Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22336 del 26/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 26/09/2017, (ud. 19/04/2017, dep.26/09/2017),  n. 22336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8090-2015 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 10,

presso lo studio dell’avvocato ENRICO DANTE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato PAOLO MELI giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

BELLE ARTI 7, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE AMBROSIO, che

lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4497/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2017 dal Consigliere Dott. COSIMO D’ARRIGO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ERICA DUMONTELLA per delega non scritta;

udito l’Avvocato GIUSEPPE AMBROSIO.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

P.P. acquistò da M.G. un quadro d’autore rivelatosi falso e, conseguentemente, in data 23 novembre 1992, ottenne dal Tribunale di Milano la pronuncia di risoluzione della compravendita, con condanna del convenuto alla restituzione del prezzo oltre a interessi legali e rivalutazione. A seguito di molteplici impugnazioni, alcune delle quali parzialmente accolte, la pronunzia di risoluzione del contratto e restituzione del prezzo passò in giudicato con la sentenza della Corte d’appello di Milano del 14 maggio 1996. Gli accessori, invece, furono determinati dalla stessa Corte d’appello con sentenza del 17 dicembre 2004, nel giudizio di rinvio conseguente alla pronuncia di questa Corte del 22 gennaio 2000, n. 698.

Munito di due distinti titoli esecutivi, il P. procedette, in tempi differenti, alla notificazione di due distinti atti di precetto. A seguito del primo (fatto oggetto di opposizione parzialmente vittoriosa da parte del M.) il P. avviò un’azione esecutiva immobiliare; in forza del secondo atto di precetto, il P. intervenne nella medesima procedura immobiliare per l’ulteriore credito.

Il M. propose opposizione avverso la procedura esecutiva. Il giudice dell’esecuzione rigettò l’istanza di sospensione, ma il Tribunale di Milano, con sentenza del 19 ottobre 2011, accolse parzialmente l’opposizione proposta dall’esecutato, quantificando in Lire 42.997.348 l’importo dovuto in forza della sentenza della Corte d’appello del 1996, parzialmente cassata senza rinvio con la citata sentenza n. 680 del 2000. Il P. propose appello avverso tale decisione, che fu rigettato con sentenza del 12 dicembre 2014.

Avverso tale decisione il P. ha proposto ricorso per cassazione basato su quattro motivi illustrati da successiva memoria. Il M. ha resistito controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c.. In particolare, il P. si duole dell’omesso esame del primo motivo d’appello.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito dell’autosufficienza.

Va anzitutto rilevato che la Corte d’appello di Milano ha diffusamente esaminato il primo motivo d’appello, rilevando che con lo stesso l’appellante aveva dedotto la violazione del divieto di ne bis in idem e quindi la pretesa violazione di un giudicato che in realtà non trovava alcun riscontro nelle pregresse vicende processuali. Il ricorrente si duole, in sostanza, del fatto che la corte d’appello avrebbe erroneamente interpretato il primo motivo di impugnazione sottoposta alla sua attenzione, con la quale non era stata dedotta la violazione di un giudicato, bensì piuttosto censurato la decisione del tribunale sotto altro profilo (il giudice di primo grado non avrebbe tenuto in considerazione la circostanza che il creditore procedente era in possesso di due distinti titoli esecutivi).

La censura in esame, pertanto, si impernia sulla non corrispondenza fra il motivo d’appello e l’interpretazione dello stesso fattane dalla corte di merito. Consegue che sarebbe stata necessaria l’integrale riproduzione del contenuto di quel motivo d’appello della cui interpretazione si contro verte. Nella specie, il P. si è limitato riportarne piccoli stralci che, decontestualizzati dal complesso della d’appello, impediscono a questa Corte di verificare se vi sia stata la pretesa violazione della corrispondenza fra chiesto e pronunciato.

Infatti, il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Sez. 1, Sentenza n. 15952 del 17/07/2007, Rv. 598505). Pertanto il ricorrente che denuncia l’omesso esame o l’erronea interpretazione di un motivo di appello ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto.

Inoltre, la genericità della censura, la cui intelligibilità certamente è compromessa anche dalla complessità delle vicende processuali pregresse, non fa emergere quale sia l’interesse del P. a coltivare il motivo in esame. Infatti, dalla lettura del ricorso non risulta che il tribunale abbia davvero escluso la sussistenza dei due distinti titoli esecutivi. Della sentenza di primo grado – pronunciata sull’opposizione all’esecuzione proposta dal M. – è stato riprodotto in ricorso solamente il dispositivo (v. pag. 9), in sè insufficiente a comprendere quale sia stata l’effettiva portata del decisum. L’accentuazione, da parte del ricorrente, della titolarità di due distinti titoli esecutivi funzionale solamente a dimostrare la legittimità tanto del pignoramento effettuato in forza della sentenza del 1996, quanto dell’intervento effettuato in forza della sentenza del 2004, ma non risulta che nè l’uno nè l’altro siano stati mai messi in discussione, giacchè il tribunale, decidendo sull’opposizione all’esecuzione, ha solamente ridotto l’importo dovuto in forza della prima delle due sentenze.

In conclusione, il primo motivo, oltre che non autosufficiente, non risulta supportato da un effettivo interesse del ricorrente.

Le ulteriori censure di “mancanza di coerenza” della sentenza impugnata sfociano in un vizio di motivazione non più previsto fra i motivi di ricorso in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alle sentenze in grado d’appello pronunciata in data successiva all’il settembre 2012.

La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Pertanto, anche sotto questo profilo il primo motivo è inammissibile.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 282 e 337 c.p.c.. In particolare, il ricorrente sostiene che la corte d’appello avrebbe recepito per relationem la motivazione del tribunale, anche nella parte in cui è stato affermato che il diritto del P. al risarcimento del danno per lucro cessante “si determinerà solo a seguito del giudizio di rinvio, con la formazione di un successivo giudicato sul punto”. Tale motivazione si esporrebbe alle medesime censure articolate con l’atto d’appello e risulterebbe in contrasto con il principio di cui all’art. 282 c.p.c., per il quale le sentenze di condanna sono provvisoriamente esecutive fra le parti, e con quello di cui all’art. 337 c.p.c., comma 1, secondo cui l’impugnazione della sentenza non ne sospende l’esecuzione.

Anche tale motivo è inammissibile.

Va premesso che la sentenza della corte d’appello del 2004, pronunziata nel giudizio di rinvio, contiene la condanna del M. al pagamento dell’importo di Euro 25.822,84 a titolo di lucro cessante, con rivalutazione e interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno dal 19 ottobre 1984. Tale decisione è stata fatta oggetto di ricorso per cassazione da parte del M., rigettato da questa Corte con sentenza del 29 luglio 2011.

Quest’ultima pronuncia, quindi, è anteriore alla sentenza di primo grado relativa all’opposizione all’esecuzione, pubblicata il 19 ottobre 2011. In conclusione, alla data di pubblicazione della sentenza del tribunale il credito risarcitorio per lucro cessante era già definitivamente accertato.

E’ tuttavia certo che il tribunale non aveva avuto notizia dell’esito dell’altro giudizio, come si ricava inequivocabilmente dall’affermazione incidentale secondo cui tale credito sarebbe stato accertato definitivamente solo con la pronuncia della Cassazione.

Le censure articolate con il motivo in esame si rivolgono avverso tale capo della sentenza di primo grado, asseritamente impugnato già in grado d’appello.

Tanto premesso, va rilevata anzitutto la carenza di interesse del P. a impugnare un obiter dictum della sentenza di primo grado, in realtà superato dagli eventi già al momento della pubblicazione della decisione. Le pretese violazioni degli artt. 282 e 337 c.p.c., infatti, non hanno alcun rilievo pratico, poichè il titolo esecutivo non è più costituito da una sentenza provvisoriamente esecutiva, bensì da una sentenza definitiva.

Inoltre, non risulta che questa censura, concernente la decisione di primo grado, sia stata davvero proposta innanzi alla corte d’appello, la quale non ne fa alcuna menzione. Nè, d’altro canto, il ricorrente ha trascritto la parte dell’atto di appello contenente la prospettazione di tale motivo di gravame.

Il motivo è quindi inammissibile per carenza di interesse e difetto di autosufficienza.

3. Con il terzo motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti. In particolare, il tribunale non avrebbe considerato la circostanza dell’esistenza della sentenza della corte d’appello di Milano del 2004, idonea a legittimare l’intervento del P. nella procedura esecutiva opposta dal M..

Ancora una volta si pone un problema di autosufficienza del ricorso e di carenza di interesse ad agire. Infatti, non risulta nè che il tribunale abbia espressamente negato la fondatezza dell’atto di intervento svolto sulla base della sentenza della corte d’appello del 2004, nè che tale questione abbia costituito oggetto di impugnazione in sede di in grado d’appello.

4. Con il quarto motivo si prospetta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 287 c.p.c. in merito alla regolazione delle spese processuali disposta dal giudice di primo grado. Il ricorrente pone l’accento sulla circostanza che la motivazione della sentenza del tribunale contiene un vistoso errore, in quanto in essa si ravvisano giusti motivi per compensare le spese di giudizio nella misura di due terzi e per porre a carico del P. i restanti due terzi (per un totale, evidentemente erroneo, di quattro terzi).

La censura, proposta anche fra i motivi d’appello, è stata superata dal giudice di secondo grado semplicemente osservando che nel contrasto fra la motivazione e il dispositivo prevale quest’ultimo, che non contiene il medesimo errore, prevedendosi la compensazione delle spese solo nella misura di un terzo e ponendosi, questa volta correttamente, i restanti due terzi a carico del P.. Il ricorrente ripropone la censura in grado di legittimità.

Il motivo è infondato per almeno due ordini di ragioni.

Anzitutto, la decisione della corte d’appello che conferisce rilievo decisivo, nel contrasto fra motivazione e dispositivo, a quella fra le due statuizioni che non contiene l’errore matematico – è pienamente condivisibile, in base al principio di conservazione degli atti processuali. Infatti, è del tutto evidente che la misura della compensazione esposta nella motivazione matematicamente erronea ed insuscettibile di trovare attuazione.

Inoltre, la corte d’appello, così facendo, ha sostituito la propria decisione a quella di primo grado, talchè l’errore della sentenza del tribunale non risulta più deducibile in sede di legittimità. Qui, semmai, si sarebbe dovuta impugnare la decisione della corte d’appello in ordine alla soccombenza reciproca e alla misura della compensazione parziale; decisione, che non risulta espressamente impugnata e che comunque si sottrae a censure di legittimità.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfe”arie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2017

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