Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22248 del 14/10/2020

Cassazione civile sez. II, 14/10/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 14/10/2020), n.22248

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23331-2019 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IPPOLITO NIEVO 61/D,

presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA DE ANGELIS, rappresentato e

difeso dall’avvocato LAURA ARCULEO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE MILANO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2660/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 17/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/07/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 17 giugno 2019, respingeva il ricorso proposto da F.A., cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Milano aveva rigettato l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. La Corte d’Appello condivideva il giudizio di inattendibilità espresso dal Tribunale e dalla Commissione territoriale circa la storia personale dell’appellante. Il racconto non era credibile per le numerose contraddizioni e inverosimiglianze delle dichiarazioni rese in sede di audizione che deponevano nel senso della totale incoerenza e inattendibilità, sicchè non poteva accogliersi la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.

Quanto alla protezione sussidiaria la Corte rilevava che non emergevano dal racconto del richiedente informazioni precise circa un pericolo nei suoi confronti di condanna a morte o di una forma di pena o trattamento inumano e degradante. Inoltre, sulla base dei dati accessibili, era da escludere la presenza nel (OMISSIS) di una situazione di violenza indiscriminata dettata da un conflitto armato internazionale o interno.

Infine, non poteva trovare accoglimento neanche la domanda di concessione di un permesso per motivi umanitari, in quanto non sussisteva una situazione di particolare vulnerabilità presupposto per l’accoglimento. Nella specie, infatti, non erano state allegate specifiche condizioni soggettive in grado di giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, nè sotto il profilo soggettivo, nè sotto il profilo oggettivo.

3. F.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: omessa valutazione di fatti decisivi per il giudizio risultante dagli atti di causa ex art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento al rigetto della protezione umanitaria.

A parere del ricorrente sussistono i presupposti per ritenere la particolare condizione di vulnerabilità necessaria ai fini della concessione del permesso umanitario. In particolare, la situazione del (OMISSIS), lo sradicamento del ricorrente dal paese d’origine dal quale manca da più di cinque anni e il fatto che l’allontanamento era avvenuto in età giovanissima. Inoltre, il richiedente lavora stabilmente da anni in Italia e parla la lingua italiana meglio di quella veicolare del suo paese di origine peraltro la Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare i documenti prodotti dalla parte in relazione al processo di integrazione maturato dal richiedente.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: art. 360 c.p.c., n. 5 omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente.

La Corte, secondo il ricorrente, non ha compiuto alcuna comparazione dei documenti attestanti lo stato di vulnerabilità anche in considerazione del livello di integrazione raggiunto da richiedente in Italia rispetto alla situazione del paese d’origine. Sul punto mancherebbe una motivazione adeguata avendo la Corte d’appello utilizzato formule stereotipate. Non sono neanche indicate le attività ed i corsi svolti in Italia dal richiedente non è mai nominata la sua attività lavorativa peraltro ampiamente documentata.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, all’art. 10 Cost. e al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 10.

Omessa valutazione delle prove offerte dalla difesa del ricorrente in funzione dell’applicabilità della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria. Illegittima applicazione dei criteri di valutazione della credibilità del ricorrente ed omesso accertamento delle condizioni di riconoscimento del permesso umanitario scrutinato solo in modo apparente.

La censura si incentra sulla valutazione di inattendibilità del ricorrente in violazione ai parametri legali e alla vicenda narrata via via più dettagliata con l’acquisizione di una migliore capacità di espressione e di racconto del richiedente. Non vi era alcuna contraddizione e la dichiarazione era stata confermata anche in appello, soprattutto in relazione alla attività di prostituzione della madre. Questo dato aveva portato ad una situazione di totale emarginazione e di esclusione dalla vita sociale con ripetuta denigrazione e diffamazione, tanto da far maturare al richiedente l’intento di lasciare il paese. Il tutto in un contesto sociale come quello del (OMISSIS), difficile, pericoloso, privo di tutele e di riconoscimento dei diritti umani.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 come modificato dal D.Lgs. n. 142 del 2015, violazione artt. 6 e 13, Cedu, art. 47Carta di Nizza e art. 46 direttiva 2013/32/Ue.

Il ricorrente lamenta che l’eccessiva durata del giudizio non possa andare in danno del richiedente che al momento della domanda aveva 19 anni e, alla data della sentenza di appello, 23 anni.

In questo lasso temporale il ricorrente si è radicato nel territorio e la Corte d’Appello non ha preso in esame questo aspetto.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. art. 8, comma 3.

La Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare la documentazione relativa alla condizione sociopolitica aggiornata del (OMISSIS) e avrebbe omesso di svolgere un’indagine attuale sull’esistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Era necessario invece assumere informazioni aggiornate sulla condizione esistente in (OMISSIS) sotto l’aspetto economico sociale e politico, neanche riferita al periodo in cui il ricorrente era stato costretto a scappare. La decisione non è stata, dunque, contestualizzata nè alla data della decisione, nè a quella dell’uscita dal paese del richiedente e senza l’utilizzo delle esatte informazioni sulla situazione del paese di provenienza come previsto dall’art. 8, comma 3 D.Lgs. citato.

6. I cinque motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili, anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, come interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 7155 del 2017.

Quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente, essa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che la Corte d’Appello di Milano ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito. In particolare, con riferimento alla documentazione prodotta nel giudizio, da un lato deve osservarsi che il ricorrente non l’ha riprodotta nel ricorso per cassazione, e dall’altra che la Corte d’Appello non ha un onere di motivare in relazione ad ogni elemento istruttorio.

La Corte d’Appello ha fatto esplicito riferimento alle fonti internazionali dalle quali ha tratto la convinzione che il (OMISSIS) non sia una zona rientrante tra quelle di cui al D.Lgs. n. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali del (OMISSIS), benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019, a meno che la non credibilità investa il fatto stesso della provenienza da un dato Paese).

Deve ribadirsi che in tema di protezione sussidiaria, anche l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui alla norma citata, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018). Il ricorrente si limita a dedurre genericamente la violazione di norme di legge, avuto riguardo al non aver tenuto conto della situazione generale del paese di origine.

Inoltre, con riferimento alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), deve evidenziarsi che il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile e che in tal caso non si impone l’esercizio dei poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva.

4. In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa.

La pronuncia impugnata, dunque, risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

La documentazione relativa al processo di integrazione è stata valutata dalla Corte d’Appello che ha espressamente affermato che i corsi e i lavori intrapresi non erano sufficienti per la concessione del beneficio.

5. In conclusione il ricorso è inammissibile.

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020

 

 

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