Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22272 del 13/09/2018

Cassazione civile sez. III, 13/09/2018, (ud. 27/04/2018, dep. 13/09/2018), n.22272

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25131-2014 proposto da:

D.F.L., C.R., D.F.S., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA SESTO FIORENTINO, 41, presso lo studio

dell’avvocato CARMELO FABRIZIO FERRARA, rappresentati e difesi

dall’avvocato LORENZO SALVATORE INFANTINO giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ASSESSORATO BENI CULTURALI E AMBIENTALI PUBBLICA ISTRUZ. REG.

SICILIANA ASSESSORATO REGIONALE DELL’ISTRUZIONE E DELLA FORMAZIONE

REGIONE SICILIANA, ASSESSORATO REGIONALE DEI BENI CULTURALI E DELLE

IDENTITA’ SICILIANA REGIONE SICILIANA, C.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 430/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 18/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/04/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO SPAZIANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento dei primi tre

motivi; assorbiti gli altri.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato nei giorni 8 e 9 settembre 2004, D.F.L. e C.R., in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore D.F.S., convennero in giudizio, dinanzi al tribunale di Palermo, Co.Pi. e l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione siciliano, domandandone la condanna in solido al risarcimento dei danni (da liquidarsi in Euro 255.000 o nella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia) subiti a causa degli atti di violenza sessuale (reato accertato con sentenza penale passata in giudicato) posti in essere dalla Co., insegnante di scuola materna, in danno della piccola S..

I convenuti, costituitisi in giudizio, invocarono il rigetto della domanda; Co.Pi., in via subordinata, chiese che fosse condannato esclusivamente l’Assessorato.

Con sentenza del 29 settembre 2008, il tribunale di Palermo condannò i convenuti, in solido tra loro, a pagare agli attori la somma di Euro 160.000 (di cui 150.000 a titolo di danno morale e 10.000 a titolo di danno biologico) in qualità di esercenti la potestà genitoriale sulla vittima dell’illecito e le ulteriori somme di Euro 175.000 ciascuno (di cui 150.000 a titolo di danno morale e 25.000 a titolo di danno biologico) per il pregiudizio subito in proprio.

Con sentenza del 18 marzo 2014, la Corte di Appello di Palermo – adita con impugnazione principale dall’Assessorato e con impugnazione incidentale dagli originari attori, da D.F.S., divenuta maggiorenne, e da Co.Pi. – ha ridotto il risarcimento, liquidando in favore di ciascun danneggiato, a titolo di danno non patrimoniale, la somma complessiva di Euro 50.000, comprensivi di rivalutazione ed interessi.

Avverso la sentenza della Corte palermitana propongono ricorso per cassazione D.F.L., C.R. e d.F.S., affidandosi a sei motivi di censura.

Gli intimati non svolgono attività difensiva.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 166,324,333,334,343,347 e 324 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

I ricorrenti lamentano che la Corte di Appello abbia riformato la sentenza di primo grado anche in favore di Co.Pi., omettendo indebitamente di rilevare l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale da lei proposta, che avrebbe dovuto essere ritenuta tardiva per violazione sia dell’art. 334 c.p.c., sia dell’art. 343 c.p.c., comma 1 e art. 166 c.p.c..

Con riferimento alla prima violazione, i ricorrenti, da un lato, evidenziano che Co.Pi. aveva proposto appello incidentale (aderendo parzialmente ai motivi già contenuti nell’appello principale dell’Assessorato) oltre il termine “lungo” di un anno stabilito dall’art. 327 c.p.c. (nella formulazione applicabile ratione temporis), atteso che la sentenza di primo grado era stata depositata il 29 settembre 2008, mentre la comparsa di risposta con l’impugnazione incidentale era stata depositata soltanto il 28 gennaio 2010; dall’altro lato, sostengono che la regola che consente l’impugnazione incidentale anche dopo la scadenza del termine (impugnazione incidentale tardiva: art. 334 c.p.c.) troverebbe applicazione solo con riguardo all’impugnazione incidentale proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale e non anche con riguardo all’impugnazione incidentale che abbia carattere adesivo rispetto all’impugnazione principale medesima, la quale resterebbe soggetta agli ordinari termini di decadenza.

Con riferimento alla seconda violazione, deducono che Pietra Co., costituendosi nel giudizio di appello soltanto in data 28 gennaio 2010, non aveva rispettato la prescrizione secondo la quale la costituzione deve avvenire almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione, la quale nell’atto di impugnazione principale dell’Assessorato era stata fissata per il precedente 10 gennaio, anche se poi era stata rinviata, ex art. 168 bis c.p.c., comma 4, al 17 febbraio 2010.

Osservano che, in ragione della decadenza della Co. dal potere di proporre appello, le statuizioni di condanna emesse nei suoi confronti dal giudice di primo grado sarebbero passate in giudicato nonostante la tempestiva impugnazione dell’Assessorato, attesa la scindibilità delle relative cause, vertendosi in ipotesi di obbligazioni solidali.

1.1. Il motivo è fondato.

Va premesso che dal controllo degli atti rimessi in seguito all’acquisizione (disposta all’udienza del 6 luglio 2017) del fascicolo d’ufficio del processo di appello – controllo consentito a questa Corte, in quanto giudice del “fatto processuale”, allorchè sia chiamata a sindacare un vizio di inosservanza di norme processuali (Cass. 08/06/2007, n. 13514) – è emerso che effettivamente la comparsa di risposta contenente l’appello incidentale adesivo di Co.Pi. era stata depositata in data 28 gennaio 2010: per un verso, pertanto, l’impugnazione incidentale adesiva era stata proposta dopo il decorso del termine lungo di un anno previsto dalla formulazione allora vigente dell’art. 327 c.p.c., il quale doveva ritenersi scaduto in data 13 novembre 2009 atteso che la pubblicazione della pronuncia di primo grado era avvenuta il 29 settembre 2008; per altro verso, la medesima impugnazione incidentale era stata proposta in violazione del termine dilatorio di venti giorni previsto dall’art. 343 c.p.c., comma 1 e art. 166 c.p.c., il quale doveva ritenersi scaduto in data 21 dicembre 2009, atteso che la prima udienza del giudizio di appello era stata fissata per il 10 gennaio 2010, sebbene fosse stata successivamente rinviata, ex art. 168 c.p.c., comma 4, al successivo 17 febbraio 2010.

1.2. Tanto premesso, va anche evidenziato che la delibazione della prima ragione di inammissibilità dell’appello incidentale di Co.Pi., sollevata con il motivo di ricorso in esame, comporterebbe la necessità di prendere posizione sulla dibattuta questione se le regole dettate in tema di impugnazione incidentale tardiva dall’art. 334 c.p.c. (secondo cui tale impugnazione può essere proposta anche dopo il decorso del termine ordinariamente previsto o allorchè la parte abbia fatto acquiescenza alla sentenza) operino esclusivamente con riguardo all’impugnazione incidentale in senso stretto (cd. impugnazione incidentale oppositiva), e cioè a quella proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale (in tal senso Cass. 20/01/2014, n. 1120; Cass. 07/10/2015, n. 20040; Cass. 28/10/2015, n. 21990; Cass. 18/05/2016, n. 10243; Cass. 07/03/2018, n. 5438), oppure anche con riguardo all’impugnazione incidentale (cd. impugnazione incidentale adesiva) fondata sui medesimi motivi dell’impugnazione principale, allorchè quest’ultima metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza (in tal senso, Cass., Sez. U., 27/11/2007, n. 24627; Cass., Sez. U., 04/08/2010, n. 18049; Cass. 16/11/2015, n. 23396; Cass. 25/01/2018, n. 1879; Cass. 12/03/2018, n. 5876).

1.3. Da tale questione, in applicazione del principio della c.d. “ragione più liquida” (Cass., Sez. U., 08/05/2014, n. 9936), può tuttavia prescindersi in quanto, nella presente vicenda, l’inammissibilità dell’appello incidentale tardivo proposto da Co.Pi. deve essere rilevata in accoglimento del secondo rilievo sollevato con il motivo di ricorso per cassazione in esame.

Anche se si ritenesse consentita la proposizione dell’impugnazione incidentale adesiva dopo la scadenza del termine annuale di decadenza, infatti, la Co. avrebbe pur sempre avuto l’onere di depositare la comparsa di risposta contenente tale impugnazione all’atto della costituzione nel giudizio di appello, che sarebbe dovuta avvenire almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione (artt. 343 c.p.c., comma 1 e art. 166 c.p.c.), non assumendo rilievo il rinvio d’ufficio di tale udienza a norma dell’art. 168 bis c.p.c., comma 4, atteso che tale ipotesi, a differenza di quella prevista dal successivo quinto comma dello stesso art. 168 bis c.p.c. (relativa al differimento della data della prima udienza con decreto del giudice istruttore) non determina la riapertura dei termini per il deposito della comparsa e per la proposizione dell’appello incidentale (Cass. 23/06/2008, n. 17032; Cass. 05/10/2010, n. 20667; Cass. 22/01/2015, n. 1127).

Nè sarebbe possibile sostenere, in contrario, l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 343 c.p.c., comma 2 che consente di proporre l’appello incidentale nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione proposta da altra parte che non sia l’appellante principale.

Deve infatti escludersi che l’interesse della Co. ad impugnare la sentenza di primo grado fosse sorto in seguito alla proposizione dell’impugnazione incidentale degli originari attori (contenuta nella comparsa di risposta depositata in data 19 dicembre 2009), e che dunque essa fosse legittimata a proporre appello incidentale sino alla prima udienza successiva alla loro costituzione (udienza celebrata il 17 febbraio 2010), atteso che, al contrario, il predetto interesse doveva ritenersi sussistente sin dall’emissione della sentenza impugnata (contenente la condanna della Co. in solido con l’Assessorato) e comunque al momento dell’appello principale proposto da quest’ultimo.

1.4. Si deve pertanto concludere che l’appello incidentale proposto da Co.Pi., mediante comparsa di risposta depositata in data 28 gennaio 2010, era inammissibile, in quanto tardivo, essendo essa onerata di proporre l’impugnazione incidentale entro il precedente 21 dicembre 2009 (venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata per il 10 gennaio 2010), con conseguente passaggio in giudicato delle statuizioni di condanna emesse nei suoi confronti dal giudice di primo grado.

In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va dunque cassata nella parte in cui ha riformato la pronuncia di primo grado anche in favore di Co.Pi..

2. Tale cassazione non determina tuttavia l’assorbimento degli altri motivi, i quali conservano rilevanza con riguardo alle censurate statuizioni della sentenza di appello che hanno riformato la pronuncia di primo grado in favore dell’Assessorato.

Il secondo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

I ricorrenti sostengono che la Corte di merito – dopo aver correttamente rigettato il primo e il terzo motivo di appello proposti dall’Assessorato (per un verso confermando l’accertamento della responsabilità di quest’ultimo ai sensi dell’art. 2049 c.c.; per altro verso escludendo che la condanna al pagamento delle somme di Euro 160.000, in favore della vittima, e di Euro 175.000, in favore di ciascuno dei genitori, fosse stata emessa ultra petita) – sarebbe essa stessa incorsa, accogliendo il secondo motivo, nel vizio di ultrapetizione, in quanto avrebbe indebitamente proceduto alla rideterminazione in pejus anche del danno biologico (riconosciuto dal primo giudice nella misura del 5% in favore della vittima e in quella del 10% in favore di ciascuno dei suoi genitori), sebbene la censura formulata dalla pubblica amministrazione appellante concernesse unicamente l’eccessiva liquidazione del danno morale.

2.1. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha infatti trattato congiuntamente il motivo di appello principale con cui l’Assessorato aveva lamentato l’eccessiva liquidazione del danno morale e il motivo di appello incidentale con cui gli originari attori avevano lamentato il mancato riconoscimento del danno esistenziale e l’esiguità di quello biologico riconosciuto alla vittima.

Sulla base di tale trattazione congiunta, ha dunque proceduto alla rideterminazione in minus del complessivo ammontare del danno non patrimoniale (liquidato in favore di ciascun danneggiato nella misura di Euro 50.000), per un verso riconoscendo (in parziale accoglimento dell’appello incidentale degli attori) la sussistenza della componente esistenziale, per altro verso riducendo drasticamente (in parziale accoglimento principale dell’Assessorato) la componente morale.

A prescindere da ogni considerazione in ordine alla legittimità o meno del quomodo di tale riduzione e in ordine al soddisfacimento o meno, da parte del giudice del merito, dell’obbligo di dare conto delle ragioni della stessa (su cui v., idra, in sede di esame del terzo, quarto e quinto motivo di ricorso), deve pertanto escludersi la sussistenza della dedotta ultrapetizione, in quanto la riduzione del complessivo ammontare del pregiudizio non patrimoniale è stata ottenuta senza procedere alla rideterminazione in pejus del danno biologico (già liquidato da primo giudice nelle somme di Euro 10.000 per la vittima e di Euro 25.000 per ciascuno dei suoi genitori) ma operando unicamente sulla componente morale e su quella esistenziale.

3. Il terzo motivo denuncia “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4: omessa motivazione – motivazione apparente (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

I ricorrenti deducono che l’impianto motivazionale della sentenza impugnata sarebbe caratterizzato da uno squilibrio tra la parte relativa all’accertamento del pregiudizio non patrimoniale e quella relativa alla sua liquidazione. Mentre nella prima parte la Corte territoriale avrebbe debitamente dato conto delle ragioni in base alle quali aveva ritenuto sussistenti le diverse componenti (biologica, morale ed esistenziale) del predetto pregiudizio, nella seconda parte avrebbe indebitamente omesso di esplicitare se e come, nell’esercizio del proprio potere equitativo di liquidazione del danno, avesse proceduto alla prudente considerazione di tutte le circostanze verosimilmente incidenti su di esso, nonchè di chiarire quale specifico valore economico fosse da attribuire alle varie voci di pregiudizio precedentemente individuate ed accertate. La sentenza impugnata dovrebbe dunque ritenersi nulla per difetto assoluto di motivazione nella parte relativa alla liquidazione del danno, in quanto la Corte di merito avrebbe reso indecifrabile ed incontrollabile il percorso logico seguito nella propria determinazione.

4. Il quarto motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,2043 e 2059 c.c. e dell’art. 185 c.p. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

I ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale, nel quantificare il danno non patrimoniale in misura drasticamente inferiore a quella riconosciuta dal primo giudice, non solo avrebbe violato l’obbligo di motivazione, riducendola al disotto del “minimo costituzionale” (con conseguente nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4), ma avrebbe violato altresì le norme sostanziali che presiedono alla liquidazione equitativa del danno, così incorrendo anche nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3: tali regole, precisamente, sarebbero state violate, in quanto si sarebbe proceduto alla generica liquidazione dell’importo complessivo del pregiudizio non patrimoniale, per un verso omettendo di specificare l’ammontare del risarcimento attribuito per ognuna delle singole componenti precedentemente individuate ed accertate; per altro verso omettendo di tenere conto sia dell’estensione temporale delle conseguenze dannose individuate sia della circostanza, pur tenuta presente in sede di accertamento del danno, che il grave reato commesso da Co.Pi. aveva comportato la lesione dei diritti fondamentali alla dignità e all’integrità morale della persona, la quale avrebbe dovuto assumere specifica autonomia in sede di liquidazione del danno.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti, denunciando “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, deducono che la Corte di Appello non avrebbe tenuto in considerazione, nella parte di motivazione relativa alla liquidazione del danno non patrimoniale, i fatti storici accertati nella precedente parte in cui aveva proceduto all’individuazione delle sue diverse componenti.

5.1. Gli illustrati motivi – che devono essere trattati congiuntamente in quanto propongono tutti censure inerenti alla liquidazione del danno non patrimoniale, operata dalla Corte di Appello attraverso la drastica riduzione dell’importo riconosciuto dal primo giudice – sono fondati e devono essere accolti, per quanto di ragione.

5.2. La Corte di merito, trattando congiuntamente, come si è sopra evidenziato, l’impugnazione principale dell’Assessorato e quella incidentale degli originari attori, ha accertato che il complessivo pregiudizio non patrimoniale subito dalla vittima del reato e da ognuno dei suoi genitori si componeva di diverse voci, ritenendo sussistente sia la componente morale, sia quella biologica sia quella esistenziale.

La componente biologica, già riconosciuta dal primo giudice e tratta dalle conclusioni della CTU medica espletata, è stata identificata nelle conseguenze di un “disturbo post traumatico da stress” di natura transitoria, sofferto, con diversa durata nel tempo, sia dalla vittima del reato (cui è stato riconosciuto un danno biologico nella misura del 5%) che dai suoi genitori (cui è stato riconosciuto il medesimo danno nella maggior misura del 10%).

La componente esistenziale, che il tribunale aveva invece negato, è stata accertata, in parziale accoglimento dell’appello incidentale degli attori, avuto riguardo alle conseguenze, “sul piano del mutamento delle consuetudini di vita. familiare e scolastica”, indotte dalla circostanza relativa al “trasferimento della bambina ad altro istituto scolastico nel periodo immediatamente successivo all’accertamento del reato”.

La componente morale, infine, è stata identificata, con riguardo alla picola vittima, nella “sofferenza morale” conseguente alla grave e prolungata condotta criminosa perpetrata nei suoi confronti da un soggetto adulto che aveva agito con dolo e approfittando della sua minorata difesa (sul rilievo che sarebbe verosimile che “le pratiche sessuali accertate, poste in essere nei confronti di soggetti che si trovano in una fase evolutiva embrionale, tale da renderli del tutto inidonei alla comprensione di qualsiasi condotta attinente alla sessualità, abbiano cagionato nei nedesimi gravi afflizioni interiori”), e, con riguardo ai suoi genitori, “nel pregiudizio morale di altrettanta gravità” da loro subito, “non foss’altro per l’immediata consapevolezza che gli stessi hanno avuto circa il disvalore del fatto, connessa al timore di possibili ripercussioni di più lunga durata sull’equilibrio psichico della bambina”.

Dopo aver proceduto, all’esito dell’articolata motivazione sopra sinteticamente ricordata, all’accertamento del danno non patrimoniale nelle sue diverse componenti, la Corte territoriale ha provveduto alla liquidazione dello stesso sulla base di una drastica quanto immotivata riduzione dell’ammontare già riconosciuto dal primo giudice, senza dare conto delle ragioni giustificative della stessa, ma limitandosi a rilevare, del tutto assertivamente, che il riconoscimento dell’importo complessivo di Euro 50.000 (comprensivo di rivalutazione ed interessi), per ciascuno dei danneggiati, sarebbe “conforme a retto uso di giustizia”, mentre il più ampio risarcimento accordato dal primo giudice (che aveva liquidato i maggiori importi di Euro 160.000 per la vittima e 175.00 per ciascuno dei genitori) si sarebbe rivelato “sproporzionato” rispetto ai fatti.

5.3. La circostanza che la Corte di merito abbia indebitamente omesso di dare conto delle ragioni giustificative dell’operata rideterminazione in minus dell’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, rende illegittima la liquidazione equitativa.

La liquidazione equitativa, infatti, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste pur sempre in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno, e cioè in un giudizio di mediazione tra le probabilità positive e le probabilità negative del danno effettivo nel caso concreto.

Pur giocandovi un ruolo rilevante il potere discrezionale del giudice, essa non può tradursi, pertanto, in una valutazione arbitraria, in quanto il giudice è chiamato a compiere un ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze che nel caso concreto abbiano potuto avere incidenza positiva o negativa sull’ammontare del pregiudizio e a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito a ciascuna di esse, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento.

5.4. Con riferimento ad una vicenda largamente sovrapponibile a quella in esame – pronunciando su un ricorso proposto nei confronti degli stessi odierni intimati avverso una sentenza pronunciata dalla medesima Corte palermitana in un giudizio di risarcimento dei danni conseguenti alla medesima tipologia di condotte criminose – questa Corte ha del resto già rilevato che, sebbene la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa sia affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice del merito, insindacabili in sede di legittimità, tuttavia è pur sempre necessario che la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo. Si è così affermato, in particolare, che è viziata la motivazione della sentenza la quale, nell’effettuare la liquidazione equitativa del danno morale, non si riferisca alla gravità del fatto, alle condizioni soggettive della persona, all’entità della sofferenza e del turbamento d’animo, in quanto la stessa si pone al di fuori del fondamento e dei limiti di cui all’art. 1226 c.c., così da rendere impossibile il controllo dell’iter logico seguito dal giudice di merito nella relativa quantificazione (Cass. 29/02/2016, n. 3894, non massimata).

5.5. Deve allora concludersi che, allorchè, come nel caso di specie, non siano indicati in modo specifico i criteri utilizzati per la liquidazione equitativa, la sentenza impugnata incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale”) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c., con conseguente necessità di accoglimento delle inerenti censure sollevate con i motivi di ricorso in esame.

6. 11 sesto ed ultimo motivo denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudkio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Dopo aver ricordato che il giudice di prime cure, aderendo alle conclusioni dell’espletata CTU, si era limitato a riconoscere alla piccola vittima una danno biologico psichico (“disturbo post traumatico da stress”) di natura lieve e transitoria (il grado percentuale del pregiudizio era stato contenuto nella misura del 5% e le conseguenze dello stesso erano state circoscritte, quanto alla loro durata, ai quattro anni successivi alla consumazione del reato), i ricorrenti deducono che, in sede di appello incidentale, avevano debitamente censurato tale statuizione sottoponendo ad argomentata critica le conclusioni del consulente tecnico che ne costituivano il fondamento. Si dolgono tuttavia che tali specifiche critiche – le quali erano state formulate richiamando la letteratura scientifica, recepita dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che aveva posto in evidenza la gravità della lesione post traumatica da stress conseguente a violenza sessuale su soggetto minore e la sua frequente evoluzione (nel 70-80% dei casi) in danno psichico permanente – non siano state tenute in alcun conto dalla Corte di Appello, la quale ha rigettato il relativo motivo di appello incidentale omettendo di esaminarle.

6.1. Anche quest’ultimo motivo è fondato e deve essere accolto, per quanto di ragione.

Va premesso che il vizio di cui al “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5, mentre è integrato dalla mancata considerazione delle risultanze della CTU (che si risolve nell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso: in tema v., di recente, Cass. 29/05/2018, n. 13399 e Cass. 31/052018, n. 13770), non è invece integrato dall’omesso esame delle critiche e delle censure formulate dalla parte alle predette risultanze, atteso che le critiche e le censure costituiscono espressione del diritto di difesa della parte ma non concretano un fatto storico, principale o secondario, emergente dal processo.

L’omesso esame delle critiche e delle censure formulate all’indirizzo della CTU può peraltro integrare, a determinate condizioni, il diverso vizio del difetto assoluto di motivazione, in ossequio al consolidato principio secondo cui, allorchè ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare confutare i rilievi di parte (Cass. 24/04/2008, n. 10688; Cass. 02/12/2011, n. 25862; Cass. 21/11/2016, n. 23637).

6.2. Ciò premesso, deve poi aggiungersi che l’erronea qualificazione del vizio della sentenza impugnata nel motivo di ricorso per cassazione non incide sulla fondatezza dello stesso, in quanto, avuto riguardo alla funzione nomofilattica del giudizio di legittimità, spetta alla Corte di cassazione il potere di qualificazione in diritto dei fatti e nell’esercizio di tale potere la Corte può accogliere il ricorso per una ragione giuridica anche diversa da quella indicata dal ricorrente, a condizione che tale ragione sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, e fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio di un’eccezione in senso stretto (Cass. 14/02/2014, n. 3437; Cass. 28/07/2017, n. 18775; v. anche Cass., Sez. U, 24/07/2013, n. 17931).

6.3. Nel caso di specie, gli appellanti incidentali (originari attori), al fine di ottenere la riforma in melius della pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva statuito in ordine al danno biologico patito dalla vittima del reato, avevano formulato critiche puntuali e dettagliate all’indirizzo della consulenza tecnica espletata, contestando il ritenuto carattere lieve e transitorio del pregiudizio mediante specifico richiamo alla letteratura scientifica (recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità. Cass. 11/06/2009, n. 13530) secondo cui, nei casi di violenza sessuale su minori, la lesione da stress post traumatico, derivante dalla violenza subita, evolve frequentemente in un grave e permanente disturbo psichico.

La Corte territoriale, al fine di adempiere al proprio obbligo motivazionale, nei limiti del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, avrebbe dunque dovuto esaminare tali deduzioni critiche e, nell’ipotesi in cui avesse voluto disattenderle, avrebbe dovuto indicare le ragioni di tale scelta.

La circostanza che il relativo motivo di appello incidentale sia stato invece rigettato senza tenere alcun conto delle predette censure (che non vengono neppure menzionate nella motivazione della sentenza impugnata) induce allora ad accogliere, per quanto di ragione, il motivo di ricorso in esame, previa qualificazione del vizio dedotto dai ricorrenti come difetto assoluto di motivazione.

7. In definitiva, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, nonchè per quanto di ragione, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo; deve essere invece rigettato il secondo. In relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, che si uniformerà ai principi di diritto sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, nonchè, per quanto di ragione, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo; rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2018

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