applicato al detto atto, cioè una nullità della vocatio in jus ex primo comma dell’art. 164 citato, nè tampoco una nullità della editio actionis sotto il profilo della individuazione del soggetto passivo dell’integrazione come soggetto dell’azione e, quindi, in funzione della identificazione del requisito dell’art. 163, n. 3, ai sensi dell’art. 164, comma 4: è sufficiente osservare che l’erronea indicazione della destinataria, essendo rimediabile nei modi indicati dalle Sezioni Unite non poteva valere ad integrare la (genericamente) prospettata nullità.

Se, come si deve ritenere, la fattispecie si colloca sotto il vigore dell’art. 2504-bis cod. civ., assumendo rilievo la vicenda del 2006, la diretta applicazione della norma esclude in radice l’esistenza della nullità sotto entrambi i profili.

5. Il quinto motivo, poichè con esso si pongono questioni relative alla notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio al Fallimento (OMISSIS), resta assorbito dalla disposta cassazione senza rinvio della sentenza quanto al rapporto processuale che coinvolgeva quel fallimento, cui si è pervenuti in precedenza.

6. Con il sesto motivo si deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1 del Regolamento (CE) n. 416/96 della Commissione del 7 marzo 1996 (in G.U.C.E. n. L. 59/5, dell’8 marzo 1996) e degli artt. 2 e 3 (quest’ultimo come sostituito dal predetto art. 1 del reg. 416/96) del Regolamento (CEE) n. 2710/93 della Commissione del 30 settembre 1993 (in G.U.C.E. n. L. 245/131, dell’i ottobre 1993) (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Vi si censura la sentenza impugnata nel merito, cioè là dove, rovesciando la valutazione fatta dal primo giudice ed accogliendo l’appello, ha considerato che la dedotta difficoltà di smaltimento dell’alcol sul mercato comunitario dei carburanti non poteva integrare il “caso di forza maggiore”, ritenuto giustificativo sia nel Regolamento della Commissione CE n. 2710 del 1993, sia in quello della stessa Commissione n. 416 del 1996, del mancato smaltimento dell’alcol, sì da giustificare un impedimento all’escussione della polizza fideiussoria.

La prospettazione con cui viene criticata la sentenza impugnata è in prima battuta incentrata sulla circostanza che la previsione in entrambi i detti regolamenti del caso di forza maggiore, avuto riguardo alla circostanza che l’uno e l’altro erano stati adottati proprio in conseguenza della situazione di difficoltà dello smaltimento sul mercato, dovrebbe al contrario giustificare che il riferimento alla forza maggiore fosse relativo alla persistenza di quella difficoltà.

L’assunto non è condivisibile.

6.1. Si ricorda, in proposito: a) che la fideiussione era stata emessa dall’allora Istituto Bancario San Paolo di Torino in favore dell’AIMA, a garanzia dell’adempimento degli obblighi assunti dalla allora (OMISSIS) s.p.a. in bonis in sede di aggiudicazione della gara comunitaria n. 8/90, avente ad oggetto alcool destinato al settore carburante per autotrazione ed in funzione del relativo smaltimento; b) che con il primo regolamento, quello del 1993, la Commissione aveva disposto, proprio in ragione della situazione di difficoltà nello smaltimento, oltre che la limitazione dell’obbligo a due sole partite, la concessione di un termine, e che con il secondo regolamento, quello del 1996, era stato previsto l’incameramento della fideiussione al 15% e un nuovo termine per l’utilizzazione, decorso inutilmente il quale l’incameramento sarebbe avvenuto al 50% ottenuto previa la riduzione del 15%; c) che in entrambi i regolamenti era stata prevista la clausola di salvezza per “forza maggiore”.

Ebbene, al contrario di quanto si sostiene, la circostanza che la causa giustificativa dei due regolamenti, poichè era basata sulla difficoltà di smaltimento e, quindi, esprimeva la sua considerazione con la loro adozione, non consente in alcun modo di ritenere che il riferimento alla causa di forza maggiore potesse comprendere proprio l’ulteriore eventuale permanenza successiva di quella difficoltà come ragione impeditiva dell’osservanza dei termini concessi. Invero, una volta considerato che la situazione di difficoltà giustificativa dell’adozione dei regolamenti aveva costituito la ragione della loro adozione, risulta del tutto contraddittorio attribuire alla successiva permanenza della situazione di difficoltà un automatico valore di esimente dall’inosservanza dell’obbligo di smaltimento. In altri termini, se per due volte le situazioni di difficoltà avevano assunto rilievo solo con l’adozione dei regolamenti, risultava manifestamente contraddittorio ipotizzare che una successiva situazione di difficoltà potesse rilevare in modo automatico, cioè come ipotesi di forza maggiore.

Tanto è ancora più giustificato dall’evocazione, comunque, decisiva, da parte della sentenza impugnata dell’intrinseca contraddizione nell’attribuire rilievo di forza maggiore a quello che costituiva, dovendosi lo smaltimento avvenire sul mercato, il normale rischio d’impresa assunto da chi doveva procedervi.

Si aggiunga che l’esegesi in tal senso svolta dalla corte capitolina è perfettamente conforme al modo in cui la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE intende la rilevanza dell’ipotesi di forza maggiore.

Si sottolinea, infatti, che, anche di recente (Corte di Giustizia CE, 18 maggio 2017, Causa C-154/16) si è sottolineato (punto 60 della motivazione) che “A tal riguardo, occorre ricordare la costante giurisprudenza della Corte secondo la quale non avendo la nozione di “forza maggiore” il medesimo contenuto nei diversi settori d’applicazione del diritto dell’Unione, il suo significato dev’essere determinato in funzione del contesto giuridico nel quale è destinata a produrre i suoi effetti (sentenze del 18 dicembre 2007, Sociètè Pipeline Mediterranee et Rheine, C-314/06, EU:C:2007:817, punto 25, nonchè del 14 giugno 2012, CIVAD, C-533/10, EU:C:2012:347, punto 26).”.

La sentenza 18 dicembre 2007, resa nella causa C-314/06, si è così espressa: “23. Secondo una giurisprudenza costante, creatasi in contesti diversi, come quello della regolamentazione agricola o delle regole relative ai termini per l’impugnazione di cui all’art. 45 dello Statuto della Corte di giustizia, la nozione di forza maggiore non si limita all’impossibilità assoluta, ma deve essere intesa nel senso di circostanze anormali e imprevedibili, indipendenti dall’operatore, le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso (v., in tal senso, sentenze 15 dicembre 1994, causa C-195/91 P, Bayer/Commissione, Racc. pag. 1-5619, punto 31, nonchè 17 ottobre 2002, causa C-208/01, Parras Medina, Racc. pag. 1-8955, punto 19 e giurisprudenza ivi citata).

24. Ne risulta che, come già precisato dalla Corte, la nozione di forza maggiore comporta un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee all’operatore, e un elemento soggettivo, costituito dall’obbligo dell’interessato di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi (v., in tal senso, sentenza Bayer/Commissione, cit., punto 32, e ordinanza 18 gennaio 2005, causa C-325/03 P, Zuazaga Meabe/UAMI, Racc. pag. 1-403, punto 25).

25. Tuttavia risulta anche da giurisprudenza costante che non avendo la nozione di forza maggiore il medesimo contenuto nei diversi settori d’applicazione del diritto comunitario, il suo significato deve essere determinato in funzione del contesto giuridico nel quale è destinata a produrre i suoi effetti (v. sentenze 13 ottobre 1993, causa C-124/92, An Bord Bainne Co-operative e Compagnie Inter-Agra, Racc. pag. 1-5061, punto 10, nonchè 29 settembre 1998, causa C-263/97, First City Trading e a., Racc. pag. 1-5537, punto 41).”.

La lettura di queste affermazioni rafforza la conclusione che i riferimenti alla forza maggiore e, segnatamente quello del regolamento del 1996, non potevano essere intesi nel senso sostenuto dal motivo. Invero, il manifestarsi di un’ulteriore difficoltà di mercato non poteva integrare con specifico riferimento al settore di cui trattavasi forza maggiore sotto il profilo oggettivo dell’anormalità della circostanza e ciò perchè si trattava di circostanza possibile e dunque prevedibile come potenzialmente verificabile, come tale appunto oggetto di valutazione di rischio di impresa.

Il motivo è, dunque, rigettato.

7. Con il settimo motivo si denuncia “nullità della sentenza e del procedimento, per violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, assumendosi che la Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio, perchè, nell’accogliere l’appello ha “per l’effetto”, dichiarato “l’escutibilità della fideiussione n. (OMISSIS) del (OMISSIS) emessa dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino”, ancorchè nelle conclusioni dell’atto di appello l’AGEA avesse così concluso: “in accoglimento del presente appello, dichiararsi l’infondatezza della domanda spiegata dal Fallimento appellato e, per l’effetto respingerla, con vittoria di spese ed onorari del doppio grado del giudizio”. La corte capitolina sarebbe incorsa in ultrapetizione.

7.1. Il motivo appare manifestamente privo di pregio: la declaratoria di escutibilità della fideiussione non rappresenta altro che l’espressione del rigetto della domanda. Se tale rigetto, provvedendo sul merito della controversia a seguito dell’accoglimento dell’appello, fosse stato affermato con la mera enunciazione del “rigetto della domanda”, la conseguenza dell’escutibilità, pur non affermata espressis verbis, sarebbe comunque scaturita come necessaria implicazione della statuizione di rigetto.

8. Conclusivamente il ricorso è deciso con le seguenti statuizioni.

La sentenza impugnata è cassata senza rinvio ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, limitatamente al rapporto processuale originato dalla domanda di merito proposta dalla (OMISSIS), con compensazione delle spese dell’intero giudizio per giusti motivi, determinati dalla mancata percezione della situazione per cui la domanda della medesima non poteva essere proposta, sia da parte della parte pubblica che da parte dei giudici di merito. Il ricorso è rigettato quanto al rapporto processuale originato dalla domanda della (OMISSIS). Le spese del giudizio di cassazione, stante la complessità delle questioni esaminate, si compensano per giusti motivi.

In ragione dell’esito del ricorso quanto al rapporto processuale relativo alla domanda della (OMISSIS), ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

PQM

 

La Corte cassa senza rinvio la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, limitatamente al rapporto processuale originato dalla domanda di merito della (OMISSIS) e compensa le spese dell’intero giudizio quanto a tale rapporto processuale. Rigetta il ricorso quanto al rapporto processuale originato dalla domanda della (OMISSIS) e compensa le spese del giudizio di cassazione quanto ad esso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza della Terza Sezione Civile, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2017

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