Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22245 del 04/08/2021

Cassazione civile sez. lav., 04/08/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 04/08/2021), n.22245

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25058-2017 proposto da:

L.E., L.R., nella qualità di eredi di

C.C., domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato EMILIA BONFIGLIO;

– ricorrenti –

contro

G.G., O M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

RIMINI 14 SC B, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CARUSO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 243/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 27/04/2017 R.G.N. 1125/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/12/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’appello di Messina confermava la pronuncia del giudice di prima istanza con cui era stata accolta la domanda proposta da G.G. nei confronti di C.D., onde conseguire il pagamento di differenze retributive spettanti in relazione al rapporto di lavoro intercorso fra le parti nel periodo 1/11/2002-31/12/2006 ed alle mansioni di pasticciere espletate.

A fondamento del decisum la. Corte distrettuale ribadiva la applicabilità al rapporto di lavoro oggetto di scrutinio, del c.c.n.l. settore Turismo pubblici esercizi, essendo stato acclarato che il C. svolgeva sia attività di laboratorio che di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, attività quest’ultima non compatibile con la definizione di impresa artigiana e la consequenziale disciplina contrattual-collettiva ritenuta applicabile dal datore di lavoro, la quale concerneva invece, esclusivamente le attività d’impresa che avessero ad oggetto la produzione di beni, prestazioni o servizi.

Condivideva quindi, gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza in tema di accertamento di tempi e modi di erogazione della prestazione lavorativa, anche mediante la tecnica istruttoria adottata per ragioni di economia processuale, di utilizzazione di prove raccolte in diversi giudizi. Reputava, infine, privo di valenza abdicativa dei diritti azionati, l’atto di quietanza liberatoria sottoscritto dal lavoratore al momento di cessazione del rapporto.

Avverso tale decisione L.E. e L.R. quali eredi di C.C. interpongono ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 113 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di esaminare un fatto decisivo per il giudizio, mancando di pronunciarsi sulla eccezione di nullità del ricorso sollevata da parte appellante con riferimento alla mancata produzione in giudizio dei contratti collettivi ai quali il ricorrente aveva ancorato le proprie pretese, invocandone l’applicazione, risultando versato in atti solo il c.c.n.l. dei dipendenti settore turismo del 1999.

2. Il motivo palesa profili di inammissibilità.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3 o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello.

La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo (vedi ex plurimis, Cass. 27/01/2006 n. 1755, Cass. 4/12/2014 n. 25714, Cass.16/3/2017 n. 6835).

3. Il secondo motivo prospetta violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che la Corte di merito non abbia disposto buon governo della ripartizione dell’onus probandi in relazione alla individuazione delle ò disposizioni contrattual-collettive applicabili al rapporto di lavoro de quo. Si lamenta che sia stato ritenuto non assolto l’onere della prova in ordine alla natura artigiana dell’impresa esercitata dalla parte convenuta con inammissibile inversione dell’onere della prova e violazione del principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c.

4. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.

Deve rammentarsi che, secondo i principi affermati da questa Corte, da ribadirsi in questa sede, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo (cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni), non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (vedi Cass. 5/9/2006, n. 19064; Cass. 17/6/2013 n. 15107; Cass. 21/2/2018 n. 4241).

Ed è questo quanto verificatosi nel caso di specie, non avendo il giudice del merito operato alcuna indebita inversione di tale onere, trasferendolo sulla controparte; esso ha invece ritenuto che alla stregua delle acquisizioni istruttorie fosse stata dimostrata la sussumibilità del rapporto di lavoro inter partes nella sfera applicativa della contrattazione collettiva Turismo Pubblici Esercizi.

Ne’ appare appropriato il richiamo di parte ricorrente alla violazione del principio di non contestazione, riferito alla circostanza che la natura artigiana della attività d’impresa affermata dal datore di lavoro, non sarebbe stata oggetto di specifica contestazione da parte del dipendente.

Va infatti al riguardo considerato che il principio di non contestazione (il ò quale produce l’effetto della relevatio ab onere probandi) opera rispetto ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato e non anche in relazione a fattispecie il cui accertamento – come nella specie – abbia carattere valutativo, e che, pertanto, devono essere necessariamente ricondotte al “thema probandum”, la cui verificazione spetta al giudice (vedi Cass. n. 21460 del 2019, Cass. n. 21075 del 2016, Cass. n. 19181 del 2016).

5. Il terzo motivo concerne violazione degli artt. 1362,1363,1364 e 1366 c.c., art. 113 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha negato che la quietanza liberatoria versata in atti avesse valore di rinuncia all’esperimento di ogni ulteriore azione nascente dal rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

6. Il motivo è privo di fondamento.

Nella specie la Corte territoriale, in adesione a quanto già ritenuto dal Tribunale, ha plausibilmente escluso che il lavoratore, con la sottoscrizione dell’atto del 31/1/2007, avesse inteso rinunciare ad esperire ogni altra azione in ordine a pretese nascenti dal rapporto, ritenendo che il documento non rivestisse valenza diversa rispetto ad una mera dichiarazione di scienza.

Tanto in sintonia con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell’interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale (tra le altre v. Cass. n. 2146 del 2011; Cass. n. 729 del 2003) in quanto enunciazioni onnicomprensive sono assimilabili alle clausole di stile e non sono di per sé sufficienti a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato (Cass. n. 11536 del 2006; Cass. n. 10537 del 2004).

Solo nel caso in cui, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, nella dichiarazione liberatoria possono essere ravvisati gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto (vedi, per tutte, Cass. n. 9120 del 2015, Cass. n. 18094 del 2015); ipotesi questa, non riscontrata dal Collegio del merito nella fattispecie.

Ed al riguardo è bene rammentare – sulla premessa che l’interpretazione. di un atto negoziale è riservata alla competenza del giudice del merito (vedi ex aliis, Cass. n. 8586 del 2015; in precedenza Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006) – e può essere inficiata mediante la denuncia della violazione di regole di ermeneutica sotto il profilo del vizio di motivazione, che esigono una specifica indicazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (cfr. Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003).

Orbene, nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la ò Corte distrettuale, non risulta denunciata alcuna violazione delle regole legali dell’interpretazione né sono stata, evidenziate da parte ricorrente obiettive carenze o contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, essendosi i ricorrenti, nella sostanza, limitati a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole, ritenendo che l’atto sottoscritto dal lavoratore esprimerebbe una consapevole volontà abdicativa dei diritti poi rivendicati in giudizio. Ma per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, bensì una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (vedi Cass. n. 9120 del 2015; Cass. n. 10044 del 2010; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 10131 del 2006).

7. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 113,116 c.p.c.artt. 2697 e 2108 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si stigmatizza la statuizione attinente alla acquisizione probatoria di dichiarazioni testimoniali, tratte da diversi giudizi.

Ci si duole in particolare della non rigorosità delle prove acquisite in tema di lavoro straordinario e della inattendibilità delle testimonianze cd. reciproche rese dai testi A. e R. in favore del G., il quale aveva a propria volta reso testimonianza in favore loro.

8. La censura è priva di fondamento.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, invero, il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o anche fra altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, e può quindi trarre da esso elementi di convincimento ed anche attribuire valore di prova esclusiva (cfr. Cass. n. 11426/2006).

Deve, pertanto, ritenersi del tutto congruo ex se il procedimento di acquisizione di prove raccolte in diversi giudizi posto in essere dai giudici del gravame.

Non può poi, sottacersi che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi – che non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne “ex ante” la capacità a testimoniare (cfr. Cass. n. 19215 del 2015) – come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; tale attività selettiva si estende all’effettiva idoneità del teste a riferire la verità, in quanto determinante a fornire il convincimento sull’efficacia dimostrativa della fonte-mezzo di prova (vedi Cass. n. 16467, del 2017, Cass. n. 16056 del 2016).

Le critiche formulate sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, degradatiti in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione come definiti alla stregua della espletata istruttoria, tralignando dal modello legale di denuncia di un vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ma siffatte critiche non possono trovare ingresso, a maggior ragione nel regime di sindacato minimale ex art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. novellato (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014; Cass., Sez. Un., n. 9558 del 2018; Cass., Sez. Un., n. 33679 del 2018).

Nella specie, come fatto cenno nello storico di lite, la sentenza impugnata ha convalidato, sulla base della valutazione delle risultanze probatorie acquisite, gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza secondo cui le ampie acquisizioni istruttorie avevano consentito di acclarare con chiarezza tempi e modi di erogazione della prestazione lavorativa da parte del G. nel corso del rapporto, che rendevano ragione degli importi liquidati dal primo giudice in relazione al diritto azionato.

Conclusivamente, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2021

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