Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22252 del 26/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 26/10/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 26/10/2011), n.22252

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11189/2009 proposto da:

ITALPOL GROUP SPA in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE ANGELICO 38, presso lo studio

dell’avvocato SINOPOLI VINCENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato

NUSSI MARIO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

Nonchè da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente incidentale –

contro

ITALPOL GROUP SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 11/2008 della COMM. TRIB. REG. di TRIESTE,

depositata il 18/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato NUSSI, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato D’ASCIA, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso in

subordine rigetto.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. La Italpol Group s.p.a. (già Vigilanza Italpol s.r.l.) propone ricorso per cassazione (successivamente illustrato da memorie) nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale condizionato) e avverso la sentenza con la quale -in controversia concernente impugnazione di cartella di pagamento per Iva, ritenute alla fonte Irpef, ritenute alla fonte addizionale regionale Irpef, Irap e credito di imposta ex L. n. 449 del 1997, oltre interessi, relativa all’anno di imposta 2000 – la C-T.R. Friuli confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso introduttivo.

In particolare, per quel che in questa sede ancora rileva, i giudici d’appello affermavano: che nella specie la cartella di pagamento conteneva tutti gli elementi idonei a fare luogo all’iscrizione, compresa la motivazione sintetica della pretesa scaturente dal controllo delle dichiarazioni prodotte ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis; che nell’ipotesi di dichiarazione integrativa ai sensi della L. n. 689 del 2002, art. 9 bis, non operano le previsioni dettate, per il caso di omesso pagamento di una rata, dalla medesima legge per altre forme di definizione; che, in relazione alla irrogazione delle sanzioni con riguardo all’Irap, nella specie non sussistevano, ai fini dell’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, obiettive condizioni di incertezza sulla portata e l’ambito di applicazione della norma tributaria.

2. Deve innanzitutto essere disposta la riunione dei due ricorsi siccome proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo del ricorso principale la contribuente, deducendo nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., si duole che i giudici d’appello, nonostante specifico motivo di impugnazione, non si siano pronunciati in ordine alla compensazione delle spese disposta dai primi giudici benchè l’Ufficio avesse esercitato l’autotutela per riconosciuta infondatezza dell’atto impositivo su oltre tre quarti della materia controversa. Per l’ipotesi in cui il silenzio in ordine al motivo d’appello di cui sopra sia ritenuto una conferma della decisione di primo grado, la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, comma 3, e art. 92 c.p.c., comma 2, oltre che vizio di motivazione, rilevando che con sentenza n. 274 del 2005 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 46 citato nella parte in cui prevedeva la compensazione delle spese del giudizio in ipotesi di cessata materia del contendere per l’esercizio di autotutela da parte dell’ufficio impositore, con la conseguenza che nella specie si imponeva una ripartizione delle spese di lite che tenesse conto del fatto che l’Ufficio aveva esercitato l’autotutela su oltre tre quarti della materia controversa. La contribuente si duole inoltre che i giudici d’appello abbiano omesso di motivare in ordine alla conferma della decisione di primo grado in tema di spese processuali. Le censure esposte sono infondate.

In particolare deve escludersi la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che – anche prescindendo dal rilievo che dalla sentenza impugnata non risulta la proposizione di uno specifico motivo di impugnazione in relazione alla compensazione delle spese disposta dai primi giudici e che il ricorso sul punto non è autosufficiente – la conferma della decisione di primo grado (espressamente dichiarata nel dispositivo della sentenza d’appello) implica conferma anche del regime delle spese disposto nella suddetta decisione. Deve inoltre escludersi che, confermando la compensazione delle spese disposta dai primi giudici, la C.T.R. abbia violato il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, quale risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del comma 3 “nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge” (Corte cost. n. 274 del 2005). La pronuncia della Corte, infatti, ha ad oggetto esclusivamente la compensazione ope legis delle spese processuali e non incide sul potere – dovere del giudice di compensarle ove sussista soccombenza reciproca o sussistano altri giusti motivi ai sensi dell’art. 92 c.p.c..

Deve altrettanto escludersi la dedotta violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2.

In proposito, pacifico che la contribuente non è risultata totalmente vittoriosa nel giudizio di primo grado e che non è stata condannata alle spese di tale giudizio, è sufficiente evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (v.

tra numerose altre Cass. n. 406 del 2008 e successive conformi).

Peraltro, è proprio il comma secondo dell’art. 92 c.p.c., invocato dalla contribuente ad attribuire al giudice il potere di compensare totalmente o parzialmente le spese in ipotesi di soccombenza reciproca ovvero in ipotesi di ricorrenza di giusti motivi (in tale ultimo caso indicando tali motivi, i quali peraltro, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, possono essere evincibili anche dal complessivo tenore della sentenza – v. Cass. n. 7766 del 2010).

Occorre aggiungere che, secondo dottrina e giurisprudenza, può aversi soccombenza reciproca quando vengono rigettate sia la domanda principale che la riconvenzionale, quando sono accolte solo alcune delle domande proposte da un’unica parte, quando sono accolti solo alcuni capi dell’unica domanda proposta o quando la domanda è accolta sulla base di una sola delle argomentazioni svolte, mentre si discute se integri soccombenza reciproca l’accoglimento della domanda per un quantum inferiore al richiesto, essendosi in alcuni casi la giurisprudenza pronunciata per una ipotesi di soccombenza reciproca, in altri per una ipotesi di ricorrenza di giusti motivi per la compensazione. E’ inoltre appena il caso di ribadire e precisare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudice gode di un potere ampiamente discrezionale non solo nel concedere o meno la compensazione delle spese, ma anche nel disporla totalmente o parzialmente senza tenere conto del rapporto di proporzionalità tra la rispettiva soccombenza delle parti, potendo ad esempio insindacabilmente giudicare irrilevante il diverso valore delle loro domande o il diverso peso delle argomentazioni respinte dell’una e dell’altra parte (v. Cass. n. 2522 del 1974, n. 18236 del 2003 e successive conformi).

Quanto alla denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere i giudici d’appello omesso di motivare in ordine alla conferma della compensazione delle spese nonostante “l’Ufficio fosse soccombente virtuale per oltre tre quarti della materia del contendere”, è sufficiente evidenziare che nella specie non si discute della omessa motivazione in ordine a fatti controversi e decisivi (non risultando contestato che l’Ufficio abbia nel corso del giudizio in gran parte ridotto la pretesa impositiva) quanto piuttosto della omessa motivazione in ordine alle conseguenze giuridiche deducibili da tali fatti in tema di regime delle spese e che il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, è configurabile solo con riguardo all’accertamento in fatto e non con riguardo alla motivazione in diritto, posto che, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., quando la decisione sia conforme a diritto, la Cassazione può limitarsi a correggere o integrare la motivazione in diritto della sentenza impugnata.

Col secondo motivo del ricorso principale, deducendo violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 3, e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12, comma 3, oltre che vizio di motivazione, la ricorrente si duole che i giudici d’appello abbiano ritenuto che la cartella impugnata fosse validamente motivata scaturendo dalle dichiarazioni ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, senza considerare che, stante l’adesione al condono di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, l’Ufficio non avrebbe potuto agire in base alle dichiarazioni delle liquidazioni, essendo legittimato ad un’iscrizione a ruolo solo da un diniego di condono.

La censura, prescindendo da altre possibili considerazioni (in ogni caso esposte in relazione all’esame dei successivi due motivi), è innanzitutto inammissibile per totale difetto di autosufficienza. In proposito, questa Corte di legittimità si è espressamente e ripetutamente pronunciata evidenziando che, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso -, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente la motivazione di detto atto (o almeno i passi della medesima ritenuti rilevanti ai fini della censura proposta) al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. Cass. n. 15867 del 2004 e numerose successive conformi).

Col terzo motivo, deducendo nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, oltre che omessa motivazione, la ricorrente principale si duole che i giudici d’appello non si siano pronunciati in ordine alla illegittimità della iscrizione a ruolo stante l’intervenuta adesione al condono L. n. 289 del 2002, ex art. 9 bis, nonostante la ricorrente avesse proposto sul punto apposito motivo di appello e si duole altresì che i giudici della C.T.R. abbiano violato il citato art. 14 confermando la sentenza di primo grado che non aveva rilevato l’illegittimità della liquidazione ex artt. 36 bis e 54 bis, benchè il contribuente avesse presentato istanza di condono costituente dichiarazione novativa del titolo costitutivo di imposta.

Col quarto motivo, deducendo nullità della sentenza per ultrapetizione nonchè violazione e/o falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, oltre che vizio di motivazione, la ricorrente principale si duole che i giudici d’appello abbiano deciso sulla validità ed efficacia della dichiarazione di condono in controversia riguardante la legittimità di una iscrizione a ruolo effettuata in base agli esiti della dichiarazione annuale ex artt. 36 bis e 54 bis, citati e non avente ad oggetto impugnativa di diniego di condono. La ricorrente si duole altresì che i giudici d’appello abbiano ritenuto l’invalidità ed inefficacia della dichiarazione integrativa di condono ai sensi del citato art. 9 bis per avere la società effettuato in ritardo il pagamento delle rate successive alla prima, senza considerare che l’omesso o ritardato pagamento delle suddette rate non inficia la dichiarazione costitutiva del novato titolo obbligatorio, dovendo il condono ritenersi perfezionato con la dichiarazione volontaria integrata dal pagamento della prima rata. La ricorrente si duole infine che i giudici d’appello abbiano motivato in maniera contraddittoria la ritenuta invalidità ed inefficacia della dichiarazione integrativa di condono.

I due motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

Occorre innanzitutto evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (la quale, sia pure riferita a condoni previsti da leggi diverse dalla n. 289 del 2002, è da ritenersi, in quanto espressione di principi generali, condivisibile anche con riguardo alla fattispecie in esame), in presenza di una dichiarazione integrativa invalida, l’Amministrazione finanziaria riacquista i propri poteri di controllo, con la conseguenza che, qualora una dichiarazione integrativa sia invalida o venga presentata oltre i termini prescritti, il potere impositivo dell’amministrazione finanziaria, già condizionato, risorge pienamente senza che essa sia tenuta, in ordine alla detta dichiarazione, ad adottare alcun previo esplicito provvedimento di reiezione o di declaratoria di invalidità, che, peraltro, costituiscono il necessario presupposto dell’atto di accertamento (v. Cass. n. 1557 del 2007, n. 15161 del 2006 e n. 7454 del 2003), posto che, qualora il contribuente,, al quale sia stato notificato avviso di accertamento, proponga istanza di condono in esito alla quale l’ufficio emetta la cartella esattoriale, quest’ultima costituisce un sostanziale rigetto dell’istanza di condono (v. Cass. n. 4415 del 2008).

Pertanto, per accertare se l’amministrazione avesse nella specie correttamente proceduto ad iscrizione a ruolo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, a seguito della intervenuta inefficacia e/o invalidità della dichiarazione integrativa, occorreva accertare la sussistenza o meno della suddetta invalidità e/o inefficacia del condono. Peraltro, che il tema della validità della dichiarazione integrativa costituisse oggetto della lite risulta dalla sentenza impugnata, secondo la quale la contribuente in primo grado sostenne l’illegittimità della iscrizione a ruolo perchè era stata presentata istanza di condono L. n. 289 del 2002, ex art. 9 bis, col pagamento della prima rata, nonchè delle successive – sia pure in ritardo rispetto alle scadenze previste, l’Ufficio controdedusse che il condono non si era perfezionato a causa della tardività dei versamenti rateali, e in appello la contribuente ripropose la tesi della validità ed efficacia della dichiarazione di condono.

Tanto premesso, deve rilevarsi che dalla sentenza impugnata risulta che l’istanza ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, fu presentata in relazione a ritardati od omessi versamenti Iva e che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la sentenza della Corte di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C- 132/06 – secondo la quale la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388 CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all’I.V.A., per avere previsto, con la L. 27 dicembre 2002, n. 289, artt. 7 ed 8, una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, così pregiudicando seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto – ha una portata generale, estesa a qualsiasi misura nazionale, sia essa di carattere legislativo o amministrativo, con la quale lo Stato membro rinunci in modo generale o indiscriminato al pagamento di quanto dovuto per Iva (v. Cass. n. 20068 del 2009). Tale incompatibilità riguarda, quindi, anche la definizione prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, il quale pertanto, nella parte in cui consente di definire una controversia evitando il pagamento di sanzioni connesse al ritardato od omesso versamento dell’Iva, deve essere disapplicato per contrasto con la 6^ direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, alla stregua dell’interpretazione adeguatrice imposta dalla citata sentenza della Corte di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C- 132/06.

E’ infatti in particolare da evidenziare che quanto concerne l’imposta in sè si riferisce ovviamente anche alle sanzioni, delle quali non può essere esclusa l’integrale esazione, come peraltro previsto al punto 42 della sentenza di infrazione (v. sul punto Cass. n. 25701 del 2009 e n. 20068 del 2009 citata), posto che le misure con cui lo Stato membro rinuncia ad una corretta applicazione e/o riscossione dell’I.V.A. devono ritenersi incompatibili con la disciplina comunitaria anche in relazione alle sanzioni di natura tributaria previste dall’ordinamento nazionale per le violazioni di norme che regolano gli obblighi di dichiarazione e pagamento dell’imposta, pur non essendo la materia delle sanzioni regolata dalla sesta direttiva. In proposito è infatti determinante il rilievo che si tratta di misure di carattere dissuasivo, oltre che repressivo, la cui funzione è quella di determinare il corretto adempimento di un obbligo nascente dal diritto comunitario. E’ peraltro da sottolineare che già una consolidata e risalente giurisprudenza della Corte di Giustizia (v, sentenze in cause 79/83;

C – 382 – 383/92; C – 180/95) faceva discendere dal principio di effettività la conseguenza che le sanzioni previste dagli ordinamenti degli Stati membri per garantire un puntuale adempimento di obblighi nascenti dal diritto comunitario non possono essere previste in misura irrisoria (e, quindi, a maggior ragione, non possono essere, in tutto o in parte, soppresse).

E’ infine appena il caso di evidenziare che i principi sopra esposti devono essere applicati da questa Corte a prescindere da specifiche deduzioni di parte. Il principio di effettività contenuto nell’art. 10 del Trattato CE comporta infatti l’obbligo del giudice nazionale di applicare d’ufficio il diritto comunitario, senza che possano ostarvi preclusioni procedimentali o processuali, o, nella specie, il carattere chiuso del giudizio di cassazione (v. in proposito, le sentenze della Corte di Giustizia in cause C – 312/93, Peterbroeck; C – 430-431/93, Van Schijndel; C – 327/00, Santex, alle quali si è adeguata la giurisprudenza di questa Corte, fra le altre, S.U. 18 dicembre 2006, n. 26948).

Tuttavia, anche prescindendo dalle considerazioni che precedono, è sufficiente evidenziare che, come peraltro precisato dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità, le norme che disciplinano i condoni tributari, essendo derogatorie di quelle generali dell’ordinamento tributario, integrano sistemi compiuti di natura eccezionale (v. Cass. n. 514 del 2002), essendo in particolare da precisare che ciascuna delle diverse ipotesi di definizione agevolata previste dalla L. n. 289 del 2009, costituisce disposizione di carattere eccezionale assistita da una propria specifica disciplina che è di stretta interpretazione e non può essere integrata in via ermeneutica dalle norme generali dell’ordinamento tributario e neppure da quelle dettate per altre forme di definizione, ancorchè contemplate dalla medesima legge.

Ne consegue che, alla stregua dell’art. 9 bis citato (il quale, per quanto interessa, al comma 1 dispone che “Le sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, non si applicano ai contribuenti e ai sostituti d’imposta che alla data del 16 aprile 2003 – poi prorogata al 16 aprile 2004 – provvedono ai pagamenti delle imposte o delle ritenute risultanti dalle dichiarazioni annuali presentate entro il 31 ottobre 2002, per le quali il termine di versamento è scaduto anteriormente a tale data. Se gli importi da versare per ciascun periodo di imposta eccedono … la somma di 6.000 Euro, gli importi eccedenti, maggiorati degli interessi legali…

possono essere versati in tre rate di pari importo”), ed in assenza di disposizioni quali quelle di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 8, 9 e 15, (prevedenti che “l’omesso versamento delle eccedenze entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione”) ovvero alla L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 2, (prevedente che “l’omesso versamento delle rate successive alla prima entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione”) deve ritenersi semplicemente che la non applicazione delle sanzioni si verifica solo se si provvede al pagamento (in unica soluzione o rateale che sia) delle imposte nei termini e nei modi di cui alla medesima disposizione, con la conseguenza che tale effetto non si verifica (neppure parzialmente) se il pagamento non interviene nei suddetti termini e modi (nel senso che in ipotesi di definizione ex art. 9 bis il pagamento rateale determina la definizione della lite solo se integrale v. Cass. n. 20745 del 2010).

Peraltro, essendo l’istanza del contribuente elemento indefettibile del condono e motore dell’intera procedura, il perfezionamento di quest’ultima deve essere valutato in rapporto all’istanza suddetta, con la conseguenza che il mancato pagamento della somma integrale dovuta sulla base di detta istanza comporta l’inefficacia della medesima siccome formulata, con conseguente perdita (in mancanza di espresse previsioni in senso contrario) della possibilità di avvalersi della definizione agevolata.

E’ infine appena il caso di aggiungere (ribadito, per quanto sopra esposto, che le previsioni di cui alla citata L. n. 289 del 2002, artt. 8, 9, 15 e 16, non possono applicarsi in via analogica ad altre diverse forme di definizione) che proprio l’espressa previsione nelle citate disposizioni – non in altre e, segnatamente, non nell’art. 9 bis in esame – costituisce un argomento a contrario di notevole spessore per affermare che, in ipotesi di condono diverse da quelle contemplate nelle suddette previsioni, l’omesso versamento delle rate successive alla prima entro le date indicate determina l’inefficacia integrale della definizione. Deve infine ritenersi inammissibile la censura di contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta invalidità ed inefficacia della dichiarazione integrativa di condono, posto che il vizio dedotto attiene non all’accertamento in fatto bensì alla motivazione in diritto della decisione e che, come peraltro già sopra rilevato, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora il ricorrente prospetti un difetto di motivazione che non riguarda un punto di fatto bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità, investito a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che anche l’eventuale mancanza, insufficienza, erroneità o contraddittorieta di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia comunque pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 12753 del 1999).

Solo per mera completezza si aggiunge che la denuncia di vizio di motivazione risulta a fortìori inammissibile per mancanza della esposizione chiara e sintetica del fatto controverso e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittorìa, essendo peraltro appena il caso di sottolineare che l’indicazione de qua deve sempre avere,s ad oggetto (non più un “punto” o una questione ma, appunto) un fatto preciso, inteso sia in senso naturalistico che normativo, ossia un fatto “principale” o eventualmente anche “secondario”, purchè controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo l’indicazione di fatti precisi rispetto ai quali la motivazione risulti viziata, ma anche l’evidenziazione della carattere decisivo e della natura controversa dei medesimi fatti).

Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 3, dello statuto dei diritti del contribuente e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, oltre che vizio di motivazione, la ricorrente si duole che i giudici d’appello non abbiano annullato o disapplicato le sanzioni afferenti l’Irap irrogate prima del 17.06.2005 nonchè i relativi interessi, posto che la necessità di ricorrere alla Corte di Giustizia per sentire sancita la legittimità dell’Irap rendeva oggettivamente incerta l’effettiva applicazione della normativa italiana confliggente con quella Europea e che sul punto i giudici d’appello avrebbero contraddittoriamente motivato, per un verso affermando che non esistevano obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria e per altro verso affermando che solo a seguito della decisione della Corte di Giustizia CE del 6.10.2006 non sussistono più dubbi sulla legittimità dell’imposizione.

La censura è infondata.

Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’incertezza normativa oggettiva che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa (v. Cass. n. 24670 del 2007) e deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa della cui applicazione si tratta si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, gravando sul contribuente l’onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione (v. Cass. n. 22890 del 2006).

Nella specie la contribuente, sulla quale gravava il. relativo onere, non ha allegato la sussistenza di elementi oggettivi di confusione derivanti dalla incertezza ed equivocità del risultato ermeneutico conseguito attraverso il procedimento interpretativo, ma si è limitata ad allegare la pendenza di un giudizio dinanzi alla Corte di Giustizia CE, fatto che di per sè non denuncia nè determina incertezza interpretativa ed equivocità della norma, essendo compito istituzionale della Corte di Giustizia non quello di interpretare testi normativi ambigui, bensì quello di verificare se le denunciate norme delle legislazioni nazionali degli stati membri si pongano in contrasto con direttive comunitarie.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, il ricorso principale deve essere rigettato con assorbimento dell’incidentale siccome condizionato. Considerato che, in relazione ad alcuni dei motivi proposti, non vi era, al momento della presentazione del ricorso per cassazione, giurisprudenza consolidata, si ritiene di disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Rigetta il principale, dichiara assorbito l’incidentale e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2011

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