Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22258 del 03/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 03/11/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 03/11/2016), n.22258

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE REGINA

MARGHERITA 262-264, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE

TAVERNA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNA

STIMANINI, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

contro

AMMINISTRAZIONE ECONOMIA E FINANZE STATO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3398/37/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di ROMA del 15/01/2014, depositata il 20/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/09/2016 dal Consigliere Relatore Dott. PAOLA VELLA.

udito l’Avvocato Anna Stefanini difensore del ricorrente chiede il

rinvio della causa a nuovo ruolo.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., osserva quanto segue.

Va preliminarmente disattesa la richiesta di differimento della trattazione del ricorso in ragione della “istanza di annullamento parziale in autotutela” presentata l’8/9/2016 all’Agenzia delle Entrate (come da copia depositata in udienza), non risultando documentata in atti qualsivoglia risposta dell’amministrazione adita.

1. Con tre motivi di ricorso, tutti formulati in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma1, lett. D) e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54” nonchè (il secondo ed il terzo) “dell’art. 2729 c.c.”, lamentando, rispettivamente:

1.1. che “il preteso recupero a tassazione è stato fondato sulla rideterminazione del reddito attraverso la generica applicazione di percentuali di ricarico al costo del venduto”, mediante ricorso a “presunzioni prive dei necessari requisiti della gravità, della precisione e della concordanza”;

1.2. che “i giudici di secondo grado hanno finito per legittimare un accertamento di tipo presuntivo (o meglio, di tipo analitico-induttivo) non solo privo di validi riscontri oggettivi, ma che non ha affatto tenuto conto della peculiare realtà commerciale”;

1.3. che “il ragionamento decisorio appare gravemente viziato” laddove il giudice d’appello legittima l’applicazione di “una percentuale di ricarico del 20% da considerarsi media del settore merceologico di appartenenza della parte”, senza nessuna considerazione degli elementi giustificativi addotti, “quali ad esempio la flessione della domanda della tradizionale clientela della ditta, la crisi economica dell’intero settore commerciale, l’esigenza di acquisire attraverso una politica concorrenziale limitata nel tempo altri settori di mercato”.

2. I motivi – che presentano profili di inammissibilità sia perchè integrano censure generiche ed astratte (risolvendosi nell’elencazione di una serie di principi giurisprudenziali spesso non attinenti alla fattispecie concreta ed alle statuizioni del giudice d’appello, alle cui conclusioni vengono peraltro contrapposte generiche deduzioni sulla “bontà della condotta commerciale tenuta”: v. pag. 35 del ricorso), sia perchè veicolano sostanzialmente una contestazione sul merito della decisione (in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte: v. ex plurimis, Cass. s.u. n. 7931/13; Cass. nn. 12264/14, 26860/14, 959/15, 961/15, 962/15, 3396/15, 14233/15) – sono comunque infondati.

3. La sentenza impugnata risulta infatti in linea con il consolidato orientamento di questa Corte, per cui “anche in presenza di una contabilità formalmente corretta, ma complessivamente inattendibile”, è legittimo il ricorso all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), ove esso “risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.” – cioè gravi, precise e concordanti – “e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie” (Cass. sez. 5, nn. 4555/98; 2741/00; 11645/01; 6337/02; 13995/02; 8839/03; 26130/07; 21532/07; 951/09; 23626/11; 7871/12; 23096/12; 14068/14; 15027/14; 23550/11; 18992/15; 22937/15), tenendo conto, in particolare, che “il giudice tributario ha il potere di controllare l’operato della P.A. e di verificare se gli effetti che l’ufficio ha ritenuto di desumere dai fatti utilizzati come indizi siano o meno compatibili con il criterio della normalità”, sicchè che “gli elementi assunti a fonte di presunzione che legittimano l’accertamento analitico-induttivo della condizione reddituale del contribuente non debbono essere necessariamente plirimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave”. Del resto, la valutazione della relativa “rilevanza, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria” (Cass. sez. 5, nn. 6689/16; 403/16; 25706/15; 656/14).

4. Nel caso di specie i giudici regionali, a fronte delle discrepanze registrate dai verificatori (omessa annotazione di acquisti intracomunitari, irregolare tenuta della scritture contabili, esistenze iniziali maggiori rispetto al dichiarato, omessa contabilizzazione di ricavi), hanno convalidato la percentuale di ricarico applicata sulla merce venduta – pari alla “media ponderale del 20%”, calcolata “su un campione di articoli rientranti in categorie omogenee (biciclette e articoli sportivi)” – ritenendo che, in presenza di “vendite effettuate a nero”, “è legittima la presunzione che la percentuale di ricarico applicata sulla merce venduta in evasione di imposta è uguale a quella applicata sulla merce commercializzata ufficialmente, a meno che il contribuente non provi di aver venduto a prezzi inferiori le merci non documentate”, ed aggiungendo che, però, “il contribuente nemmeno in questa sede ha fornito l’eventuale prova contraria per contrastare i dati posti dall’Ufficio”.

5. Il ricorso va quindi rigettato, senza necessità di statuizione sulle spese processuali, che restano a carico della parte ricorrente che le ha anticipate, non avendo la parte intimata svolto difese. Ricorrono altresì i presupposti di legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2016

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