Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2233 del 30/01/2017


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Cassazione civile, sez. I, 30/01/2017, (ud. 13/12/2016, dep.30/01/2017),  n. 2233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2503-2013 proposto da:

K.R., (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA M. PRESTINARI 13, presso l’avvocato PAOLA RAMADORI, che lo

rappresenta difende unitamente all’avvocato KARL REITERER, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FONDAZIONE ARENA DI VERONA, in persona del Presidente pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso

l’avvocato ANDREA MANZI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ELENA RIGHETTI, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1916/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 12/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/12/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato LAZZERI CLAUDIA, con delega, che

si riporta;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato ALBINI CARLO, con delega,

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel novembre 2001 la Fondazione Arena di Verona conveniva in giudizio K.R. onde sentir accertare l’indebito utilizzo, da parte di quest’ultimo, dei segni distintivi di cui l’attrice era titolare, oltre che per sentire pronunciate, in danno dello stesso convenuto, l’inibitoria allo sfruttamento dei segni in questione e la condanna al risarcimento dei danni.

Il convenuto non si costituiva.

Il Tribunale di Verona accoglieva le domande proposte: pertanto inibiva a K. l’impiego dei segni distintivi della Fondazione e l’utilizzo in qualsiasi forma di nomi a dominio contenenti le parole (OMISSIS); condannava, inoltre, il convenuto, al risarcimento dei danni, che liquidava in 180.000,00.

Proponeva appello K., il quale, a fondamento del gravame, deduceva l’inesistenza della notifica dell’atto introduttivo, la carenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, la violazione delle norme in tema di competenza e l’infondatezza, nel merito, delle pretese azionate.

La Corte di appello di Venezia, con sentenza pubblicata il 12 settembre 2012, dichiarava inammissibile l’appello. In particolare, il giudice distrettuale riteneva rituale la notificazione all’appellante della sentenza di primo grado, attuata in (OMISSIS) in data 3 aprile 2009, e affermava, in conseguenza, che l’appello era stato proposto tardivamente.

Contro tale pronuncia ricorre per cassazione K.R. con una impugnazione che si fonda su due motivi. Resiste con controricorso la Fondazione Arena di Verona, la quale ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., oltre che dell’art. 137 c.p.c. e ss.; violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in combinazione degli artt. 2697 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 149 c.p.c., anche in combinazione della L. n. 890 del 1982, artt. 7 e 8 e successive modifiche; travisamento dei fatti di causa; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio; violazione dell’art. 120 c.p.i., comma 3; violazione del regolamento (CE) n. 1348/2000; violazione dell’art. 24 Cost.; violazione dell’ordine pubblico internazionale. Osserva il ricorrente che la notificazione dell’atto introduttivo era da ritenersi inesistente o nulla, in quanto effettuata in un luogo diverso dalla residenza, dal domicilio o dalla dimora di esso istante. Rileva K. essere stato documentata l’inesistenza di una sua iscrizione nell’anagrafe del Comune di (OMISSIS) e che non corrispondeva al vero quanto attestato dall’ufficiale giudiziario di Monaco di Baviera circa il fatto che lo stesso ricorrente aveva domicilio in (OMISSIS): presso tale indirizzo, infatti, lo stesso non aveva mai abitato. La notifica dell’atto introduttivo avrebbe dovuto attuarsi presso la residenza dello stesso K. a (OMISSIS), secondo le modalità prescritte dal regolamento (CE) n. 1348/2000. Lamenta ancora il ricorrente che il procedimento notificatorio di cui all’art. 140 c.p.c. non risultava documentato perchè mancava l’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario avrebbe dato notizia del deposito dell’atto presso la casa comunale. Inoltre, la sentenza di primo grado era stata notificata a un indirizzo ancora diverso, in (OMISSIS): nemmeno tale recapito – si spiega nel ricorso – era riferibile al ricorrente.

Col secondo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 345 c.p.c., anche in combinazione degli artt. 342, 343 e 166 c.p.c., oltre che per violazione degli artt. 2697 c.c. e ss.. Il motivo si fonda sulla produzione documentale posta in atto in fase di gravame dalla Fondazione: Fondazione che si era costituita solo quattro giorni prima dell’udienza di trattazione e che aveva continuato ad effettuare attività di produzione documentale anche successivamente, fino al deposito della prima memoria di replica del 16 febbraio 2012.

Riveste priorità, sul piano logico, il secondo motivo, che va disatteso per le ragioni appresso indicate.

E’ da premettere che, in tema di errores in procedendo, non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura vertente sul vizio di motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto (Cass. 10 novembre 2015, n. 22952: cfr. pure Cass. S.U. 22 maggio 2012, n. 8077). Il principio vale, ovviamente, anche per il vizio dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti: cioè per la fattispecie regolamentata dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b) convertito in L. n. 134 del 2012.

La Corte di legittimità, in quanto giudice del fatto processuale, deve quindi accertare, attraverso l’esame degli atti di causa, l’esistenza o meno dei lamentati vizi in procedendo.

Ciò non significa che il ricorrente, nel dedurre questi ultimi, sia esonerato dal formulare le proprie censure in modo puntuale, nel rispetto del principio di autosufficienza. Infatti, laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass. 20 luglio 2012, n. 12664; in tema, inoltre: Cass. 30 settembre 2015, n. 19410; Cass. 10 novembre 2011, n. 23420).

In tal senso, il secondo motivo è del tutto carente di specificità, in quanto non indica quali siano gli atti e i documenti tardivamente prodotti.

Nel corpo del motivo stesso si fa per la verità cenno al deposito di una copia della sentenza impugnata attuato dall’odierna controricorrente in conformità di quanto espressamente disposto dalla Corte di appello con propria ordinanza del 2 marzo 2012. Ma è evidente che tale acquisizione processuale risulti del tutto regolare, dal momento che essa ha ad oggetto non già un documento, ma un atto del giudizio, il quale avrebbe dovuto essere depositato dall’appellante, giusta l’art. 347 c.p.c., comma 2 e visto, altresì, che l’esame della relazione di notifica della predetta sentenza risultava necessario ai fini della verifica della tempestività del proposto appello: profilo, quest’ultimo, che la Corte del merito avrebbe dovuto oltretutto scrutinare anche in via officiosa.

Si evidenzia, poi, e per mera completezza, che la produzione di documenti nuovi in appello è comunque ammissibile ove la parte non abbia potuto procedere all’incombente nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (art. 345 c.p.c., comma 3, anche nel testo anteriore alla modifica introdotta con L. n. 83 del 2012): e nel caso in esame, parte ricorrente nemmeno deduce che i documenti in questione (non identificati, come si è detto) potessero essere prodotti avanti al giudice di prima istanza.

Nemmeno il primo motivo è fondato.

La notificazione della sentenza ha avuto luogo in (OMISSIS), a mezzo del servizio postale; il plico, stante la temporanea assenza del destinatario, non è stato recapitato, ma posto in giacenza presso l’ufficio postale con l’invio del prescritto avviso. La notificazione si è quindi perfezionata decorsi dieci giorni dalla spedizione della lettera raccomandata di comunicazione dell’avvenuto deposito (L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4).

La notifica della sentenza al nominato indirizzo deve ritenersi rituale.

Il reg. (CE) n. 1348/2000 ha ad oggetto la notificazione o comunicazione di atti giudiziari o extragiudiziari quando tali atti debbano essere trasmessi da uno Stato membro all’altro. Ovviamente, il regolamento comunitario non trova applicazione ove l’atto da notificare sia destinato a un soggetto di nazionalità estera che abbia residenza, dimora o domicilio in Italia: ciò lo si ricava pure, a contrario, dall’art. 142 c.p.c..

Nel caso in esame, la notifica della sentenza all’indirizzo sopra indicato rinviene il proprio fondamento legittimante nel rilievo per cui in (OMISSIS) lo stesso K. risultava residente: ciò è chiaramente attestato dall’autentica notarile n. (OMISSIS), in data (OMISSIS), della sottoscrizione dello stesso convenuto, specificamente ivi indicato come “residente in (OMISSIS)”.

Non è ovviamente rilevante che K. non risulti iscritto nei registri anagrafici di quella città: come è noto, infatti, le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora dell’interessato (per tutte: Cass. 14 maggio 2013, n. 11550; Cass. 22 dicembre 2009, n. 26985).

La constatazione della tardività dell’appello – dipendente dal rilievo per cui la sentenza, ritualmente notificata il 30 marzo 2009, venne impugnata dall’odierno ricorrente solamente nel novembre dello stesso anno – assume portata assorbente rispetto alle deduzioni con cui l’istante ha lamentato la nullità della notificazione della citazione di primo grado: nullità che la Corte di merito non poteva nemmeno prendere in esame, non essendo stata investita di alcuna valida impugnazione.

Nè può sostenersi che il vizio della notifica della citazione (vizio che la Corte del merito ha peraltro escluso) impedisca il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti del convenuto, non costituito in primo grado: infatti, come è del tutto evidente, la notifica della pronuncia del Tribunale ha fatto decorrere il termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c. e in mancanza di tempestivo gravame si è prodotto il giudicato interno. Non appare del resto conducente quanto osservato dallo stesso ricorrente con riguardo al procedimento relativo al riconoscimento delle sentenze straniere, dal momento che nella presente fattispecie non vengono in questione nè l’art. 27 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 nè l’art. 34 del reg. (CE) n. 44/2001: si deve solo fare applicazione del diritto italiano per verificare se l’appello (in cui era stata proposta la questione della detta nullità) fosse o meno ammissibile.

Il ricorso va dunque respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri accessori.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2017

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