Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22240 del 26/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 26/10/2011, (ud. 27/05/2011, dep. 26/10/2011), n.22240

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18459-2006 proposto da:

MICROMAINT SRL in persona dell’Amministratore Unico pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 68, presso lo studio

dell’avvocato PUOTI GIOVANNI, che lo rappresenta e difende, giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 37/2006 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 09/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/05/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato LO MONACO, delega Avvocato PUOTI,

che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. La Micromaint s.r.l. propone ricorso per cassazione (successivamente illustrato da memoria) nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate (che non hanno resistito) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di rettifica Iva per l’anno 1997, la C.T.R., affermata la tempestività dell’appello dell’Agenzia per la ritenuta applicabilità alla fattispecie della sospensione dei termini di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16, lo accoglieva.

In particolare, i giudici d’appello nel merito ritenevano provata la legittimità del comportamento dell’amministrazione, in relazione ai dati emergenti dalla segnalazione dell’Ufficio Iva di Torino e dal p.v.c. redatto dalla G.d.F. di Pozzuoli, aggiungendo che il suddetto p.v.c., richiamato nell’avviso di accertamento, era stato sottoscritto dall’amministratore della Micromaint e da questo ricevuto in copia.

2. Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, art. 327 c.p.c., L. n. 289 del 2002, art. 16 nonchè art. 2697 c.c., la ricorrente si duole: 1) che i giudici d’appello non abbiano considerato che nella specie la sospensione dei termini non sarebbe applicabile per avere la ricorrente presentato, unitamente al ricorso introduttivo successivo alla entrata in vigore della L. n. 289 del 2002 – istanza di trattazione; 2) che i giudici d’appello abbiano omesso di verificare se L’Agenzia delle Entrate aveva fornito la prova della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della invocata sospensione e se tale prova poteva ritenersi raggiunta, 3) che i giudici d’appello non abbiano considerato che l’applicabilità della sospensione alle controversie che, come nella fattispecie, sono state introdotte successivamente alla entrata in vigore della L. n. 289 del 2002, si deve ritenere solo dalla data di entrata in vigore della L. n. 350 del 2003, con la conseguenza che, essendo stata la sentenza della C.T.P. depositata il 17.10.2003 e non essendo la lite definibile fino al 31.12.2003, fino a tale data era decorso il termine di impugnazione per 75 giorni, onde la sentenza doveva ritenersi passata in giudicato il 5.5.2005, mentre l’appello era stato proposto solo il 15 luglio 2005. Le censure esposte sono, anche prescindendo dai profili di inammissibilità connessi alla inadeguatezza dei relativi quesiti di diritto, infondate.

Preliminarmente, vertendosi in controversia relativa ad imposta sul valore aggiunto, giova innanzitutto precisare che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (v. SU n. 3676 del 2010), la L. n. 289 del 2002, art. 16, nella parte in cui prevede la definizione delle liti pendenti e le relative condizioni, nonchè la sospensione dei termini di impugnazione, non comporta una rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento dell’imposta (già effettuato e contestato nella sua legittimità), bensì la definizione di una lite in corso con il contribuente, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti. Esso, pertanto, nella parte in cui si riferisce alle controversie in materia di IVA, non può essere disapplicato per contrasto con la 6^ direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, neppure a seguito della sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, in causa C-132/06, con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 2 e 22 della 6^ direttiva cit.) della citata Legge, artt. 8 e 9, nella parte in cui prevedono la condonabilità dell’IVA alle condizioni ivi indicate, dovendo tale pronuncia essere interpretata restrittivamente.

Tanto premesso, quanto alla censura contrassegnata nella precedente esposizione col numero 1), anche prescindendo dal rilievo che non risulta dal ricorso il contenuto ed il tenore dell’istanza di trattazione asseritamente espressa nell’ambito del ricorso introduttivo, è sufficiente evidenziare che, fino alla data del 31.12.2003, la lite per cui è causa, introdotta con ricorso notificato il 31.01.2003, non era definibile e perciò neppure “sospendibile”, onde non può assumere rilievo in questa sede rilevano una istanza di trattazione non correlata, al momento della sua esposizione, ad una previsione legislativa di sospensione. In ogni caso, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, nello stabilire che “per le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente articolo sono altresì sospesi, sino al 1 giugno 2004, salvo che il contribuente non presenti istanza di trattazione, i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio”, deve essere interpretato nel senso della operatività della sospensione dei termini di impugnazione, con l’unica salvezza costituita dalla proposizione di specifica istanza di trattazione da parte del contribuente, non potendo dal comportamento del medesimo, che abbia reso inoperante la sospensione del pendente giudizio di appello, desumersi la volontà di rendere inoperante anche la sospensione del termine di impugnazione della conseguente sentenza (v. cass. n.. 4515 del 2009). Quanto alla censura contrassegnata nella esposizione che precede col numero 2), deve innanzitutto escludersi che i giudici d’appello abbiano violato l’art. 2697 c.c. attraverso una non corretta applicazione del principio concernente la distribuzione dell’onere della prova, in particolare non risultando che abbiano addossato tale onere a soggetto sul quale non gravava nè che, in ragione di una in ipotesi non corretta applicazione del relativo principio abbiano applicato una erronea regola di giudizio.

Deve altresì escludersi che i suddetti giudici abbiano omesso di accertare la sussistenza di tutti i presupposti necessari per l’applicazione della L. n. 289 del 2002 art. 16, comma 6, avendo la C.T.R. ritenuto applicabile nella specie la sospensione dei termini di cui al citato art. 16 ed avendo perciò preventivamente verificato la sussistenza di tutti i relativi presupposti. Peraltro la ricorrente, ove avesse ritenuto tale verifica viziata per erronea interpretazione delle norme concernenti i suddetti presupposti ovvero per omessa valutazione di fatti decisivi, avrebbe potuto censurare la relativa valutazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 e/o n. 5.

Quanto, infine, alla censura contrassegnata nella esposizione del motivo in esame col numero 3), occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49, nello stabilire che “le disposizioni della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, si applicano anche alle liti fiscali pendenti, come definite dal medesimo art. 16, comma 3, lett. a), alla data di entrata in vigore della presente legge”, vale a dire il 1 gennaio 2004, ha esteso l’ambito di applicazione del beneficio della definizione delle liti pendenti, introdotto con la normativa di condono recata dalla citata L. n. 289 del 2002, art. 16, alle controversie instaurate (come nella specie) nel corso dell’anno 2003, prima escluse dal condono stesso, con la conseguenza che anche ad esse, a decorrere dal 1 gennaio 2004, si applicano le previsioni ivi contenute, compreso, quindi, il comma 6 relativo alla sospensione dei termini di impugnazione (v. cass. n. 11056 del 2007 e n. 16222 del 2010). Tale giurisprudenza tuttavia non può essere interpretata nel senso (ad essa attribuito dalla ricorrente nella memoria difensiva) che per le controversie introdotte successivamente al 1 gennaio 2003 la sospensione dei termini si applica solo a decorrere dal 1 gennaio 2004 (data di entrata in vigore della L. n. 350 del 2003), bensì nel senso che, avendo la citata L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49 dichiarato l’applicabilità della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, anche alle controversie introdotte successivamente alla sua entrata in vigore, è sufficiente che, come nella specie è accaduto, i termini di impugnazione non siano ancora decorsi al momento della entrata in vigore della L. n. 350 del 2003 (1 gennaio 2004) perchè alle relative controversie (introdotte successivamente al 1 gennaio 2003) si renda applicabile il disposto dell’art. 16, comma 6, quindi la sospensione, siccome ivi prevista, dal 1 gennaio 2003 fino al 1 giugno 20004. Tale sospensione finisce dunque per ricevere una sorta di applicazione “a posteriori” in quanto, sia pure solo a decorrere dal 1 gennaio 2004 (data di entrata in vigore della L. n. 350 del 2003), essa, in virtù del combinato disposto della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, citata e L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49 della citata, diviene applicabile senza soluzione di continuità fin dal momento (successivo al 1 gennaio 2003) di introduzione della lite.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 324 e 346 c.p.c. oltre che vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che l’Agenzia delle Entrate aveva impugnato in appello solo una parte della statuizione di primo grado mentre i giudici d’appello si sarebbero pronunciati su tutta la statuizione.

La censura presenta diversi profili di inammissibilità, essendo peraltro sufficiente rilevare (anche prescindendo dalla inadeguatezza del quesito di diritto proposto e dalla mancanza del momento di sintesi richiesto dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c. in ipotesi di denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5) il difetto di autosufficienza, giacchè non risultano riportati in ricorso il testo dell’atto d’appello e della sentenza di primo grado al fine di consentire a questo giudice di valutare, sulla base del solo ricorso, la portata delle censure esposte e, in particolare, tra l’altro, la dedotta formazione di un giudicato interno.

Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, L. n. 241 del 1990, art. 3 e L. n. 212 del 2000, art. 7, la ricorrente sostiene che l’Agenzia delle Entrate non avrebbe adempiuto al proprio obbligo di motivazione in quanto nell’avviso opposto si faceva rinvio per relationem ad un p.v.c. mai notificato alla contribuente, mentre risultava invece regolarmente notificato alla predetta un p.v.c. cui nell’avviso impugnato non si era fatto alcun riferimento.

La censura è inammissibile. Anche volendo prescindere dalla genericità e mancanza di autonomia del quesito di diritto proposto, il motivo manca di autosufficienza, non essendo stato riportato in ricorso, neppure per stralcio, l’avviso della cui motivazione si discute. In proposito, deve preliminarmente rilevarsi che la dimostrazione della mancata conoscenza da parte del contribuente di atti ai quali si fa rinvio in un avviso non sarebbe di per sè sufficiente a provare il difetto di motivazione dell’avviso medesimo, essendo invece necessario dimostrare che l’avviso non contenga comunque gli elementi necessari ad esplicitare le ragioni che ne hanno determinato l’emissione, essendo ben possibile che gli atti in esso richiamati non siano indispensabili ad integrarne la motivazione o che in esso sia stato in ogni caso riportato il nucleo essenziale dei suddetti atti.

Tanto premesso, è sufficiente sottolineare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – che non è atto processuale, bensì amministrativo e la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso -, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. cass. n. 15867 del 2004).

Col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 57, nonchè art. 2697 c.c., oltre che vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che solo all’udienza in appello è stato prodotto per la prima volta il p.v.c. cui si riferiva l’avviso opposto, così violando il diritto di difesa della contribuente nonchè il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 57, oltre che 2697 c.c..

La censura, anche prescindendo dalla inadeguatezza del quesito di diritto proposto, è infondata.

Per quanto concerne la dedotta violazione del diritto di difesa per avere la società potuto apprendere solo con il deposito del p.v.c. in occasione dell’udienza in appello le motivazioni poste a base dell’avviso opposto, valgono le considerazioni esposte in relazione al motivo che precede, con particolare riguardo al difetto di autosufficienza, non potendo escludersi che, ad onta della mancata conoscenza del contenuto del p.v.c. de quo, l’avviso opposto contenesse comunque tutti gli elementi necessari a comprendere le ragioni che ne determinarono l’emissione o in ogni caso riportasse il nucleo essenziale degli atti ai quali aveva operato il rinvio.

Sul piano probatorio è poi da escludere sia la violazione dell’art. 2697 c.c. (non risultando che i giudici d’appello abbiano addossato l’onere probatorio a soggetto sul quale non gravava nè che, in ragione di una in ipotesi non corretta applicazione del principio di distribuzione del suddetto onere, abbiano affermato una erronea regola di giudizio) sia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, posto che, ai sensi del comma 3 del citato articolo, l’acquisizione d’ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce non un obbligo ma solo una facoltà discrezionale attribuita alle commissioni tributarie (v. tra le altre cass. n. 4617 del 2008). Quanto, infine, alla dedotta violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, è sufficiente evidenziare che nella specie non risultano proposte nuove domande o eccezioni, ma solo prodotti nuovi documenti e che l’art. 58, comma 2 fa salva in ogni caso la possibilità per le parti di produrre nuovi documenti in appello, nè, d’altro canto, la sentenza impugnata risulta in questa sede censurata per error in procedendo costituito dalla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32 – applicabile in virtù del richiamo operato dal citato D.Lgs. 546 del 1992, art. 61 alle norme relative al giudizio di primo grado – per essere stati in ipotesi i documenti depositati oltre il termine dei venti giorni liberi anteriori alla data di trattazione.

3. Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso deve essere rigettato. In assenza di attività difensiva nessuna decisione va assunta in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2011

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