Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22313 del 26/10/2011

Cassazione civile sez. I, 26/10/2011, (ud. 20/06/2011, dep. 26/10/2011), n.22313

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23776-2007 proposto da:

COMUNE DI ARIENZO (P.I. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C. MIRABELLO 26,

presso l’avvocato IANNUCCILLI PASQUALE, che lo rappresenta e difende,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.C. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIALE DELLE MEDAGLIE D’ORO 266, presso l’avvocato TARTAGLIA

ANGELO FIORE, rappresentato e difeso dall’avvocato LANNI MARIA,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 68/2007 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 12/01/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/06/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato G. RUGGIERO, per delega, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI MAURIZIO che ha concluso per l’inammissibilità del primo

motivo, accoglimento del secondo motivo per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di S. Maria di Capua Vetere con sentenza del 27 marzo 2004 respinse le domande del geom. C.C. rivolte ad ottenere dal comune di Arienzo il compenso dovutogli perchè con delibera di Giunta del 19 ottobre 1987 gli era stato conferito l’incarico di predisporre il progetto esecutivo per la costruzione di una strada di collegamento e di servizio di unità produttive esistenti fra Arienzo, Puntarelle e Roccarainola, che avrebbe dovuto essere finanziata ai sensi della L. n. 64 del 1986.

L’impugnazione del C. è stata accolta in parte dalla Corte di appello di Napoli che con sentenza del 12 gennaio 2007: a) ha confermato l’inesistenza di un contratto di opera professionale tra le parti, perciò escludendo il diritto del C. a percepire il compenso per il progetto esecutivo redatto; b) ha accolto la domanda di indebito arricchimento del professionista ritenendo che il comune avesse implicitamente riconosciuto l’utilità del progetto allegandolo alla richiesta di finanziamento ed in tal modo risparmiato la relativa spese;che doveva essere liquidata facendo ricorso alla tariffa professionale dei geometri nonchè alle tipologie di onorar ivi previste; c) ha considerato inammissibile perchè nuova l’eccezione di rinuncia all’indennizzo formulata dal comune sul presupposto che il professionista aveva espressamente subordinato per iscritto il proprio diritto alla concessione di un finanziamento alla stazione appaltante: poichè subordinata in primo grado all’ipotesi non verificatasi in cui il giudice di merito avesse considerato sussistente un contratto di opera tra le parti. Per la cassazione della sentenza, il comune di Arienzo ha proposto ricorso per due motivi; cui resiste il C. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo, il comune di Arienzo, deducendo violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. censura la sentenza impugnata per avere ritenuto nuova e quindi inammissibile l’eccezione con cui aveva dedotto la rinuncia di controparte a richiedere il compenso per il progetto ove non fosse stato ottenuto (e fino a tale momento) il finanziamento per la realizzazione dell’opera senza considerare:

a)che la dichiarazione era stata redatta per ogni ipotesi di richiesta del compenso ed in tali sensi era stata prospettata in primo grado da esso ente; b) che in ogni caso non si trattava di eccezione in senso stretto rientrante nell’ambito di applicazione del nuovo art. 345 cod. proc. civ., ma di difesa che la Corte territoriale doveva comunque valutare anche perchè il relativo documento era stato prodotto fin dal giudizio di primo grado.

Con il secondo motivo, deducendo violazione degli artt. 2041, 2042 e 2697 cod. civ. si duole che sia stata ih accolta la richiesta di indebito arricchimento formulata dalla controparte malgrado nel caso non bastasse secondo la giurisprudenza di legittimità la prova dell’esistenza di un’utilità per la p.a. ma occorresse il riconoscimento da parte di quest’ultima dell’utilità o della prestazione ricevute; e malgrado detto riconoscimento pur se implicito, deve pur sempre provenire esclusivamente dagli organi rappresentativi dell’ente e non può comunque confondersi con la mera trasmissione di un progetto agli organi preposti al suo controllo ed alla sua approvazione: come del resto dimostrava nel caso anche l’atto di rinuncia da parte del professionista che condizionava l’utile richiesta di compenso al conseguimento del finanziamento da parte dell’ente.

Il tutto senza considerare la mancata prova da parte del C. del danno per la mancata corresponsione degli onorari che così come liquidati dalla sentenza impugnata avevano superato l’importo dello stesso finanziamento cui ne era subordinato il pagamento.

3. Il ricorso è fondato.

Fin dalle prime applicazioni dell’art. 2041 cod. civ., alla p.a.

nella giurisprudenza di questa Corte sono emersi due distinti (ed inconciliabili) orientamenti: il primo cd. estensivo pur richiedendo il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte degli enti pubblici, lo ravvisava in qualsiasi oggettivo vantaggio e/o risparmio di spesa per essi e riteneva che la relativa formula dovesse comprendere l’intero pregiudizio sofferto dall’esecutore della prestazione; che se incaricato di svolgere un’attività professionale poteva ottenere quanto, ove il contratto fosse stato valido, avrebbe percepito a titolo di guadagno per l’espletamento della stessa (cd.

lucro cessante); che in mancanza di altri elementi veniva liquidato dal giudice di merito utilizzando le tariffe professionali.

Il contrapposto indirizzo cd. restrittivo, invece, sosteneva che per la liquidazione dell’indennizzo non rileva l’utilità che l’autore dell’opera o della prestazione mirava a far conseguire o che il destinatario di esse sperava di realizzare, bensì quella che quest’ultimo ha in effetti raggiunto; considerava solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è altra componente, separata e distinta, del danno patrimoniale complessivamente subito alla stregua dell’art. 2043 cod. civ., ma espressamente escluso dall’art. 2041 cod. civ.. E per quanto riguarda in particolare l’elaborazione, a favore di un ente pubblico, di un progetto di opera pubblica non preceduto dal conferimento di un valido incarico professionale, postulava l’accertamento della sola entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal professionista: senza possibilità nè di fare riferimento a parametri contrattuali, non utilizzabili stante la nullità dell’incarico, nè di equiparare sic et simpliciter detta perdita alla utilitas derivatane al committente sotto il profilo della spesa risparmiata.

4. Il contrasto è stato composto dalle Sezioni Unite (sent.

23385/2008) privilegiando l’interpretazione dell’art. 2041 cod. civ. che esclude dal calcolo dell’indennità richiesta per la “diminuzione patrimoniale” subita dall’esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. E ciò anzitutto per la lettera, la storia e la finalità della norma rivolta ad eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione, perciò nei limiti dell’arricchimento, e non già in dipendenza di una variabile legata al concreto ammontare del danno subito, come avviene nell’azione risarcitoria: con conseguente inglobamento della sua funzione per imprecisati motivi di giustizia sostanziale, nell’ottica panaquiliana propria dell’art. 2043 cod. civ..

Le Sezioni Unite hanno ritenuto altresì: 1) che analogo errore è stato compiuto in merito alle prestazioni professionali o imprenditoriali eseguite, come nella specie, in conseguenza di un contratto invalido o giuridicamente inesistente, allorchè non sia perciò possibile ottenerne altrimenti il corrispettivo stabilito;in relazione alle quali l’orientamento estensivo aveva ragionato in un’ottica di adempimento della prestazione dedotta nel contratto invalido ritenendo che chi ha eseguito la prestazione ha diritto, onde evitare lo squilibrio che si verrebbe altrimenti a provocare, ad una determinazione indennitaria estremamente aderente a quanto egli avrebbe percepito ove avesse stipulato un negozio valido; e ad essere ricollocato perciò nella medesima prospettiva di chi si propone effettivamente di trarre un guadagno dalla propria attività; 2) che ne era scaturito un ruolo di detta azione, che le è assolutamente estraneo, di assicurare all’autore di una prestazione eseguita malgrado l’invalidità di un contratto, il medesimo profitto che avrebbe ricavato nello stesso periodo di tempo da altre attività remunerate ed anzi una liquidazione estremamente favorevole – il più delle volte addirittura premiale. E soprattutto quello, assolutamente abnorme di modificare ed aggirare le specifiche condizioni e limitazioni apposte direttamente dal legislatore, – costituite dalle regole cd. dell’evidenza pubblica – onde presidiare e condizionare l’attività negoziale della p.a.: prime fra tutte la regola che i comuni, le Province e gli altri enti locali indicati nel T.U. appr.

con R.D. n. 383 del 1934, ancora vigente all’epoca dell’incarico al C., non possono assumere obbligazioni senza rendersi conto del loro ammontare e senza conoscere se e come farvi fronte: perciò dovendo indicare (artt. 284 e 288) nelle relative deliberazioni a pena di nullità l’ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte (Cass. sez. un. 12195 e 13831/2005, nonchè 8730/2008); e quella successiva che all’assunzione della spesa deve necessariamente seguire una fase preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della P.A., che resta sul piano del diritto amministrativo, ed è disciplinata dalle regole cd. dell’evidenza pubblica; 3) che si trattava di regole qualificate da dottrina e giurisprudenza assolutamente inderogabili ed aventi forza talmente cogente da invalidare e travolgere qualsiasi convenzione con esse confliggente;

per cui diveniva per lo meno illogico utilizzare il rimedio dell’art. 2041 cod. civ. per renderle inoperanti e ricollocare l’autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o addirittura giuridicamente inesistente:

perciò consentendone la sostanziale neutralizzazione in nome di imprecisate esigenze equitative.

5. Proprio quest’ultima ipotesi si è verificata nel caso concreto, da inquadrare nelle note vicende conseguite alla pesante situazione economico-finanziaria che ha afflitto gli enti locali, più non consentendo agli stessi la realizzazione di opere pubbliche anche indispensabili, se non attraverso opportuni finanziamenti e contributi di provenienza comunitaria, statale o regionale. Ne sono scaturite apposite normative che, come la L. n. 64 del 1986 hanno predisposto uno speciale procedimento amministrativo vincolato che ciascuna richiedente è tenuta ad osservare onde concorrere per l’approvazione dei progetti delle opere che intende eseguire e conseguire i necessari finanziamenti; e che d’altra parte confluiscono in uno speciale piano (nel caso triennale) di competenza dell’ente finanziatore il quale al termine di esso compila una sorta di graduatoria in base a priorità ed altri titoli stabilendo quali opere possano ricevere i finanziamenti (ed in che misura) e quali invece debbano essere rinviate per l’esaurimento delle risorse; o addirittura escluse.

Si tratta, quindi di un sistema del tutto diverso da quello antecedente alla L. n. 64 del 1986 in base al quale agli enti locali (ed a privati) era data facoltà di richiedere sovvenzioni e contributi in aggiunta ai propri proventi per ulteriori esecuzioni di opere: in relazione al quale è stato enunciato il principio di diritto recepito dalla sentenza impugnata che il mero invio del progetto costituisce riconoscimento implicito della sua utilità da parte dell’ente: oggi non più attuale.

Anzitutto per il ricordato profilo pubblicistico, ormai del tutto mutato, poichè nel nuovo sistema è direttamente il legislatore comunitario, statale o regionale a stabilire il programma dell’intervento finanziario e le sue ragioni, la durata, le attività, le iniziative ed i risultati che con esso si possono conseguire (cfr. L. n. 64 del 1986, art. 1) unitamente allo specifico unitario procedimento che l’amministrazione richiedente è tenuta ad osservare: perciò più non consentendo di scinderlo dall’obbiettivo da raggiungere, nè tanto meno di frazionarlo in una serie di atti con l’attribuzione al giudice del potere – in sostituzione del legislatore e della p.a. richiedente – di stabilire quali di essi siano utili per quest’ultima e quali non lo siano (Cass. 10567/1994).

Questa mutata prospettiva nelle modalità di reperimento dei fondi necessari onde far fronte alle opere pubbliche ha, d’altra parte, indotto sempre più le amministrazioni locali, impossibilitate ad assumere negli incarichi di affidamento dei progetti ai professionisti esterni, l’impegno di spesa richiesto dalla L. n. 142 del 1990, ad inserirvi la clausola, ritenuta legittima dalle Sezioni Unite della Corte (sent. 18450/2005 e succ.) che sottopone il diritto di costoro al relativo compenso, alla condizione che l’opera programmata ottenga i finanziamenti richiesti (comprensivi della quota di spese destinate dall’ente alla redazione ed acquisizione del progetto, pur essa da sovvenzionare). Ed ha sistematicamente indotto gli incaricati dell’opera ad accettare la condizione, con ciò dimostrando che anche le parti del rapporto professionale percepiscono come inscindibile il collegamento funzionale tra procedimento ed obbiettivo del finanziamento, e considerano soltanto quest’ultimo l’utilità ricavabile dall’amministrazione. La quale anche per tale ragione non è valutabile dal giudice in base a parametri diversi, come sostanzialmente ha fatto la sentenza impugnata che a fronte di detta clausola apposta dal comune nella delibera attributiva dell’incarico, seguita dall’accettazione del professionista e dal suo impegno incondizionato (e non subordinato alla conclusione di un valido contratto, come erroneamente ritenuto dalla Corte di appello) di richiedere il corrispettivo soltanto in caso di concessione del finanziamento, si è sostituita alla loro comune volontà in tali sensi ravvisando da un lato l’utilità per l’ente pubblico nel precedente invio del progetto per il concorso all’Agenzia per il Mezzogiorno; e dall’altro in tale comportamento un riconoscimento implicito di detta utilità.

6. Ma neanche in relazione ai principi giurisprudenziali su di esso l’argomentazione appare convicente: anzitutto per avere disapplicato la regola del tutto consolidata, che, seppure il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione da parte dell’ente pubblico può avvenire in modo implicito, lo stesso deve comunque concretarsi nell’utilizzazione dell’opera o della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell’ente; e perciò non può essere ravvisato nella mera trasmissione di un progetto all’organo e/o all’autorità deputati per legge a stabilire se lo stesso sia meritevole del finanziamento richiesto e comunque rientri nelle risorse economiche poste a disposizioni dal concedente:

anche perchè la differenza tra le due forme di riconoscimento – esplicito ed implicito – è soltanto che la prima è contenuta in una dichiarazione espressa in forma di proposizione logica, mentre la seconda si ricava da un comportamento di fatto tale da far concludere che il suo autore ha inteso conseguire uno specifico risultato.

Sicchè tanto l’una, quanto l’altra manifestazione restano soggette alle medesime regole dell’evidenza pubblica e devono necessariamente provenire dall’organo cui per legge spetta il potere-dovere di esprimere all’esterno la volontà dell’ente pubblico nella materia:

regole sulla cui osservanza nel caso nessuna disamina è stata condotta dalla decisione di appello.

Ma la Corte territoriale non ha considerato, soprattutto, che un “riconoscimento” è configurabile solo in presenza di un comportamento del committente conseguente all’esercizio positivo del potere discrezionale di attribuire un’utilità al progetto e di disporne l’invio all’ente concedente il contributo; che si contrappone in tesi ad una decisione pur essa discrezionale di segno contrario. Nel caso, invece, tale facoltà discrezionale nei confronti dell’opera del professionista non sussiste in capo all’amministrazione committente avendo le Sezioni Unite, affermato, con la ricordata decisione 18450/2005 che un contratto di opera professionale sottoposto dalla p.a. a condizione che il compenso dovuto al professionista possa essere pagato soltanto in caso di concessione del finanziamento è sottoposto all’osservanza dell’art. 1358 c.c., il quale dispone che “colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”; che la norma suddetta s’inserisce nell’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c.c.), sia in sede d’interpretazione (art. 1366 c.c.), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c.c.), trasformando in obbligo giuridico la facoltà dell’amministrazione di procedere all’invio del progetto posto che il citato art. 1358, lo stabilisce al fine di “conservare integre le ragioni dell’altra parte” e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso, perciò, imponendolo come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione; ed introducendo una specifica ipotesi di responsabilità a carico dell’amministrazione che in violazione del principio di buona fede di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento.

Senza considerare il rischio di applicazione dell’art. 1359 cod. civ. che esporrebbe l’ente a corrispondere egualmente il compenso senza avere ottenuto il finanziamento, il cui onere verrebbe così a gravare interamente sulle proprie casse e non sarebbe coperto dalla quota di sovvenzione destinata alle spese progettuali.

7. Si deve aggiungere per completezza che il professionista a fronte di questo sistema, non è privo di tutela, su di lui competendo, anzitutto, la scelta di accettare o meno la clausola suddetta;e potendo quindi optare per la conclusione del contratto d’opera solo ove gli venga comunque assicurato il pagamento della prestazione, che in tal caso resta determinata nei limiti dell’impegno di spesa assunto dall’ente pubblico e recepito nel successivo negozio concluso dalle parti. Ovvero accettare la condizione, come nel caso ha fatto il C., con la conseguenza che anche il suo compenso resta fissato dal finanziamento (e ne segue le sorti) nella misura riservata alla redazione del progetto. Mentre ciò che non gli è consentito è scegliere dapprima quest’ultima soluzione onde aggirare la norma sulla obbligatoria assunzione dell’impegno di spesa da parte degli enti pubblici, per poi richiedere egualmente il pagamento suddetto attraverso il ricorso all’indebito arricchimento che in tal caso diverrebbe, come evidenziato dalle Sezioni Unite, una sorta di rimedio extra-ordinem, avente l’anomala funzione di comprendere, da un lato, tutti i benefici derivanti da un contratto valido; e dall’altro di trascenderlo per aggiungervi anche quelli altrimenti non consentiti dalle condizioni e dai limiti che nell’ordine normativo presidiano l’attività negoziale degli enti pubblici (come il pagamento del compenso in misura corrispondente alle tariffe professionali).

Cassata, pertanto la sentenza impugnata che ha di fatto raggiunto proprio questo risultato, la controversia va rinviata alla Corte di appello di Napoli che in diversa composizione si atterrà ai principi esposti e provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2011

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