Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22330 del 15/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/10/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 15/10/2020), n.22330

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2279-2019 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO 22,

presso lo STUDIO LEGALE PERNAZZA, rappresentato e difeso da se

medesimo;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL, in persona del Curatore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DEI BASTIONI DI

MICHELANGELO 5A, presso lo studio dell’avvocato MONICA SAVONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI MARINO;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di LATINA, depositato il 01/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA

NAZZICONE.

 

Fatto

RILEVATO

– che è proposto ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, contro il decreto del Tribunale di Latina del 1 dicembre 2018, il quale ha respinto l’opposizione allo stato passivo del fallimento proposta avverso la mancata ammissione del credito da compenso professionale per onorario vantato dall’avvocato, richiesto per complessivi Euro 45.839,75, oltre accessori;

– che resiste la curatela con controricorso;

– che la parte ricorrente ha depositato la memoria.

Diritto

CONSIDERATO

– che i motivi possono essere come segue riassunti:

1) violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per avere il giudice posto a fondamento della decisione ragioni in fatto e diritto non dedotte in giudizio;

2) nullità del decreto, per violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, avendo il giudice deciso senza considerare circostanze incontestate, ossia che l’istante ha dedotto di avere svolto in proprio l’attività processuale ed il valore indeterminabile di particolare importanza delle controversie, riportato nelle parcelle dall’istante;

3) violazione e falsa applicazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6, del D.M. n. 140 del 2012, art. 1, comma 4, ed del D.M. n. 55 del 2014, art. 8, avendo il tribunale negato che il compenso dovesse essere liquidato a ciascun co-difensore per l’intero;

4) violazione e falsa applicazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6, del D.M. n. 140 del 2012, art. 5, comma 4, e del D.M. n. 55 del 2014, art. 5, commi 6 e 7, non avendo il tribunale applicato il principio per il quale dette norme non fissano un unico scaglione di riferimento per le cause di valore indeterminabile, ma indicano la scelta tra diverse possibilità sulla base del valore dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio e dell’oggetto della lite;

– che il tribunale, per quanto ancora qui di rilievo, ha reputato che: a) i due difensori sono stati incaricati della medesima difesa ed il codifensore è già stato ammesso, per i medesimi contenziosi, tempestivamente per Euro 26.251,00; b) è applicabile a due giudizi il D.M. n. 140 del 2012, ed al terzo il D.M. n. 55 del 2014; c) in caso di incarico collegiale, il primo D.M. prevede un compenso unico ed il secondo il compenso per l’opera prestata; d) per la quantificazione del compenso dovuto, debbono essere individuati i parametri del valore indeterminabile dei giudizi, il grado di non elevata complessità giuridica emergente dagli atti introduttivi e l’esito negativo dei giudizi definiti (ove il fallimento è stato giudicato carente di interesse, con conseguente declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, in quanto proposta contro atti non qualificabili come provvedimenti amministrativi); ed ha aggiunto di non poter valutare altro, in mancanza del deposito di documentazione ulteriore rispetto agli atti introduttivi; e) in conclusione, occorre applicare i valori minimi del D.M. di riferimento, che conducono ad una somma di Euro 8.041,00; J) dunque, la somma per la quale il codifensore è stato ammesso al passivo di 26.251,00 e l’acconto direttamente ricevuto dal ricorrente per Euro 5.000,00 sono idonei a remunerare l’intera attività svolta;

– che, ciò posto, il primo motivo è manifestamente infondato, dal momento che, come risulta dal decreto impugnato e dallo stesso ricorso, le parti discussero proprio della questione della co-difesa, sin dall’inizio allegata dal fallimento come fatto impeditivo delle ulteriori pretese, onde nessuna violazione del contraddittorio sussiste; mentre le questioni collegate in punto di diritto non integrano la fattispecie ex art. 101 c.p.c., comma 2;

– che, al riguardo, sono invero noti i principi, qui richiamati, secondo cui “La nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa si verifica allorquando la decisione venga calata ex abrupto sulle parti ignare della questione officiosamente rilevata e risolta senza alcun contributo delle parti stesse; invero, l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, ha lo scopo di evitare le decisioni c.d. “a sorpresa” o “della terza via”; tale obbligo, pertanto, vale solo per le questioni che il giudice rilevi effettivamente d’ufficio per non essere state dedotte dalle parti e non vale, invece, per le questioni che – pur rilevabili d’ufficio – siano state introdotte dalle parti sotto forma di eccezione c.d. in senso lato, in quanto tali questioni fanno già parte del thema decidendum” (Cass. 9 gennaio 2019, n. 315; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29098) e “La sentenza che decida su una questione di puro diritto, rilevata d’ufficio, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l’apertura della discussione (c.d. terza via), non è nulla, in quanto da tale omissione può solo derivare un vizio di error in iudicando, ovvero di error in iudicando de iure procedendi, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato; qualora, invece, ad essere officiosamente rilevate siano state questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione sostenendo che la violazione del dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini.” (Cass. 8 giugno 2018, n. 15037; Cass. 18 giugno 2018, n. 16049);

– che il secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato, in quanto non rispetta il dettato dell’art. 366 c.p.c., omettendo di riprodurre le proprie specifiche allegazioni, ed in quanto, pur sotto l’egida della violazione di legge, intende riproporre un giudizio sul fatto; mentre è infondato, con riguardo alla carenza motivazionale del tribunale, che ha invece approfonditamente argomentato la sua decisione in ogni necessario passaggio;

– che il terzo motivo è inammissibile, per difetto di integrazione dei requisiti ex art. 366 c.p.c., posto che quello dedotto configura un vizio in indicando e, pertanto, per l’ammissibilità della censura, è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli elementi di fatto rilevanti e contestati, al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità, senza dover espletare un’inammissibile indagine sugli atti di causa; inoltre, giova precisare come il tribunale abbia fatto piena applicazione delle norme richiamate, le quali impongono l’unico compenso per l’ipotesi di incarico collegiale o comunque il compenso relativo alle attività espletate, reputando appunto, con giudizio di merito e con accertamento insindacabile in questa sede, svolto un incarico difensivo collegiale;

– che il quarto motivo è manifestamente infondato ed in parte inammissibile;

– che giova ricordare come (cfr., fra le altre, Cass. 26 settembre 2019, n. 24076) con il D.M. 10 marzo 2014, n. 55, rubricato Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6, è stato introdotto in un assetto ordinamentale che già contemplava l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico (D.L. n. 1 del 2012, art. 9, convertito, con modificazione, dalla L. n. 27 del 2012), e disciplina i parametri dei compensi all’avvocato per la prestazione professionale resa (per quanto interessa ai fini della presente decisione) in ambito giudiziale: tali parametri, indicati dal citato D.M., art. 4, comma 1, operano come fattori di concretizzazione della liquidazione del compenso professionale, che muove da valori medi (indicati nella tabella allegata allo stesso D.M. n. 55 del 2014), su cui poter effettuare, poi, aumenti e diminuzioni secondo determinate percentuali (aumento fino all’80 per cento, diminuzione fino al 50 per cento; per la fase istruttoria, l’aumento è possibile fino al 100 per cento e la diminuzione fino al 70 per cento);

– che, quindi, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, presente nel previgente sistema di liquidazione degli onorari professionali (L. n. 794 del 1942, art. 24; cfr. anche Cass. n. 18167 del 2015, in riferimento al D.M. n. 140 del 2012), i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le stesse soglie numeriche di riferimento previste dal D.M. n. 55 del 2014, con i relativi aumenti e diminuzioni, costituiscono criteri di orientamento della liquidazione del compenso, individuandosi, al contempo, la misura economica standard (quella media) del valore della prestazione professionale;

– che da ciò deriva come solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al D.M. n. 55 del 2014, il giudice è tenuto ad indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso; scostamento che può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma, in quest’ultimo caso, resta fermo il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (in tale prospettiva, cfr. Cass. n. 25804 del 2015; Cass. n. 24492 del 2016 e Cass. n. 20790 del 2017);

– che da tutto ciò deriva la conseguenza che avverso la liquidazione dei compensi potrà denunciarsi in sede di legittimità la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto resa in base a motivazione solo apparente o, comunque, in violazione del c.d. minimo costituzionale della motivazione (Cass., sez. un., n. 8053 del 2014; Cass. n. 20648 del 2015; Cass. n. 7402 del 2017) ovvero per error in iudicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ipotesi di violazione del limite di cui al citato art. 2233 c.c., comma 2;

– che il D.M. n. 55 del 2014, art. 5, prevede, al comma 6: “Le cause di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a Euro 26.000,00 e non superiore a Euro 260.000,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera di regola e a questi fini entro lo scaglione fino a Euro 520.000,00”;

– che tale disposizione va intesa, conformemente alla sua lettera, nel senso che, ove la causa debba essere considerata di valore indeterminabile, trovano applicazione appunto i parametri previsti per le cause di valore non inferiore ad Euro 26.000,00 e non superiore ad Euro 260.000,00, come disposto dal D.M. n. 55 cit., art. 5, commi 5 e 6, (v., fra le altre, Cass. 19 febbraio 2019, n. 4844; Cass. 26 settembre 2019, n. 24076);

– che, nella specie, pacifico trattarsi di cause patrocinate di valore indeterminabile, il giudice nella liquidazione ha fatto corretta applicazione del principio enunciato dal D.M. n. 55 del 2014, art. 5, comma 6, utilizzando proprio il relativo scaglione ai fini della liquidazione del compenso;

– che, per il resto, il giudice del merito ha dato puntuale conto dei criteri seguiti nella sua valutazione (esito negativo dei giudizi, addirittura per avvenuta impugnazione di atti non costituenti provvedimenti amministrativi, semplicità delle questioni), noto essendo che, per gli onorari, “essendo la tariffa articolata in una serie di scaglioni, in rapporto alla natura è al valore della causa, con alcuni correttivi, entro tali limiti il giudice può procedere discrezionalmente alla determinazione del compenso” (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5798; Cass. 16 settembre 2015, n. 18167);

– che le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 4.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie ed agli accessori, come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, se dovuto, richiesto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2020

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