Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22294 del 25/09/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/09/2017, (ud. 28/04/2017, dep.25/09/2017),  n. 22294

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30528-2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.W., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA NAPOLEONE III N.28, presso lo studio dell’avvocato DANIELE

LEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato SERGIO BELLOTTI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9639/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/12/2010 R.G.N. 6877/2008.

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

ESAMINATI gli atti e sentito il consigliere relatore dr. Federico De Gregorio;

RILEVATO che POSTE ITALIANE S.p.a. con ricorso del 16-12-2011 ha impugnato la sentenza n. 9639 in data 24 novembre – 16 dicembre 2010, con la quale la Corte d’Appello di ROMA aveva rigettato il gravame interposto da POSTE ITALIANE S.p.a. avverso pronuncia emessa il 22 maggio 207 dal locale giudice del lavoro, di accoglimento per quanto di ragione della domanda di conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro subordinato a termine, stipulato D.Lgs. n. 368 del 2001, ex art. con la stessa POSTE ITALIANE, dal primo dicembre 2004 al 31 gennaio 2005, con conseguente conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e della connessa pretesa risarcitoria in proposito azionata dall’istante B.W., dalla messa in mora, oltre accessori, spese di lite per entrambi i gradi del giudizio compensate;

che il suddetto contratto risulta stipulato per esigenze sostitutive correlate alla necessità di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell’area operativa ed addetto al servizio recapito presso il Polo Corrispondenza (OMISSIS), assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro durante l’anzidetto arco temporale, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, di attuazione della direttiva 1999/70/CE;

che il ricorso per cassazione di POSTE ITALIANE è affidato a quattro motivi, variamente articolati (con richiesta, ad ogni modo, di applicare lo jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 in vigore dal 24-11-2010):

1. violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, nonchè degli artt. 1362 c.c. e ss., e contraddittorietà ed omessa pronuncia in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5). In particolare si sostiene che, nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, non era più necessario che già nel contratto fossero indicati i riscontri concreti, i dati specifici che sostanziavano la ragione giustificatrice e tanto meno le fonti di prova della stessa: elementi questi che avrebbero potuto essere oggetto di allegazione e di indagine nel corso del giudizio. Nella specie risultavano debitamente indicati l’ufficio di destinazione, la ragione sostitutiva identificata nell’assenza del personale e le mansioni di recapito del personale da sostituire, all’uopo richiamando alcuni precedenti di questa Corte, in part. le sentenze nn. 1576 e 1577 del 26-01-2010, osservando altresì come nessun rilievo potesse avere l’omessa indicazione nominativa del personale da sostituire, mentre il ricorso ad elementi identificativi diversi dall’indicazione nominativa era pressochè inevitabile stante la complessa realtà aziendale di Poste Italiane, la cui peculiarità era stata pure riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 214/2009;

2. violazione e falsa applicazione degli artt. 253,420 e 421 c.p.c., nonchè contraddittoria ed erronea motivazione in ordine ad un punto controverso e decisivo per il giudizio e, cioè, in ordine alla ammissibilità e rilevanza degli articolati capitoli di prova non ritenuti meritevoli di accoglimento, così come in relazione al mancato ricorso ai poteri di ufficio ex art. 421 c.p.c.;

3. nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 4 stesso codice, nonchè violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2, art. 4, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la Corte di Appello indebitamente ritenuto l’illegittimità del contratto de quo, assumendo il mancato rispetto, da parte datoriale, delle condizioni di cui all’art. 3, lett. d) medesimo decreto n. 368, con riferimento alle aziende che non abbiano eseguito la valutazione dei – rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, esistenti sul luogo di lavoro, stante la genericità delle doglianze al riguardo allegate in prime cure da parte attrice, che in appello neppure aveva riproposto la questione, laddove con il ricorso introduttivo si era limitata ad asserire che la convenuta avrebbe dovuto provare che l’assunzione in parola fosse avvenuta presso un ufficio dove parte datoriale avesse provveduto ad effettuare la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 sicchè, trattandosi di doglianza inammissibilmente formulata, la sentenza di primo grado non l’aveva nemmeno presa in considerazione;

4. violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1218,1219,1223,2094,2099 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la Corte di appello statuito che, oltre alla prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato, conseguisse l’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro dalla data di asserita messa in mora e non, invece, dal momento dell’effettiva ripresa dal servizio, con richiesta ad ogni modo di applicare lo jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 in materia; VISTO il controricorso di B.W. in data 17-19 gennaio 2012 per resistere all’impugnazione avversaria;

che risultano dati rituali avvisi alle parti in data 23 febbraio 2017 della fissazione dell’adunanza al 28 aprile 2017 ex art. 380-bis c.p.c., comma 1;

che il Pubblico Ministero non ha presentato requisitorie e che soltanto parte controricorrente ha depositato memoria illustrativa;

CONSIDERATO.

che il ricorso, a parte talune carenze espositive e di documentazione, rilevanti ex artt. 366 e 369 c.p.c., appare in buona parte infondato, poichè la Corte di merito, pur dando atto dei principi di diritto affermati in materia da questa Corte con numerose pronunce emesse in casi analoghi, nello specifico in punto di fatto ha ritenuto insindacabilmente non esaurienti le indicazioni contenute nei contratti de quibus, tali da non poter integrare la specificità richiesta dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 al fine di poter legittimare le clausole di apposizione dei termini finali in parola;

che lo stesso risulta invero inconferente rispetto alle specifiche e pertinenti argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove la Corte di merito in punto di fatto ha accertato, con valutazioni insindacabili in questa sede di legittimità, l’assenza di specifiche indicazioni e circostanze tali da poter legittimare l’apposizione del termine finale al contratto in questione;

che, ad ogni modo, va rilevato in via preliminare e comunque dirimente, quanto ritenuto dalla Corte capitolina, secondo cui parte attrice aveva tra l’altro dedotto in primo grado (pagina 18 dell’atto introduttivo del giudizio) quale profilo di nullità (ovviamente parziale – art. 1419 c.c., comma 2) del contratto in parola la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3, lett. D), , riproponendo quindi l’eccezione anche in appello, secondo cui in particolare l’apposizione del termine alla durata del contratto di lavoro non è ammessa da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei dipendenti ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 e succ. modif., normativa giudicata come comportante obblighi connotati dalla cogenza propria delle norme imperative, sicchè il divieto di assumere lavoratori a tempo determinato fatto alle aziende inottemperanti al suddetto obbligo – con relativo onere probatorio a carico di parte datoriale, nella specie rimasto insoddisfatto dalla convenuta che nulla aveva allegato in proposito doveva ragionevolmente intendersi come sanzione indiretta per l’azienda non in regola con la normativa sulla sicurezza del lavoro;

che effettivamente alle pagine 18 e 19 del ricorso introduttivo risulta proposta la questione del rispetto del citato art. 3, lett. d) Decreto n. 368, per cui tra l’altro parte attrice così testualmente deduceva: “… Dal mancato assolvimento di tale onere probatorio discende l’assoluta illegittimità della clausola utilizzata da POSTE per disporre l’assunzione (evidentemente a termine) del sig. B.”, laddove poi nessuna espressa pronuncia sul punto consta in atti per quanto concerne la pronuncia di primo grado (che riteneva, invece, la nullità parziale del contratto de quo unicamente per difetto del requisito di specificità occorrente in base al D.Lgs. n. 368 del 2001, – cfr. anche pg. 11-12 del ricorso con i documenti ivi integralmente e materialmente allegati, peraltro irritualmente poichè in contrasto con il requisito di sinteticità richiesto a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, laddove sarebbe stato invece necessaria la loro riproduzione in forma riassuntiva, ancorchè esauriente, in base allo stesso art. 366, n. 6, in pertinente correlazione con i motivi di ricorso);

che, ad ogni modo, nella memoria difensiva di costituzione per l’appellato B. a pag. 4 si legge tra l’altro: “Ovviamente in questa sede ribadiamo le ragioni svolte in via principale che ben potranno essere confermate da codesta Corte di Appello”, perciò da ritenersi quale integrale rinvio per relationem a tutte le ragioni indicate a sostegno della domanda con il ricorso introduttivo del giudizio, nessuna esclusa e comunque senza alcuna univoca rinuncia ad alcuna di esse;

che vanno, pertanto, disattese le censure svolte con il 3^ motivo, non ravvisandosi in primo luogo l’ipotizzato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, poichè la questione risultava ad ogni modo dedotta nel corso del giudizio di merito, sicchè, trattandosi della violazione di norme imperative con conseguenti nullità degli atti contrari posti in essere con relativa inosservanza non si era in presenza di eccezione in senso tecnico, operante unicamente in seguito ad apposito rilievo della parte interessata, da reiterarsi quindi a norma dell’art. 346 c.p.c., ma di inosservanza di leggi rilevabile di ufficio ex art. 345 c.p.c., comma 2, (cfr., tra le altre, Cass. 1 civ. n. 350 del 09/01/2013 in relazione alla nullità delle clausole rilevabile anche di ufficio, non integranti gli estremi di un’eccezione in senso stretto, bensì una mera difesa, proponibile quindi anche in appello, ove fondata su elementi già acquisiti al giudizio. Id. n. 21080 del 28/10/2005: la nullità delle clausole che prevedono un tasso d’interesse usurario e la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, in quanto correlata alla violazione di norme imperative, può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in appello, senza che ciò si traduca in una violazione dei principi della domanda e del contraddittorio. Infatti, la deduzione della predetta nullità, rilevabile anche d’ufficio, non integra gli estremi di un’eccezione in senso stretto, ma costituisce una mera difesa, inidonea a condizionare i poteri decisori del giudice, che può essere avanzata anche in appello, nonchè formulata in comparsa conclusionale, qualora sia fondata su elementi già acquisiti al giudizio, potendo essere contrastata dalla controparte con la memoria di replica. In senso analogo, Cass. 1 civ. n. 4853 del 01/03/2007.

Cfr. pure Cass. lav. n. 18374 del 23/08/2006: nelle controversie promosse per far valere diritti che presuppongono la validità di un determinato contratto, la nullità del contratto stesso è rilevabile d’ufficio, anche in grado di appello, rientrando nel potere-dovere del giudice la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti, e senza incorrere in vizio di ultrapetizione se il contratto configura un elemento costitutivo della domanda. In una tale prospettiva, la questione relativa alla nullità del contratto può integrare una mera allegazione difensiva volta a sollecitare il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità, con la conseguenza che, in mancanza di un’esplicita richiesta di declaratoria di nullità del contratto, non si rendono applicabili le regole delle preclusioni o limitazioni per la proposizione di domande nuove o di eccezioni in senso stretto. Conforme Cass. II civ. n. 11847 del 06/08/2003.

Cass. 2 civ. n. 4469 del 15/05/1987: il principio “tantum devolutum quantum appellatum” riguarda le questioni riservate al potere dispositivo delle parti e, quindi, le domande e le eccezioni in senso proprio, non le questioni che possono essere rilevate di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, come è quella della nullità del contratto, in relazione alla quale la rilevabilità “ex officio” può essere esclusa soltanto nel caso che l’applicazione del contratto non costituisca oggetto della controversia oppure nel caso che sulla questione si sia già formato il giudicato interno. In senso analogo id. n. 4974 del 19/07/1983.

Cfr. peraltro anche Cass. 3 civ. n. 18691 del 6/9/2007, secondo cui l’onere di impugnazione presuppone la soccombenza della parte, venendo a mancare altrimenti l’interesse ad impugnare, richiesto dall’art. 100 c.p.c. come essenziale requisito del diritto di azione o di eccezione e dello stesso diritto di impugnazione della sentenza; sicchè non può addossarsi alla parte vittoriosa in primo grado l’onere di proporre appello incidentale per far valere una sua domanda riconvenzionale, subordinata all’accoglimento della domanda proposta dall’attore, che il giudice non abbia esaminato per essersi pronunciato soltanto sul rigetto della domanda attorea. Per contro, l’onere della parte vittoriosa, che voglia mantenere una siffatta domanda riconvenzionale anche in sede di gravame, di riproporla ai sensi dell’art. 346 c.p.c., è limitato esclusivamente ai motivi di censura ed alle domande ed eccezioni riproposti dalle parti nei rispettivi atti, ma non anche alle questioni rilevabili d’ufficio, fatte perciò salve.

V. altresì Cass. sez. un. civ. n. 26243 del 12/12/2014, circa le possibili applicazioni dell’art. 345 c.p.c., comma 2 riguardo alle deduzioni di parte appellante in tema di domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello. E parimenti, vedasi ancora, nelle more della pubblicazione di questa sentenza, Cass. sez. un. civ. n. 11799 del 12/05/2017 per quanto concerne il potere di rilevazione di ufficio del giudice ex cit. art. 345, comma 2, ove la questione non abbia formato oggetto dì alcuna pronuncia in primo grado in caso di eccezioni in senso lato, ossia di mere difese, e non già di eccezioni opponibili soltanto a cura di parte);

che anche nel merito la doglianza di cui al 3^ motivo appare infondata alla stregua della condivisa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 6^ civ. – L. n. 21418 del 24/10/2016, secondo cui in tema di contratto a tempo determinato, l’omesso esame, da parte del giudice di appello, del motivo di gravame incentrato sulla carenza di un valido documento di prevenzione dei rischi, tempestivamente dedotta, integra vizio di omessa pronuncia su un fatto decisivo, posto che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3 prevede che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato non è ammessa da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 e successive modificazioni, incombendo, quindi, sul datore di lavoro l’onere di provare di avere assolto specificamente all’adempimento, secondo quanto richiesto dalla normativa.

V. altresì Cass. lav. n. 5241 del 02/04/2012, secondo cui il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3, che sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, costituisce norma imperativa, la cui “ratio” è diretta alla più intensa protezione dei lavoratori rispetto ai quali la flessibilità d’impiego riduce la familiarità con l’ambiente e gli strumenti di lavoro; ne deriva che, ove il datore di lavoro non provi di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione, la clausola di apposizione del termine è nulla e il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2);

che risulta comunque non fondata la questione relativa alla possibile violazione dell’art. 1419 c.c. in tema di nullità (cfr. Cass. lav. n. 12985 del 21/05/2008, secondo cui la formulazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio in base al quale il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Di conseguenza, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE, recepita con il richiamato decreto, e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Cfr. in senso analogo Cass. lav. n. 7244 del 27/03/2014 a conferma della nullità parziale del contratto con eterointegrazione della disciplina contrattuale, relativamente all’illegittimità del termine, limitatamente alla sola clausola, ancorchè dichiarata essenziale, con conseguente conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Cfr. ancora Cass. 1 civ. n. 16017 del 13/06/2008, laddove è stato confermato che l’effetto estensivo della nullità della singola clausola o del singolo patto all’intero contratto, avendo carattere eccezionale rispetto alla regola della conservazione, non può essere dichiarato d’ufficio dal giudice, sicchè incombe alla parte che assuma l’estensione l’onere di provare l’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dal patto inficiato da nullità. V. altresì Cass. 1 civ. n. 2314 del 05/02/2016, secondo cui la nullità si estende all’intero contratto, o a tutta la clausola, ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità);

che, per contro, va accolto il quarto motivo, limitatamente alla richiesta applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 restando assorbite sul punto le altre censure ivi formulate, atteso che l’impugnata pronuncia, resa in data 24 novembre – 16 dicembre 2010, non passata in giudicato a causa dell’intervenuta tempestiva e rituale impugnazione, resta soggetta comunque alle successive previsioni introdotte dalla L. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro), alla stregua dei principi affermati di recente dalle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 21691 in data 5 luglio – 27 ottobre 2016 (è stata, in particolare, ricordata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la novella di novembre 2010 vale anche per i giudizi di legittimità a causa della sua specifica formulazione, in quanto nel concetto di giudizi pendenti rientrano anche quelli in cui la pendenza deriva dalla proposizione o proponibilità del ricorso per cassazione e persino quelli in cui la Cassazione si è pronunciata con rinvio al giudice di merito.

Orbene le Sezioni civili, con ampia ed articolata motivazione, hanno definito le menzionate questioni affermando i seguenti principi di diritto:

1) L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere interpretato nel senso che la violazione di norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perchè dotate di efficacia retroattiva. In tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta;

2) il ricorso per violazione di legge sopravvenuta incontra il limite del giudicato. Se la sentenza si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l’accoglimento dell’impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, la proposizione dell’impugnazione nei confronti della parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima);

che, pertanto, l’applicazione dei succitati principi, anche al caso qui in esame comporta l’accoglimento della doglianza riguardante la violazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5-7, (comma 5 peraltro oggetto d’interpretazione autentica dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 con l’art. 1, comma 13, nel senso che la disposizione di cui al comma 5 va intesa nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro), e quindi la cassazione della sentenza de qua sul punto con rinvio al giudice di merito.

PQM

 

la Corte, in accoglimento dell’ultimo motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri, cassa per l’effetto la sentenza impugnata; rinvia, quindi, alla Corte di Appello di ROMA, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2017

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